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Eleonora de Conciliis – Nostra Signora Filosofia. Sul divenire donna del pensiero [Orthotes, Napoli 2019]

Questo libro, che Eleonora de Conciliis dedica al divenire donna del pensiero, è sostanzialmente un saggio sulla postura filosofica. L’autrice, infatti, attraverso il confronto con alcuni pensatori, quali Nietzsche, Foucault, Deleuze, Derrida e Sloterdijk, discute la posizione che il pensiero dovrebbe assumere quando si fa attraversare dalla domanda filosofica.

La questione, tuttavia, per come la pone de Conciliis, non è di facile soluzione poiché, a suo avviso, la domanda filosofica non solo non consente una facile “presa di posizione” – con tutto il riverbero semantico di tale frase – ma soprattutto si configura come un gioco crudele che indurrebbe il pensiero a un divenire metamorfico.

De Conciliis dedica da anni una costante attenzione alla questione della posizione che il pensiero filosofico debba assumere rispetto agli oggetti di cui si occupa e rispetto agli altri “saperi”. Nel corso degli anni ella ha teorizzato, e sperimentato, diverse posture, in particolare due: quella dell’ironia e quella del fossile (come si esprime nel suo Psyonet, pubblicato da Cronopio qualche anno fa) o del cadavere (che, anche in questo libro, è discussa attraverso un confronto con Sloterdijk). L’ironia ha avuto storicamente due grandi declinazioni semantiche, come è noto, quella socratica e quella romantica. Secondo la prima essa assume il significato del fingere e consiste nell’indossare una maschera per tendere un tranello all’avversario in una disputa e costringerlo, nel migliore dei casi, ad assumere la posizione del non sapere. Secondo la sua seconda accezione, invece, l’ironia è il sentimento dell’infinità dello spirito nei confronti della particolarità e finitezza delle sue stesse opere. Se nella prima connotazione semantica l’ironia serve a smontare ogni (presunto) sapere, nella seconda sembra manifestare l’inquietudine stessa della ricerca filosofica.

La postura del “cadavere” o, ancora di più, quella del “fossile”, è, invece, quella di chi finge di sottrarsi ai giochi mondani e, potremmo dire, “umani, troppo umani” in generale – compresi quelli che regolano i rapporti tra i pensatori e le pensatrici (e non solo in ambito accademico) –, per osservarli dalla massima distanza possibile, senza parteggiare teoreticamente né umanamente condividerne alcuno; anzi, essa è quella “posizione del morto” che assume la sua stessa possibile estinzione come punto di osservazione cinico e indifferente, oltre che paradossale.

Ora, Nostra Signora Filosofia, pur non abbandonando del tutto queste due posture classiche, ne propone un’altra, quella del divenire-donna o, per esprimerlo diversamente, quella della metamorfosi scritturale del pensiero, postura che consentirebbe di fare i conti decostruttivi, secondo de Conciliis, sia col sessismo filosofico maschile, sia col pensiero femminista, sia con la teoria lacaniana dei quattro discorsi (del maître, dell’università, dell’analista e dell’isterica), che, in questa prospettiva, assumono il significato di vere e proprie “posture” filosofiche.

La figura della metamorfosi, infatti, pur mantenendo le caratteristiche “teatrali” dell’ironia, si sottrae al rischio, sempre presente nelle posizioni ironiche, della propria mise en abîme e, quindi,  dell’evanescenza (come “decidere”, infatti, dove l’ironia ha termine in modo che possa filosoficamente dire qualcosa, dal momento che essa può sempre atteggiarsi a ironia dell’ironia e a ironia di se stessa?); e, pur riprendendo dalla postura del “cadavere” la necessità di prendere congedo dal pensiero comune, ne evita l’irrigidimento para-psicotico e, paradossalmente, da “anima bella”, tipico del filosofo (o della filosofa) che, mostrandosi come l’unico/a capace di vedere ciò che tutti gli altri non vedono, non solo finisce per isolarsi dal mondo (e godere di tale isolamento “veritativo”) ma finisce per trasformare la sua posizione cadaverica in un paradossale “sapere assoluto”. E, invece, l’autrice ritiene di poter declinare questa postura metamorfica rielaborando e, soprattutto, generalizzando la nozione deleuzeana del divenire-donna. Alla “postura” filosofica di chi parla “in nome della verità”, di chi parla in nome di una verità superiore e più autentica nei confronti delle parziali verità dei “saperi” non-filosofici, si oppone così una dichiarata im-postura. Posizione netta ma “filosoficamente” rischiosa questa assunzione dell’impostura e della simulazione – come attesta anche lo splendido dipinto di Lorenzo Lippi, “Allegoria della simulazione” (1642), che compare in copertina. Perché, se non ha il senso dell’abbandono della filosofia – non sembra questa la strada che ella intende percorrere – e se non ha il senso di una riproposta del paradosso del mentitore, allora assume la forma di una strategia di guerriglia filosofica contro chiunque si ponga nella posizione del maître, del maestro di pensiero. Il maestro è riconosciuto in quanto tale innanzitutto dagli allievi, che si sentono inferiori e in debito nei suoi confronti. Quando il maestro parla è “Nostra Signora Filosofia” che parla. Che sia maschio o femmina, potremmo dire, il “maestro” assume sempre, sincreticamente, le sembianze della “immacolata concezione” (non sono “io” ma è la Verità a parlare, e la Verità deriva solo da se stessa; io, il “maestro”, non ho maestri, mi sono fatto da solo) e quelle dell’esercizio di morte al corpo (io ti parlo da una dimensione di morte, di morte alla mortalità del tuo corpo). Il maestro può riconoscere il suo allievo o la sua allieva solo inferiorizzandolo/la, potremmo dire ritornando al lessico filosofico caro all’autrice – che, tra l’altro, è una teorica dei conflitti “comparativi”. Ecco allora la strategia metamorfica da lei messa in campo: per divenire-donna, la pensatrice deve imparare a fare due cose: a cedere sul proprio desiderio di riconoscimento, da un lato, e a “lavorare” crudelmente e teatralmente la sua inferiorità.

La strategia dell’impostura coniuga teatro e arti marziali potremmo dire. «Per rovesciare il Lacan del Seminario VII – ella scrive – per diventare filosofi bisogna cedere sul proprio desiderio di riconoscimento». Ma “cedere”, aggiunge, «vuol dire cadere, uscire dall’illusione pur fingendo ancora di soggiacervi» (p. 58). Per sfuggire alle seduzioni e al pericolo del discorso del maître bisogna fingere di desiderarne ancora il riconoscimento, quindi, ma lasciandolo teatralmente cadere, sfuggendo in questo modo al potere inferiorizzante del suo sapere veritativo, perché la postura metamorfica, imitando l’arte marziale dello judo, è capace di fingere di accettare la propria inferiorità (e la propria “caducità”) ma solo per far cadere l’avversario platealmente, teatralmente. Si vince davvero non quando si sfruttano le debolezze dell’avversario, ma quando si sfrutta a proprio vantaggio la sua forza, trasformandola nella propria. In tal modo l’avversario è davvero al tappeto, caduto grazie alla sua (presunta) forza. Ovviamente, sto interpretando, ma mi sembra questa, in estrema sintesi, la proposta di pratica filosofica di de Conciliis: una strategia di guerriglia ai detentori del Logos e alla loro (presunta) Verità.

Prima di riflettere sulle possibili conseguenze di una tale scelta “agonistica”, vorrei soffermarmi brevemente su una questione, apparentemente marginale, e, per così dire, di “tono”, del suo discorso complessivo. Sebbene, in varie occasioni, l’autrice affermi che il divenire-donna del pensiero sia una postura metamorfica che sfugge a una caratterizzazione di “genere” e che, quindi, possa essere assunta indipendentemente dal fatto che si sia maschi oppure femmine, il tono delle argomentazioni è a volte tale che sembra che il divenire-donna sia una possibilità quasi esclusivamente femminile (vedi, ad esempio, le pp. 58-59). Ma, lasciando sullo sfondo questa questione di “tono”, vorrei conclusivamente dire qualcosa di più generale sulle conseguenze di questa strategia metamorfico-teatrale che l’autrice propone nel suo libro. Se essa è, senza dubbio, una modalità di “soggettivizzazione” filosofica non solo utile, ma forse necessaria per sperimentare il pensare (il “che cosa significa pensare”) facendo cadere i maître dalla loro cattedra veritativa, in che modo può poi trasformarsi in una pratica filosofica in grado di dire qualcosa sul mondo che è, come sempre, inguaribilmente fuori dalle università, (come de Conciliis sa bene)? Cerco di spiegarmi meglio: il divenire-donna del pensiero è in grado di dire qualcosa sul mondo in generale oppure solo su se stesso, in quanto strategia di soggettivizzazione? Certo, la prospettiva di de Conciliis è dichiaratamente nicciana: bisogna abbandonare la domanda filosofica come domanda sul senso del mondo, perché il mondo non ha alcun senso. Tuttavia, abbandonare la ricerca della verità, in quanto ricerca di senso, implica che la filosofia non abbia, per ciò stesso, più niente da dire sul mondo? Che non sia in grado di elaborare neanche “verità parziali” e provvisorie su di esso? Una riflessione filosofica che sia quasi esclusivamente una riflessione sulla postura filosofica, non rischia forse di ridurre la ricerca filosofica a un infinito, e in fondo inefficace, riflettere sul suo riflettere?

Insomma, una volta stabilito che, per praticare la filosofia, bisogna essere “bastardi” – figli e figlie di tutti e di nessuno, senza riconoscersi in alcuna filiazione accademico-generazionale e senza, al contempo, desiderare di procreare allievi e allieve (vedi nota 27 a p. 63) – ed estimi (p. 57 sgg.) nei confronti del mondo accademico ma anche degli stessi “numi tutelari” con i quali si è iniziato a pensare, bisognerebbe poi rispondere alla domanda successiva: come dire qualcosa sul mondo, nonostante la morte di Dio? Questa domanda racchiude un altro problema, a mio avviso, oggi inaggirabile: qual è la relazione tra la filosofia e gli altri saperi? In sintesi: in che modo la filosofia può interagire con le scienze? In fondo, come si sa, l’intera storia della filosofia potrebbe essere interpretata come caratterizzata da una progressiva “autonomizzazione” dei “saperi”, cioè da un progressivo allontanamento di tutti gli ambiti di (parziale) verità (o di verità oggettuali, che è lo stesso) dalla (presunta) Verità. Tuttavia, basta avere un po’ di dimestichezza con questi saperi, per accorgersi di quanta (a volte implicita) filosofia ci sia in loro (ed Eleonora de Conciliis lo sa bene, data la sua costante attenzione alle scienze umane). Ma ciò significa, a mio avviso, che la filosofia, per continuare a dire qualcosa sul mondo, ha bisogno di ibridarsi di nuovo con gli altri saperi, senza alcuna pretesa di superiorità, ma accettando la sfida delle verità, “fino a prova contraria” potremmo dire. E, per farlo, deve ricominciare ad andare al di là del problema del suo semplice e soggettivo cominciamento.  

 Vincenzo Cuomo

S&F_n. 23_2020

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