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André Gorz – Ecologica – tr. it. a cura di F. Vitale [Jaca Book, Milano 2009, pp. 160, € 14]


«Partendo dalla critica del capitalismo, si arriva dunque immancabilmente all’ecologia politica, che, con la sua indispensabile teoria critica dei bisogni, conduce di ritorno ad approfondire e a radicalizzare ancora la critica del capitalismo» (p. 19). Questa breve frase, pronunciata durante un’intervista del 2005, può essere presa come il manifesto dell’ecologia politica di cui Gorz si è fatto portavoce sin dagli anni Settanta coniugando esigenze di riflessione ecologica con la necessità dell’emancipazione degli individui, a partire da una critica serrata di ogni forma di produttivismo. Questo testo, edito in Francia nel 2008, raccoglie una serie di interventi – alcuni di essi scritti e pubblicati nell’anno della morte dell’autore – che delineano il campo teorico e pratico dal quale può svilupparsi, a partire da una prassi ecologica, il superamento del capitalismo.

Ma è appunto l’ecologia politica il fulcro della riflessione e per Gorz è necessario definirla nella sua specificità in contrasto con altra tendenze ecologiste della contemporaneità. Esiste un’ecologia scientifica – secondo la definizione di Gorz – che «si appoggia sullo studio scientifico dell’ecosistema, cerca di determinare scientificamente le tecniche e le soglie di inquinamento ecologicamente sostenibili, cioè le condizioni e i limiti entro i quali lo sviluppo della tecnosfera industriale può essere perseguito senza compromettere le capacità autogeneratrici dell’ecosfera» (p. 46). Quest’approccio, in poche parole, non mette in crisi il modo di produzione capitalistico e lo sfruttamento della natura e dell’uomo da parte dell’uomo, piuttosto sviluppa una specifica tecnologia politica che, nel preservare gli equilibri dell’ecosistema in vista della riproduzione del sistema, eteroregolando i comportamenti economici dei produttori e dei consumatori, estende «il dominio sulla vita quotidiana e l’ambiente sociale» (p. 49). È un modo per integrare la tecnosfera nell’ecosfera in maniera tale da preservare (per quanto possibile) il pianeta in vista della riproducibilità del capitale.

In origine il movimento ecologista nasceva da esigenze culturali più che specificamente socio-economiche, connesse a una determinazione del mondo vissuto come quel luogo in cui si orientano le proprie attitudini in maniera spontanea: «la “natura” per la quale il movimento esige protezione non è la Natura dei naturalisti né quella dell’ecologia scientifica: è fondamentalmente l’ambiente, che appare “naturale” perché le sue strutture e il suo funzionamento sono accessibili a una comprensione intuitiva» (p. 50). Ciò che questo movimento criticava era la distruzione di tale mondo vissuto attraverso tecnologie di trasformazione e ristrutturazione dell’ambiente – umano, naturale, sociale – ai fini della estensione del capitale. Il punto centrale era quello di un’autoregolazione della propria vita di contro a un’eteroregolazione dei comportamenti e delle attitudini: in poche parole una via d’uscita dall’alienazione crescente nelle società industriali.

In un primo momento, il movimento ecologista risultava anti-politico in quanto si richiamava a dinamiche culturali e aveva come oggetto la necessità di cambiare la vita nella sua organizzazione relazionale profonda; ma quando, poi, studi scientifici hanno dimostrato l’impossibilità per il capitalismo di una “crescita senza fine”, allora l’ecologia è potuta divenire politica in quanto proposta di ristrutturazione della vita in vista di un programma di sopravvivenza collettiva. Il programma dell’ecologia politica deve fondarsi sul principio dell’autolimitazione e dell’autogestione in maniera tale da «arbitrare […] tra l’estensione dei bisogni e dei desideri che essi si augurano di soddisfare e l’entità dello sforzo che giudicano accettabile dispiegare» (p. 56). E Gorz si richiama in questo senso a Weber e a Marx: Weber in quanto ha mostrato come l’operaio espropriato non aveva alcuna intenzione di aumentare la produzione e di guadagnare di più in quanto la sua vita era regolata dalla norma del sufficiente; Marx in quanto ha mostrato che, per ottenere un lavoro costante dagli operai, non era bastato il fatto che essi fossero espropriati dei mezzi di produzione ma era necessaria una vera e propria tecnologia di espropriazione che permettesse di gestire la vita degli operai in tutte le operazioni, costruendo una sorta di seconda natura, e ciò era avvenuto con la meccanizzazione della produzione. «Il capitalismo», afferma Gorz, «ha abolito tutto ciò che, nella tradizione, nel modo di vita, nella civiltà quotidiana, poteva servire da ancoraggio a una norma comune del sufficiente», per cui è necessario «ristabilire politicamente la correlazione tra minor lavoro e minor consumo da una parte, maggiore autonomia e maggiore sicurezza esistenziali dall’altra, per tutti e per ognuno» (p. 64).

Questo programma non intende ri-stabilire una modalità di rapporti sociali ed economici precapitalistici, non si richiama ai pregi di un’economia domestica né all’autarchia dei villaggi, ma – e questo sembra il contributo più interessante alla critica sociale delle società contemporanee – a partire dalle trasformazioni (e crisi) interne del capitale, cerca di mostrare quali siano i margini di trasformazione del reale e di superamento del capitalismo. «Il capitalismo affonda da vent’anni in una crisi senza uscita» che ha come proprie cause «la rivoluzione informatica, la smaterializzazione del lavoro e del capitale, l’impossibilità crescente che ne risulta di misurare il “valore” dell’uno, dell’altro e delle merci» (p. 104). Il lavoro, all’interno del modo di produzione capitalistico, è produttivo solamente quando valorizza un capitale; e può fare ciò soltanto nella misura in cui chi fornisce lavoro produttivo non consuma tutto il valore contenuto nel lavoro. Nell’organizzazione propria del postfordismo, lo sviluppo costante del settore dei servizi fa sì che sia sempre meno il lavoro capace di valorizzare e di accrescere il capitale, il quale, per valorizzarsi, diviene in misura sempre maggiore capitale finanziario. Il capitale finanziario crea – non produce – denaro gonfiando bolle speculative: «ogni bolla speculativa finisce, presto o tardi, per scoppiare e trasformare in debiti gli attivi finanziari senza base reale […] l’esplosione di una bolla comporta normalmente dei fallimenti a catena – al limite, il crollo del sistema bancario mondiale» (p. 107).

Ma il capitalismo in crisi – come si è già detto – sta producendo da sé ciò che porterà alla sua estinzione: Gorz fa riferimento ai digital fabricators o fabbers (mezzi tra i più sviluppati dell’industria contemporanea) e alla loro portata economico-politica «come macchine che non sottomettono l’uomo alle loro esigenze, dunque non sono più un mezzo di dominio, e come robot che non si limitano ad automatizzare un processo di lavoro determinato» (p. 111). La creatività che può venir fuori da un utilizzo free di questi strumenti potrebbe condurre a un’economia non basata più sul lavoro produttivo e valorizzante ma sull’economia della gratuità, ovvero «un’economia largamente demonetarizzata, che non si regge più sui criteri della redditività dell’economia d’impresa, ma sul criterio dell’“utilità”, della desiderabilità delle produzioni» (p. 112). È  un’«utopia concreta», come la definisce lo stesso Gorz, quella del superamento della nozione di lavoro produttivo e valorizzante, ma un’utopia che risulta necessaria nel momento in cui si voglia liberare l’uomo dalla sua espropriazione costitutiva e dalla lotta per il lavoro che costituisce uno dei maggiori motivi di disordine sociale, da un lato, e dall’altro una dinamica di produzione di anti-socialità.

La liberazione dal lavoro salariato – questo ci sembra di poter leggere tra le righe – permetterà anche di istituire una diversa relazione con il mondo vissuto e con l’ambiente umano e naturale, in vista di un’utilizzazione delle nuove tecnologie in accordo con il principio del sufficiente e con il principio del mantenimento della nostra presenza sul pianeta.

Il percorso di Gorz – filosofo “scoperto” da Sartre e negli ultimi anni stretto collaboratore di Toni Negri – è segnato dalla volontà di superare il marxismo di matrice classica e, infine, dalla volontà di incrociare esperienze culturali come le teorie della decrescita di Latouche.

Questa raccolta pone sicuramente questioni importanti sia per quanto riguarda la lettura dell’esistente sia per le utopie concrete che propone, anche se – a nostro avviso – ci sono alcuni limiti. In primo luogo i riferimenti alle nuove realtà dell’economia mondiale – la Cina su tutte – risultano carenti: «il mondo “in via di sviluppo” non salverà il capitalismo né salverà se stesso con un’industrializzazione creatrice di nuova occupazione» (p. 113), afferma Gorz; ma seguendo gli avvenimenti più recenti sembra che la Cina – nuova fabbrica del mondo – non solo abbia posto le basi del suo sviluppo su una organizzazione ad alto consumo di lavoro (salariato) riproducendo quella forma di capitalismo fordista ormai superata in Occidente, ma che stia anche concretamente aiutando il capitalismo mondiale a uscire dalla crisi attraverso l’acquisto dei bond americani in maniera tale da non perdere uno dei mercati più importanti per la creazione di valore e profitti per le proprie merci. Ciò che non viene sottolineato è l’aspetto geopolitico che connette il capitalismo alle sue necessità di sviluppo. In secondo luogo bisogna continuare a interrogarsi sul concetto di crisi nel capitalismo: o le crisi nel capitalismo sono cicliche e connesse alla sua struttura e quindi senza alcuna rottura decisa – rivoluzionaria – lo stesso capitalismo ha sempre la capacità di ristrutturarsi, o le crisi nel capitalismo si distendono lungo una linea retta per cui quest’ultima – anticipata da Gorz in questi scritti come del resto da un numero considerevole di studiosi – può segnare una crisi terminale che condurrà all’estinzione del capitalismo.

Il lavoro sull’utopia, comunque,resta sempre di grande utilità per la sua modalità critica nei riguardi dell’esistente e per la sua apertura alla trasformazione radicale di contro a ogni teoria della fine della storia e della soddisfazione dell’attività desiderante del fenomeno umano.  

 

Delio Salottolo

S&F_n. 2_2009

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