Byung-Chul Han è un filosofo che ha suscitato grande interesse negli ultimi anni per la maniera (un po’ spregiudicata) con cui ha proposto (e continua a proporre) un’interpretazione del presente utilizzando (per alcuni: saccheggiando) molti autori imprescindibili del XIX e del XX secolo, da Marx a Foucault, passando per Heidegger e Deleuze (giusto per citare i più noti). Nel testo che andiamo recensendo e che rappresenta per certi versi una sorta di summa della sua riflessione si cerca di identificare un’ulteriore “figura del potere”, il superamento della biopolitica foucaultiana nei termini di una psicopolitica, la quale è strettamente connessa al neoliberismo e rappresenta «la tecnica di dominio che, per mezzo della programmazione e del controllo psicologico, stabilizza e perpetua il sistema dominante» (p. 93).
L’analisi del filosofo di origini coreane risulta essere molto pregnante e (alla primissima lettura) suggestiva, grazie anche a uno stile volutamente ellittico e involuto, che riesce a suscitare una certa fascinazione e un certo interesse nel lettore. Il punto di partenza dell’intera riflessione è il seguente: il soggetto contemporaneo, cresciuto a pane e neoliberismo, non vive più sé stesso come un “soggetto” (come un “qualcosa” che si soggettiva assoggettandosi, sottomettendosi) ma come un “progetto”, per cui «l’io come progetto, che crede di essersi liberato da obblighi esterni e costrizioni imposte da altri, si sottomette ora a obblighi interiori e a costrizioni autoimposte, forzandosi alla prestazione e all’ottimizzazione» (p. 9). Già da queste primissime indicazioni sembra essere chiaro qual è il senso profondo di una psicopolitica neoliberale, lo sfruttamento della “libertà” in termini di efficienza ed efficacia. Strettamente connessa a questa osservazione di carattere antropologico, c’è un’altra idea di carattere economico-politico: l’insuperabilità della contraddizione tra rapporti di produzione e forze produttive (il riferimento critico, va da sé, è a Marx), per cui il capitalismo industriale, non potendosi (!) rovesciare in comunismo, si è trasformato in capitalismo finanziario, che, dal punto di vista antropologico, impone all’individuo come “progetto” di declinare la sua progettualità in imprenditorialità. L’individuo come “progetto”, nell’epoca del neoliberismo spinto, è l’imprenditore di sé stesso e, in quanto imprenditore, è allo stesso tempo il soggetto e l’oggetto dello sfruttamento: l’individuo contemporaneo è colui che sfrutta sé stesso, in vista dell’accrescimento del Sé come capitale umano da reinvestire. Questo processo avrebbe, poi, due conseguenze: la prima sarebbe la trasformazione della lotta di classe in una lotta interiore al singolo individuo/lavoratore; la seconda mostrerebbe il motivo per cui, sempre di più, l’individuo che non riesce tende a dare la colpa a sé stesso e non al “sistema” (qualunque cosa si voglia intendere con questa parola). Ci siamo volutamente soffermati a lungo su questi primi passaggi proprio per mostrare come funziona l’incedere del testo: si parte da alcuni presupposti che non vengono tematizzati fino in fondo – ad esempio, l’insuperabilità della crisi permanente del capitalismo non viene argomentata, ma affermata come un “postulato” – e si traggono una serie di conseguenze, che si vorrebbero universali e che, invece, rischiano di restare particolari – ad esempio, se è vero che molti individui moderni sono “soggetti di prestazione” e la valutazione è divenuta una forma di disciplinamento interiore, è anche vero che si assiste sempre di più al ritorno di dinamiche economico-politiche classiche (da “capitalismo industriale”) anche nel nostro Occidente tecnologicamente avanzato, con forme di soggettivazione per Han definitivamente “superate”. Insomma, se alcune argomentazioni sono interessanti per gli spunti di riflessione che permettono, la cornice all’interno della quale sono inserite risulta essere quanto mai “ideologica” (in certi passaggi, stranamente vicina al “nemico”) e “apocalittica”, di quella apocalissi specifica che si realizza nell’adagio “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo” e che sembra nutrirsi di suggestioni heideggeriane su una certa chiusura destinale.
Ma occorre essere giusti anche con Byung-Chul Han: alcuni spunti di riflessione si mostrano davvero centrati e punti di partenza per una riflessione complessa sulla contemporaneità. Innanzitutto, la questione di ciò che viene identificato come “panottico digitale”, essenzialmente i social media e tutto ciò a essi connesso, come ad esempio il quantified self, il quale fornisce (cioè: noi forniamo) un sapere sconfinato che, mediante l’analisi dei dati, diviene «uno strumento psicopolitico estremamente efficace» (p. 21) a tal punto che i big data «permettono di elaborare previsioni sul comportamento umano» portando a uno stato di cose per cui «il futuro diventa calcolabile e controllabile» e «la persona stessa si positivizza in una cosa quantificabile, misurabile e controllabile» (p. 22). Si tratterebbe per l’apocalittico Han della “fine della persona” e della fine della “volontà libera”. Un primo elemento di interesse, dunque, risulta essere il seguente: la soggettivazione mediante la calcolabilità pone la questione del vissuto all’interno di una modalità di manifestazione ed espressione che tende sempre di più al “calcolo” e alla “sommatoria” che non alla “narrazione” e alla “durata”; a questa temporalità ridotta a mera cronologia (come quella dei motori di ricerca e dei cookies) corrisponde una forma di potere, la psicopolitica, i cui agenti fondamentali siamo noi, costruita con il fine di immunizzare le possibili esplosioni del reale (gli “eventi”, le “rivoluzioni”) – nel linguaggio di Han, la positività dello stato-di-cose contro la metamorfosi. Si sarebbe, dunque, verificata una vera e propria trasformazione di quelle che Foucault (molto citato e molto “piegato” dal filosofo coreano) ha chiamato tecnologie del potere: dal “potere disciplinare”, che aveva la sua funzione nel rendere docili i corpi agli spazi e ai tempi del capitalismo industriale, si sarebbe passati al “potere dataista”, che ha la funzione di rendere docile l’anima, per cui dalla biopolitica (che ha al proprio centro il controllo del corpo individuale e del corpo collettivo della popolazione) si sarebbe passati alla psicopolitica (che ha al proprio centro il controllo delle “anime”) – va da sé che anche su questo punto la riflessione troppo ellittica di Han semplifica eccessivamente il “foucaultismo”, il quale, invece, con la riflessione sul “potere pastorale” e sulle tecnologie del Sé intendeva indagare proprio il modo in cui il potere funziona fin dentro i processi di soggettivazione.
Un altro elemento di interesse è il seguente: «Oggi si parla fin troppo di sentimento ed emozione. In molte discipline si svolgono ricerche sull’aspetto emotivo. Improvvisamente l’uomo stesso non è più un animal rationale bensì una creatura sensibile» (p. 51). Secondo Han, infatti, il regime neoliberale fa grande ricorso agli aspetti emotivi come se si trattasse di risorse per permettere all’individuo/progetto di realizzare prestazioni maggiori e produttività superiori: l’emozione, infatti, si contrappone alla razionalità soprattutto su un punto, l’aspetto emotivo è particolare e soggettivo, mentre la razionalità aspira a trovare gli elementi in comune e a costruire dinamiche di universalità e oggettività – ma ancor di più: la razionalità e il ragionamento sono “lenti”, mentre l’emozione è “veloce” e siamo in tempi in cui la “prestazione”, l’efficacia e l’efficienza si misurano anche in termini di “velocità”, così come la comunicazione nei social media è caratterizzata da velocità emotiva (ed è questo il motivo per cui si leggono sempre immensi orrori sulla rete). Infine, le emozioni hanno a che fare con una parte della psiche a cavallo tra coscienza e inconscio, tra riflessività e pre-riflessività – Han conclude: «la psicopolitica neoliberale s’impossessa dell’emozione, così da influenzare le azioni proprio sul piano pre-riflessivo» (p. 59).
La parte più riuscita di questo breve volume è sicuramente quella centrale, tutta incentrata sulla questione dei big data e del dataismo; la riflessione si gioca in questi termini: 1) i big data sono lo strumento mediante il quale il “potere psicopolitico” può avere accesso, sorveglianza e controllo sul comportamento umano – se il “panottico” benthamiano lasciava, all’interno della psiche, la possibilità di espressione, il “panottico digitale” dei big data sarebbe in questo senso “perfetto”, non avrebbe spazi ciechi, prospettive di fuga; 2) il soggetto divenuto “progetto” divenuto “imprenditore di se stesso” diviene anche “il controllore di se stesso” – il panottico diviene una struttura interiorizzata, matrice di effetti a livello psicologico; 3) i big data, usati per l’analisi del comportamento economico, permetterebbero l’accesso all’inconscio: «il fatto che una donna, in una certa settimana della gravidanza, desideri un determinato prodotto, implica una correlazione della quale lei stessa non è cosciente […] È così. Questo “esser così” ha forse una prossimità psichica con l’Es freudiano, che si sottrae all’Io cosciente. Visti in questa prospettiva, i big data farebbero dell’Es un Io, che si lascerebbe sfruttare sul piano psicopolitico» (p. 76); 4) i big data, che tendono sempre più alla classificazione degli uomini (ad esempio, le persone che presentano un coefficiente economico particolarmente basso sono indicate come “spazzatura”), sembrano dare vita a quella che viene definita come «una nuova società digitale di classi» (p. 78) basata sull’esclusione di alcune categorie di persone considerate dal sistema psicopolitico “indesiderabili” o “inutilizzabili” (una sorta di panottico che si trasforma anche in un Ban-opticon – su questi aspetti si è interrogato anche l’ultimo Bauman).
E arriviamo, allora, alle conclusioni del testo: il libro si chiude su quella che viene identificata come possibile via di fuga, l’idiotismo, a partire da una citazione/suggestione di Deleuze (che parlava di Socrate e Descartes come “idioti”), tutta giocata sull’esclusione che produce (o potrebbe produrre o dovrebbe produrre) una nuova forma-di-vita, l’idiota appunto. Insomma, all’impossibile per definizione trasformazione dell’esistente si oppone l’idiotismo, come unica possibilità metamorfica. Lasciamo (volutamente) all’interpretazione del lettore questa serie di citazioni sull’idiota: «L’idiota è, secondo la sua essenza, il non-connesso, il non-informato. Egli abita l’esterno che non può essere pensato in anticipo […] L’idiota è il moderno eretico [in quanto] ha il coraggio di deviare dall’ortodossia […] L’essere idiota si oppone al potere dominante neoliberale [perché] non “comunica”, anzi, comunica per mezzo del non-comunicabile» (pp. 94-100) e così via. Il riferimento è chiaramente al complesso concetto deleuziano di “immanenza”, ma nella versione di Han risulta essere poco convincente: insomma, molti spunti, ma troppo rapsodici.
Delio Salottolo
S&F_n. 20_2018