L’esistenzialismo analitico di David Benatar affronta una delle questioni fondamentali di ogni pensare: il senso dell’esistenza umana. Lo fa al modo appunto analitico, vale a dire con una serie di sic et non, di tesi che vengono vagliate nella loro logica, nello loro plausibilità argomentativa, nelle loro eventuali contraddizioni e mancanze oppure solidità e coerenze.
I principali dispositivi concettuali sono l’asimmetria, la qualità della vita, il senso della vita, l’opzione antinatalista. Ne scaturisce quello che lo stesso Benatar definisce «un lavoro di filosofia impopolare» (p. 43), che nulla concede a illusioni e consolazioni ma che evita anche di cadere nel silenzio e nell’assurdo. Si tratta dunque di «accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera» [G. Leopardi, «Dialogo di Tristano e di un amico», in Operette morali (1834), a cura di P. Ruffilli, Garzanti, Milano 1982, p. 377]
L’asimmetria riguarda varie questioni, tra le quali: l’inconsistenza, pochezza e incertezza della gioia e la densità, vastità, certezza della sofferenza; il dovere di ridurre o di evitare il venire al mondo di persone sofferenti e l’assenza invece del dovere di generare persone felici; il fatto evidente che l’animale divorato soffre e perde qualcosa di definitivo che invece a chi lo divora serve soltanto per continuare a vivere sino al successivo pasto; l’errore dell’argomento di Lucrezio che consiste nel ritenere giustamente che la non esistenza pre-vita non sia un male ma nel credere per questo che neppure l’inesistenza post-mortem lo sia. Infatti «se la morte comporta effettivamente delle privazioni per colui che muore, la non esistenza pre-vita non comporta alcuna privazione» (p. 166) e «la morte è un male non solo perché comporta delle privazioni, ma anche perché annichila. La non esistenza pre-vita non annichila – e non potrebbe farlo in alcun modo. Se non fossimo mai venuti al mondo, nessun interesse sarebbe stato frustrato. […] Tuttavia, una volta che esistiamo, acquisiamo e poi abbiamo un interesse nel continuare a esistere» (pp. 168-169). In generale, e soprattutto, «quando una persona non viene portata al mondo, non vi è alcun costo per quella persona, dal momento che non sarà mai esistita. Quelli che non esistono non hanno alcun interesse a venire all’esistenza. Al contrario, una volta che si è venuti all’esistenza, solitamente si ha un interesse a continuare a esistere. Diversamente dal non essere mai venuti all’esistenza, cessare la propria esistenza è tragico. Una ragione per cui è tragico è che comporta l’annichilimento di colui che muore» (p. 240).
A una indagine lucida e, appunto, candid, “disincantata” la qualità della vita umana non può che apparire nei suoi tratti effettivamente drammatici: «La qualità della vita umana è, contrariamente a quanto molte persone pensano, in realtà piuttosto terribile. […] Io credo che mentre alcune vite siano effettivamente migliori di altre, nessuna è (non considerata comparativamente ma oggettivamente) buona» (p. 111). Questa affermazione viene da Benatar argomentata lungo molte pagine e innumerevoli esempi e ragionamenti.
Alla qualità della vita si lega profondamente il problema del suo senso. Questo non significa che le due questioni coincidano. Tutt’altro. Si possono avere vite qualitativamente infime che però alla percezione di chi le vive appaiano sensate e vite colme di senso la cui qualità è oggettivamente bassa. In ogni caso bisogna sgomberare il campo da una posizione che a un’analisi rigorosa appare insostenibile e fondata su presupposti soltanto fideistici: la presunta sacralità della vita, principio al quale va sostituita appunto la questione della sua qualità.
Qui l’analisi diventa molto rigorosa, distinguendo Benatar quattro significati e ambiti del senso, cha vanno dal più universale al più circoscritto. Può esserci senso o mancanza di senso dal punto di vista dell’universo – sub specie aeternitatis –, dell’umanità – sub specie humanitatis –, delle comunità umane definite –sub specie communitatis, dei singoli individui – sub specie hominis. Se la vita è quindi priva di un significato assoluto, sono in ogni caso possibili vari e differenti significati relativi. Certamente l’esistere umano, come quello di ogni altro vivente sulla Terra, «non ha alcun significato dal punto di vista cosmico. […] Noi siamo insignificanti granelli in un immenso universo che è completamente indifferente verso di noi. Il limitato senso che le nostre vite possono avere è effimero, non duraturo» (p. 48). È possibile invece, per quanto sempre difficile, trovare e inventare i significati che le vite assumono per la storia umana, per le persone e le comunità delle quali si è sodali e parte, per il senso interiore che ciascuno riesce a dare alla propria persona. In ogni caso, questi tre ultimi significati circoscritti sono destinati a dissolversi nel tempo. Se «venire al mondo è un evento improbabile; invece nulla potrebbe essere più certo della nostra fine. […] Qualsiasi organismo (multicellulare) venga all’esistenza cessa anche di esistere. Siamo condannati fin dall’inizio. Inoltre, c’è qualcosa di ridicolo nella serietà dei nostri sforzi» (p. 60). E questo vale non soltanto per le singole esistenze ma per quelle di qualunque organismo sociale e culturale collettivo e per l’intera presenza dell’Homo sapiens sul pianeta. Non foss’altro perché tutte le specie si estinguono e in ogni caso il Sole si spegnerà. Di fronte a tale Sein-zum-Tode inevitabile e universale, «sarà come se non ci fossimo mai stati» (p. 245).
Da questi tre elementi – asimmetria, qualità e senso della vita – discende la necessità del quarto: l’antinatalismo. Vale a dire «la prospettiva secondo la quale mettere al mondo nuovi esseri viventi è sbagliato, sotto il profilo morale», come scrive Luca Lo Sapio nella sua introduzione (p. 21), che ha il pregio di costituire anche un limpido saggio introduttivo al pensiero di Benatar. Il quale ha scritto un fondamentale libro dedicato all’antinatalismo: Better Never to Have Been: the Harm of Coming into Existence (2006) [Trad. italiana di A. Cristofori, Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo, Carbonio Editore, Milano 2018. Su questo volume si può leggere una mia analisi in Liberazioni. Rivista di critica antispecista, anno X / n. 38 / Autunno 2019, pp. 37-40].
Gli esiti di quella indagine sono qui ripresi e sintetizzati anche in questo modo: «Quale risposta si dovrebbe dare alla difficile condizione umana? Una risposta immediata è quella di desistere dal perpetuarla creando nuovi esseri umani che inevitabilmente incorreranno nella stessa condizione. Ogni nascita è una morte che attende di attuarsi» (p. 252). La procreazione appare come un vero e proprio virus che si diffonde inarrestabile, portato da coloro che ne sono stati infettati: «Un altro modo in cui l’agentività gioca un qualche ruolo nella difficile condizione umana è la procreazione, il ‘virus’ sessualmente trasmesso che diffonde l’esistenza e diffonde con essa anche la difficile condizione esistenziale» (p. 248).
Di fronte a tali consapevolezze si alzano da sempre la potenza dell’impulso biologico a procreare e le illusioni sia teistiche sia ateistiche o agnostiche.
Per i teismi «noi siamo al servizio non solo di uno scopo cosmico ma divino. Questo è un pensiero seducente e confortante. Fosse solo per questa ragione, dovremmo essere diffidenti visto quanto è facile per gli esseri umani credere in quello che desiderano credere» (p. 80), anche perché «se amare o servire Dio è il nostro scopo, l’atto di crearci sembra quello di un essere supremamente narcisistico piuttosto che supremamente benevolo» (p. 82).
Il mondo dei viventi – che è un risultato delle leggi fisiche e dell’evoluzione biologica, strutture incontrollabili e del tutto indifferenti –, dal punto di vista umano sembra piuttosto frutto di un funesto demiurgo, come molte tradizioni hanno sostenuto: «Sarebbe in effetti meraviglioso se vi fosse un Dio benevolo che ci avessi creati per una buona ragione e si prendesse cura di noi come un genitore amorevole farebbe con i suoi figli. Tuttavia, il modo in cui il mondo è ci fornisce numerose prove che le cose non stanno così. […] Questo non sembra affatto un mondo creato da una divinità benevola con illimitata conoscenza e potere» (pp. 85 e 88).
Il disincanto di Benatar gli permette di delineare una vera e propria geneaologia dell’illusione, così formulata:
Anche se noi possiamo avere collettivamente qualche effetto sul nostro pianeta, non abbiamo alcun impatto significativo sul più ampio universo. Nulla di ciò che facciamo sulla Terra ha qualche effetto al di là di essa. L’evoluzione della vita, inclusa la vita umana, è un prodotto di forze cieche e non è al servizio di alcuno scopo evidente. Noi esistiamo ora, ma non esisteremo per molto tempo. Questo è vero di noi in quanto individui, ma nella scala enorme dei tempi del pianeta, per non parlare dei tempi cosmici, questo è vero per la nostra specie e per ogni vita.
La vita terrestre è pertanto senza significato, importanza o scopo al di là del nostro pianeta. Poiché questo è vero per ogni vita, è vero per ogni vita senziente, ogni vita umana e ciascuna vita individuale. Né la nostra specie né i suoi membri hanno rilevanza sub specie aeternitatis. Qualsiasi altro tipo di senso le nostre vita possano avere, l’assenza di questo senso è molto disturbante per molti.
Tuttavia la natura umana tende ad aborrire il vuoto di senso –horror vacui. Ci sono forti impulsi psicologici che spingono la maggior parte delle persone, ma non tutte, a far fronte a questo o rifiutando il vacuo o rifiutando la sua importanza (p. 80).
Le forme dell’illusione non sono soltanto teistiche. Vi rientrano pienamente prospettive come il transumanismo o la criopreservazione, versioni secolarizzate della fede nella resurrezione dei corpi o almeno della sopravvivenza per sempre di un’anima, vere e proprie espressioni di un millenarismo secolare.
Le conseguenze in ambito pratico di queste analisi sono assai consistenti. È evidente infatti che anche se il suicidio è un male perché anticipa l’annichilimento del soggetto che lo compie, «data la determinazione che alcune persone devono raccogliere per togliersi la vita, combinata con il senso di inutilità o la gravità delle loro condizioni, potrebbe essere che il suicidio – quantomeno in alcuni casi – sia effettivamente, rispetto al rimanere in vita, l’opzione più coraggiosa» (p. 223). Ne segue che in una società decente eutanasia e suicidio assistito dovrebbero essere del tutto legittime, sia dal punto di vista morale sia da quello giuridico. Anche perché «negare alle persone la libertà morale di uccidersi significa negare il controllo su una decisione di immensa importanza per loro» (p. 241).
Va quindi detto che al di là di concetti banali e ambigui come “pessimismo” e “ottimismo”; al di là di analgesiche illusioni tecnologiche, religiose e psicologiche; al di là della disperazione costante o della fiducia ebete, «c’è in effetti un’ampia gamma di risposte lungo tutto uno spettro che va dall’ottimismo del tutto fantasioso al pessimismo suicida» (p. 256).
La sintesi del libro si trova nel suo incipit: «Nasciamo, viviamo, soffriamo lungo il tragitto, e poi moriamo – obliati per il resto dell’eternità. La nostra esistenza non è che un balugino nel tempo e nello spazio cosmici. Non è sorprendente che così tante persone si chiedano quale sia il senso di tutto ciò. In questo libro sostengo che, in definitiva, la risposta corretta sia “nessuno”. Nonostante alcune limitate consolazioni, la condizione umana in realtà non è altro che una tragedia dalla quale nessuno può sottrarsi, essendo anche la morte parte della tragedia, non solo la vita» (p. 39).
Il senso e lo scopo del volume di Benatar si trovano non soltanto nelle ricche analisi che qui ho cercato di riassumere ma anche e forse specialmente nel preciso obiettivo di evitare che nuove generazioni e altri individui debbano subire «l’inconveniente di essere nati» (Cioran): «Dopo tutto, quelli che non esistono non si trovano in nessuna condizione, men che meno in una difficile condizione. Non sono destinati a morire» (p. 208).
Una fenomenologia dell’esistenza che sia libera da presupposti religiosi, moralistici e millenaristici non può che sottoscrivere tali parole.
Alberto Giovanni Biuso
S&F_n. 24_2020