La domanda da cui muove il saggio di Viveiros de Castro è quella che rappresenta l’ossessione fondativa e fondante di ogni studio antropologico che si rispetti: «qual è il debito concettuale dell’antropologia nei confronti dei popoli che studia?» (p. 27). La risposta, poi, è cercata all’interno di quella che l’autore si premura di definire una «alleanza mostruosa» (p. 193) tra il maestro dello strutturalismo in antropologia, Claude Lévi-Strauss, e il filosofo post-strutturalista, Gilles Deleuze (in compagnia, spesso e volentieri, di Felix Guattari). Un’impresa non da poco, come si potrà notare, niente più e niente meno che un tentativo di coniugare struttura e storia, quell’inghippo che è stato al centro di tutti i dibattiti sullo strutturalismo in tutte le sue forme (qual è – se è pensabile – la genesi della struttura?). La rifondazione dell’antropologia – questo il vero compito che si è affidato Viveiros de Castro (appoggiandosi, comunque, a una bibliografia molto avanzata, da Roy Wagner a Marilyn Strathern passando per Bruno Latour) – non può che passare per una «teoria-pratica della decolonizzazione permanente del pensiero» (p. 28). Ma cosa deve intendersi con questa espressione? Il libro dell’antropologo brasiliano è costantemente giocato su un doppio binario, una nuova alleanza tra filosofia e antropologia da un lato, e dall’altro un’analisi antropologica della specifica “filosofia” dei popoli amerindiani. Sullo sfondo, la necessità del superamento o del ripensamento di alcuni “concetti” fondativi della riflessione occidentale – questa la posta in gioco assoluta della ricerca.
Non si può, dunque, che partire da un’analisi dello sciamanesimo e della sua specifica “epistemologia”. Viveiros de Castro nota, innanzitutto, che nel multiculturalismo occidentale si annida una sorta di “errore epistemologico” fondativo (o forse di “presunzione epistemologica”) che implica una specifica razionalizzazione della realtà e dell’Altro: per l’occidentale, conoscere significa essenzialmente oggettivare, scremare dall’oggetto conosciuto quanto appartiene al soggetto conoscente, in vista della costituzione dell’Altro da sé (materiale o immateriale, naturale o culturale, oggetto o soggetto) come cosa; in più, lo stesso processo di soggettivazione che avviene a partire da questa specifica epistemologia muove proprio dalla trasformazione in cosa dello stesso soggetto conoscente – insomma, il problema antropologico che Michel Foucault aveva trovato come fondante la stessa modernità occidentale. Ebbene, l’esperienza sciamanica ci pone dinanzi a quella che può essere definita un’epistemologia altra: conoscere non significa ridurre a cosa, ma produrre un movimento di personificazione, cioè assumere lo specifico punto di vista, la “prospettiva”, di ciò che deve essere conosciuto, un “ciò” che si configura sempre come un “colui”, proprio perché personificato. L’opposizione non potrebbe essere più radicale: per gli occidentali «la forma dell’Altro è la cosa», per gli amerindiani «la forma dell’Altro è la persona» (p. 47) – le implicazioni politiche di queste affermazioni, seppur non effettivamente trattate dall’autore, possono essere scorte con una certa chiarezza.
Fondamentale, per comprendere questa “differenza di natura” epistemologica, è l’analisi di alcune concettualizzazioni che Viveiros de Castro prende in prestito da Roy Wagner: soprattutto il rapporto, che è alla base della cultura occidentale e di ogni cultura, tra quella che può essere chiamata l’esperienza del corpo e quella che può essere chiamata l’esperienza dell’anima. Ancora una volta, il confronto è tra due prospettive assolutamente differenti: per l’occidentale e nella sua ontologia, il corpo appartiene all’ambito della natura, rappresenta la posizione dell’innato e della spontaneità, mentre l’anima appartiene all’ambito della cultura, rappresenta la posizione di ciò che viene costruito e che può essere modificato; per l’amerindiano e nella sua ontologia, invece, l’anima appartiene all’ambito dello stabile e del permanente, mentre il corpo appartiene all’ambito di ciò che può essere ricondotto alla responsabilità dell’attore – insomma, se il compito dell’occidentale è quello di modificare le esperienze della propria anima, quello dell’amerindiano è di modificare le esperienze del proprio corpo; nei termini che vengono utilizzati nel testo, una nuova contrapposizione: “fare dei corpi” nell’esperienza indigena contro “fare delle anime” nell’esperienza occidentale. L’impostazione che segue Viveiros de Castro risente chiaramente di tutta l’antropologia francese, la quale, sin dai tempi di Marcel Mauss, aveva compreso che il corpo è oggetto di trasformazione/manipolazione tecnica e culturale, e che, forse, è proprio nel corpo che si annida il problema della soggettivazione umana, di quell’uomo totale che sembra essere sempre sfuggente. L’analisi dell’antropologo brasiliano, dunque, intende accedere a un nuovo concetto di prospettivismo, che, muovendo dalle analisi di Deleuze-Guattari, rovescia il senso che siamo abituati a dare a questa espressione: il problema della prospettiva, infatti, non risiede nel fatto che esiste una realtà oggettiva (se si vuole, uguale per tutti) e diversi punti di vista su di essa (il classico esempio della medesima città vista da punti di osservazione differenti), non si tratta né di Leibniz né in ultima istanza di Nietzsche, ma il tutto si gioca nel fatto che «tutti gli esseri esistenti sono centri di intenzionalità che comprendono gli altri esseri esistenti secondo le loro rispettive potenze e caratteristiche» (p. 42) per cui il soggetto non è nulla di predefinito, ma è una posizione che permette di accedere a un particolare punto di vista, a una particolare prospettiva, il dispositivo mediante il quale è possibile questo “accedere” è ovviamente il corpo. Analizzando le esperienze proprie dei popoli amerindiani, si scopre che il concetto di persona può riguardare entità non umane e può non riguardare altri gruppi umani – in parole semplici, il concetto di persona è più vasto e antecedente logicamente e cronologicamente a quello di umano.
A questo punto, dovrebbe essere chiaro anche il concetto di “metafisica cannibale”, propria dei popoli amerindiani: conoscere significa, come abbiamo visto, personificare, personificare significa cannibalizzare il punto di vista di ciò o di chi viene conosciuto – questo ribaltamento nell’approccio all’alterità (l’Altro come persona e non come cosa) trova delle assonanze con la filosofia di Deleuze e Guattari.
Il saggio di Viveiros de Castro consta, allora, di quattro parti che scandiscono il progetto, per il momento mancato, della costruzione di un’opera che, in assonanza con una delle più famose di Deleuze e Guattari, andrebbe (se vedesse la luce) sotto il nome di L’anti-Narciso. La prima parte è quella che contiene la cassetta degli attrezzi per “provare” una rifondazione dell’antropologia a partire dalle metafisiche amerindiane: troviamo il concetto di prospettivismo e quello connesso di multinaturalismo (in occidente, a cambiare sono le culture – dunque multiculturalismo; nei popoli amerindiani, a cambiare sono le nature – dunque multinaturalismo), ma soprattutto un’immagine differente dell’idea di Lévi-Strauss di pensiero selvaggio secondo la quale essa «deve essere intesa come progetto di una diversa immagine del pensiero e non di una diversa immagine del selvaggio» (p. 64). La seconda parte, dal titolo programmatico di “Capitalismo e schizofrenia da un punto di vista antropologico”, intende lavorare intorno all’importanza antropologica della filosofia di Deleuze e Guattari e non soltanto laddove essa tratta specificamente i temi dell’antropologia: l’analisi verte intorno ai concetti di molteplicità e prospettivismo, di alleanza e filiazione, di intensivo (virtuale) e estensivo (reale). La terza parte cerca di lavorare intorno all’alleanza demoniaca tra Deleuze/Guattari e Lévi-Strauss: si inizia con il problema del rapporto tra totemismo e sacrificio per approdare alle forme di sciamanesimo orizzontale, verticale e trasversale, arrivando alla teoria dei divenire, al superamento del concetto di produzione e alla questione delle condizioni intensive del sistema. La quarta e ultima parte, infine, cerca di definire il senso complessivo di questo approccio post-strutturalista all’antropologia: «L’anti-Narciso, quindi, non è né uno studio della “mentalità primitiva”, né un’analisi dei “processi cognitivi” indigeni: il suo oggetto, più che il modo di pensare indigeno, è dato dagli oggetti di tale pensiero, dal mondo possibile che i suoi concetti proiettano» (pp. 163-164) per cui «il pensiero indigeno […] deve essere preso […] come una pratica del senso» (p. 171).
L’edizione è poi arricchita da una prefazione di Mario Galzigna, che cerca di puntualizzare la complessità filosofica dell’opera di Viveiros de Castro, e da una postfazione di Roberto Beneduce, che cerca di intravedere quanto di progressivo può esservi all’interno di un’impostazione di pensiero di questo tipo: «Il prospettivismo, a certe condizioni, è un’arma efficace per pensare un’antropologia all’altezza dei rischi che assediano il nostro presente […] l’interesse per certi versi sorprendente che esso ha suscitato nel dibattito antropologico contemporaneo ha forse a che fare […] con l’accresciuta consapevolezza della crisi ecologica del nostro tempo […] e di un’ansia legittima per le minacce che incombono sulla riproduzione sociale stessa […] oltrepassare la separazione tra natura e cultura, assumere il punto di vista del nemico (anche quando è stato sconfitto…), fa della proposta di Viveiros de Castro un programma in grado di scrutare altri orizzonti di conflitto, altre apocalissi, e generare preziose alleanze» (p. 226).
Concludendo, si tratta di un’opera di grande interesse e non soltanto per l’ambito disciplinare dell’antropologia, ma per tutte le scienze umane e sociali e per la filosofia stessa: l’alleanza mostruosa tra Lévi-Strauss e Deleuze/Guattari rappresenta la mostruosità dell’alleanza tra la filosofia e l’antropologia, in vista di una riflessione che possa condurre a un mutamento dello sguardo occidentale sull’Altro, portando con sé (necessariamente e va da sé), una trasformazione della filosofia occidentale. L’evento della scoperta dell’America, della scoperta dell’Altro, è stato fondativo per la costruzione della razionalità occidentale (Cartesio senza i cannibali sarebbe pensabile? piccolo esercizio di assurdo filosofico) e della supremazia tecnico-economica occidentale sul mondo intero, ma il suo potenziale può esplodere da un momento all’altro: a quale o quali razionalità ci permetterebbe di accedere questo approccio post-strutturalista? A quali rivoluzioni economico-politiche potrebbe portare questa prospettiva? L’opera di Viveiros de Castro sembra già avere il respiro di una traccia che viene portata alla luce: bisogna però capire traccia di cosa possa essere.
Delio Salottolo
S&F_n. 19_2018