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Andrea Borghini, Christopher Hughes, Marco Santambrogio, Achille C. Varzi – Il genio compreso. La filosofia di Saul Kripke [Carocci, Roma 2010, pp. 207, € 18]


Il saggio che ci apprestiamo a recensire, costituisce, a quanto ci risulta, l’unico volume in lingua italiana interamente dedicato alla disamina delle principali questioni inerenti la filosofia kripkiana. Il testo che si inserisce all’interno della collana “Frecce”, si compone di quattro sezioni principali, ciascuna curata da un esperto del pensiero di Saul Kripke (n. 1940): Borghini introduce la figura eclettica, geniale, sui generis del matematico e filosofo statunitense di origine ebraica (numerosi sono gli aneddoti che da anni circolano intorno alla sua singolare figura); Varzi ne espone – nel capitolo primo – le teorie logico-modali (elaborate alla fine degli anni Cinquanta e ampliate nei primi anni Sessanta), completando il proprio lavoro di analisi ed esposizione con un ampio excursus sui contributi di Kripke alla “teoria della verità” (in alternativa alla principale corrente, quella tarskiana); Santambrogio cura invece la parte seconda, nella quale vengono accuratamente esposte le riflessioni del logico americano circa la dottrina freghiana su “senso e significato”. Seguono inoltre le riflessioni sui “designatoririgidi” (“nomi” cioè per individui, referenzialmente stabili al variare dei contesti possibili. In particolare si dicono “rigidi” quei nomi che «indicano il medesimo oggetto in tutti i mondi possibili in cui esso esiste e null’altro» – senza con ciò implicare l’univocità del nome impiegato. L’uso di questo nuovo concetto ha delle ripercussioni abbastanza importanti giacché consente di chiarire quei contesti in cui l’identità fra due “designatori”, quali ad esempio “Espero” e “Fosforo”, potrebbe dar luogo a delle perplessità. Sfruttando infatti lo stratagemma kripkiano, è possibile distinguere le difficoltà circa una simile identità, in “epistemiche” e “metafisiche”; in tal modo la falsità di un simile enunciato può essere respinta, riconoscendo un «difetto» puramente epistemico ma non metafisico della proposizione stessa) e le complesse relazioni che è possibile stabilire fra operatori aletici e identità (una delle questioni-chiave, cui Kripke ha dato contributi molto importanti, sebbene non definitivi, è se la verità dell’identità fra due individui x e y, debba implicare la necessità di tale identità. Stando alla distinzione precedentemente fatta, quella fra designatori rigidi e non, se x = y è vero, allora è vera anche la necessità dell’identità fra i due nomi in questione, se essi sono disegnatori rigidi; contrariamente alla loro pura contingenza qualora si trattasse di mere “descrizioni” (designatori “non-rigidi”)) sino alla discussione kripkiana del celebre paragrafo 201 delle Ricerche filosofiche del Wittgenstein (il problema di “comprendere” se una regola sia sufficiente a determinare il “comportamento”, ossia il “seguire” quella stessa regola da parte di un certo individuo, è una questione riemersa con Kripke nel 1982. Questi ha mostrato che la soluzione operata da Wittgenstein a suo tempo è insufficiente e va interpretata in senso “scettico”. Il logico austriaco aveva superato l’impasse sostenendo che «“seguire” una regola è una prassi» (§ 202 RF I). Ma Kripke ha invece mostrato che non esiste alcun «fatto passato che giustifichi la risposta presente». Il problema è anche talvolta indicato come la questione di “Kripkenstein” e, in ambito analitico, è probabilmente il dilemma filosofico più importante di tutti i tempi); infine Hughes discute nella terza e ultima parte dell’essenzialità dell’identità, con particolare attenzione alle numerose e complicate conseguenze che si possono trarre soprattutto in ambito metafisico, senza tralasciare le sferzanti osservazioni di Quine su certe tesi modali (negli anni Quaranta si era aperta una dura polemica con Ruth Barcan Marcus, la quale aveva ipotizzato l’ammissibilità di un’equivalenza fra enunciati modali di primo ordine de re ed enunciati modali di primo ordine de dicto, questione questa che sembrava sprofondare la logica nelle tematiche metafisiche maggiormente osteggiate dal Circolo di Vienna. Asserire la “formula di Barcan” infatti comporta lo scegliere una posizione metafisica ben precisa, quella dell’attualismo, nella quale non esistono individui puramente “possibili”) e affrontando i problemi dell’essenzialità, connessi alla necessità della relazione d’identità. Infine si rivolge particolare attenzione alle inevitabili conseguenze in ambito neuroscientifico, ove si manifestano delle chiare derive cartesiane del Kripke, oltre che alla discussione del materialismo, quale paradigma filosofico poco convincente, soprattutto nella sua accezione monistica (il dualismo cartesiano trova ampio spazio nelle riflessioni di Kripke, sia pur in modo indiretto. Un mero riduzionismo sembra essere stato scalzato tout court nei suoi lavori).

L’ultima parte del testo sarebbe troppo riduttivo definirla una mera bibliografia: essa costituisce piuttosto una cospicua e ampia sistemazione non solo della sterminata produzione scientifico-filosofica, nata o dedicata alle stimolanti e incisive riflessioni di Kripke, ma anche degli scritti stessi del matematico statunitense. Questi ultimi costituiscono, a detta degli autori, un corpus tutto sommato «esiguo». In effetti considerando l’impatto delle teorie kripkiane sullo sviluppo della filosofia novecentesca, ci si aspetterebbe probabilmente una mole di lavori notevolmente maggiore. Tuttavia, come già dimostrato dal caso di Gödel, non sempre la qualità implica la quantità delle pubblicazioni e, anzi, quasi mai queste due caratteristiche si affiancano nella produzione scientifica.L’importanza del pensiero kripkiano per la filosofia contemporanea non ha bisogno qui di essere ulteriormente rammentata al lettore. Ci soffermeremo soltanto su un ultimo punto di particolare rilievo. Kripke rappresenta uno spartiacque nell’ambito della filosofia a prescindere dalle distinzioni storiografiche. Infatti sebbene il suo pensiero sia da collocare in ambito analitico, la forza e l’acume delle sue riflessioni sono tali da scavalcare ogni sorta di separazione. Non vi sono riflessioni che non siano corroborate da speculazioni sottilissime e le risposte fornite da Kripke superano le stesse barriere cronologiche, per andare incontro alle questioni più complicate che la filosofia Classica e Medioevale ci abbiano consegnato: si pensi alla chiarificazione e alla distinzione operata dal filosofo americano a proposito dei concetti di analiticità, necessità e apriorità. Questi tre concetti venivano sistematicamente considerati come equivalenti. Mentre il lavoro del matematico statunitense ha mostrato come essi in realtà godano di una sostanziale e inscindibile autonomia. Non tutto ciò che è necessario è di per sé stesso analitico, come già Russell e in seguito Carnap avevano sostenuto. Così come il senso della necessità, rafforzatasi probabilmente a partire dalla disamina del Tractatus wittgensteiniano, non esaurisce la propria efficacia entro il ristretto ambito delle formule valide e, anzi, ne ostacola lo studio allorché le modalità vengano completamente assorbite dal riferimento alle realizzazioni piuttosto che ai mondi possibili. Ciò dimostra come le questioni metafisiche rivelino un modus essendi ultratemporale. E correttamente gli autori osservano che certe posizioni sostenute da Kripke derivano in fondo da speculazioni lontane nel tempo, che incontrano tanto aspetti del pensiero aristotelico, quanto della speculazione Scolastica o Moderna. Tuttavia ciò che rende la filosofia di Kripke un unicum nello spazio della discussione odierna è la sua capacità di rispondere in maniera nuova, convincente e adeguata ad alcuni dei dilemmi più controversi della storia della filosofia. Per secoli infatti (si pensi ad Aristotele, alla scuola Megarica o a Guglielmo di Ockham, tanto per fare qualche esempio) si era cercato di quadrare il difficile problema degli enunciati modali, di quegli enunciati cioè di cui è possibile indagare non solo il contenuto oggettivo (diremmo noi l’estensione), grazie al quale è possibile stabilire la verità o la falsità di un certo enunciato; ma anche la «qualità» o il «modo» della proposizione stessa. Non sempre infatti l’esame di un enunciato si esaurisce nel determinare le sue «condizioni di verità». Spesso queste ultime sono strettamente legate a fattori di tipo intensionale, segnalati ad esempio da locuzioni quali “è possibile che”, “è necessario che”, “si crede che”, “si sa che”. Affermando: “è possibile che la Terra ruoti intorno al Sole” oppure sostenendo: “è necessario che la Terra ruoti intorno al Sole” si esprimono fatti assolutamente differenti, che non dipendono esclusivamente dalla vero-funzionalità o meno della proposizione in questione. La prima infatti comunica una possibilità, che in termini kripkiani equivale ad affermare l’esistenza di almeno un mondo possibile accessibile da quello considerato, in cui tale circostanza sia verificata. L’altra invece asserisce l’inesistenza di alternative possibili a questo stato di fatto. Le tesi avanzate al riguardo in epoche passate offrivano soltanto soluzioni parziali a questi difficili quesiti. Eppure nell’arco di un solo decennio (per non dire anche meno di un decennio) il filosofo americano ha saputo concentrare con straordinario acume esigenze, problemi e tecniche risolutive elaborate nel corso di molti secoli, predisponendo finalmente quella teoria che nei suoi tratti essenziali era nell’aria sin dai tempi di Leibniz, ma che solo la sua prodigiosa intelligenza ha saputo inquadrare nei termini formali adeguati, con cui oggi lavora la comunità scientifica e filosofica. Uno degli strumenti più potenti e versatili mai elaborati infatti è appunto la semantica dei “mondi possibili”, cui abbiamo brevemente accennato. Esempi di un suo valido impiego, che vadano al di là dello studio modale, sono davvero tanti: uno per tutti le semantiche elaborate a partire dagli anni Sessanta per gli enunciati della logica temporale, grazie alle quali è stato possibile scardinare un ulteriore pregiudizio: quello concernente l’uso di proposizioni «detemporalizzate» (delineate già da Hans Reichenbach), attestanti inclinazioni metafisiche di tipo monistico e per le quali le questioni, potremmo dire, “tense” apparivano di secondaria importanza rispetto alle questioni “time”, essendo la nozione di verità perfettamente immutata al netto dell’asserzione.

Claudio Animato

09_2012

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