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Carlo Rovelli – Helgoland [Adelphi, Milano 2020] — Telmo Pievani – Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà [Raffaello Cortina, Milano 2020]

Nel corso dei secoli, l’uomo ha imparato così bene ad addomesticare tutto ciò che è presente sulla terra tanto da convincersi che la Natura gli appartenga, mentre è vero l’esatto contrario. Assumendo sempre di più le sembianze di un parassita, egli vive convinto che ogni cosa presente sulla superficie terrestre sia lì per lui e, se non è sfruttabile come si vorrebbe, va adattata alle sue esigenze, solitamente rovinata. Usurpatore di un trono che non gli era assolutamente destinato, l’uomo si è convinto che un abisso minimo, ma invalicabile, lo separa dal regno animale, riconosce solo una respirazione elementare alle piante e il pensiero che possa avere delle qualità comuni ai minerali non lo sfiora nemmeno. Ha le sue debolezze e ne è ben consapevole: teme le calamità naturali e la morte, ma si considera un essere superiore perché è in grado di spiegarsi questi eventi. L’esser consapevole dell’uomo è il suo tratto distintivo, ciò che lo distingue dalle altre specie viventi innalzandolo, eppure sembra che con il passare del tempo l’uomo abbia smesso di essere consapevole della cosa più importante: la sua precarietà. Quello che non bisognerebbe mai dimenticare è che ciò che l’uomo è riuscito a diventare è frutto di un miracolo ma il miracolo può avvenire anche in senso inverso: tutto ciò che l’uomo ha costruito può essere distrutto, tutto è soggetto a usura e alla morte. In qualsiasi momento la Natura può porre fine alla vita dell’uomo, spazzando via lui, quello che crede essere il suo mondo e la sua memoria. La vera sovrana imbattibile è la Natura solo che, in quanto tale, non ha bisogno di rimarcare la sua superiorità in ogni momento. Lo ricorda all’improvviso con cataclismi, pandemie e tutto ciò che per noi può essere una tragedia, e lo è proprio perché ci ricorda ciò che noi vogliamo costantemente dimenticare: noi non siamo i padroni del mondo e non abbiamo tutto sotto controllo. In quest’ottica, come ricorda perfettamente Rovelli nel suo ultimo libro, Helgoland, l’avvento della fisica dei quanti, la scoperta che la fisica classica non fosse sufficiente per spiegare il funzionamento del mondo tutto, ha rappresento un duro colpo per l’orgoglio umano, l’onnipotenza e la sua smania di controllo. La fisica classica offriva infatti un’immagine nitida della realtà, letta come un vasto spazio dove corrono particelle che costituiscono ogni materia, e che sono spinte e tirate da forze e il cui moto seguiva leggi deterministiche (p. 54). Grazie alla meccanica classica si era diffusa la convinzione che in ogni istante noi avremmo potuto, almeno in teoria, conoscere la posizione, la velocità, l’accelerazione di un corpo, inteso come insieme di particelle: niente di più bello per un maniaco del controllo. Tuttavia, la chiarezza concettuale della fisica classica è stata spazzata via dai quanti. La meccanica quantistica è la teoria più significativa della scienza nella descrizione della natura microscopica ma, allo stesso tempo, è inquietante e misteriosa, e questo perché ci chiede di rinunciare a tutto ciò che ci sembrava solido e inattaccabile, ci chiede di accettare che la nostra realtà è diversa da quanto immaginavamo o credevamo di sapere. La solidità della visione classica del mondo non è che nostra miopia. Le certezze della fisica classica sono sostituite da probabilità. L’immagine del mondo nitida e solida della vecchia fisica classica è un’illusione (p. 79). Il cambio di prospettiva è radicale: una descrizione efficace della natura deve basarsi solo sulle grandezze osservabili mediante le leggi fisiche dedotte fino a quel momento. Si può descrivere soltanto ciò che è osservabile, l’inosservabile in quanto tale non può essere noto. Occhio che non vede, scienza che non sa. Questo è il punto di partenza della teoria dei quanti, questa è l’intuizione di Heisenberg, alla cui scoperta, e precisamente al luogo in cui essa avviene, è dedicato il titolo del libro di Rovelli. Heisenberg sollevò un velo e da quel momento non sarebbe stato più possibile tornare indietro. Alla sua intuizione seguì un movimento che avrebbe per sempre cambiato la visione del mondo, un movimento composto da tutti futuri premi Nobel: la fisica dei ragazzi. La teoria dei quanti è infatti innanzitutto gioco di squadra, gioco di menti che non hanno avuto paura di abbandonare la strada vecchia, conosciuta, confortevole, che non hanno avuto il coraggio di ignorare ciò che era palese ai loro occhi: non è possibile determinare tutto e il mondo microscopico ne è la dimostrazione. La teoria dei quanti è frutto di un gioco di squadra, una squadra eterogenea composta da filosofi e scienziati che con i loro contributi hanno giocato un ruolo fondamentale. Non bisogna aver paura di abbandonare le certezze che si hanno e di certo non possono farlo dei pensatori degni di questo nome, che si interrogano sul senso della vita e sul funzionamento del mondo, e ancor di più non possono farlo gli scienziati. A più riprese nel suo testo Rovelli sottolinea come, infatti, la scienza sia questo: pensiero in movimento continuo che rimette in discussione ogni cosa, che non ha paura di sovvertire l’ordine del mondo o pensarne uno migliore (p. 55). La scienza è esplorazione di nuovi modi di pensare il mondo, capacità di rimettere costantemente in discussione i nostri concetti. Posta dunque l’intuizione di Heisenberg, qual è questa nuova realtà che ci viene disvelata? Una realtà fatta di relazioni più che di singoli individui in grado di osservare e non influenzare ciò che li circonda. Per comprendere la Natura dobbiamo guardare alle relazioni tra i vari oggetti fisici, e questo perché la realtà è una rete di relazioni. Un oggetto che non interagisce con un altro non esiste. Questo è il grande apporto della fisica quantistica: salta l’idea che il mondo debba essere costituito da una sostanza che ha attributi e ci forza a pensare tutto in termini di relazioni (p. 96). Nulla esiste come entità autonoma, nulla quindi neanche l’uomo. Noi siamo parte della Natura, non siamo osservatori esterni del mondo ma siamo nel mondo. Ogni cosa è contemporaneamente osservata, osservabile e osservante. Il punto di vista dall’esterno è un punto di vista che non esiste: ogni descrizione del mondo avviene dal suo interno (p. 120). L’uomo è parte della realtà, il nostro discorso sulla realtà è esso stesso parte della realtà. Di relazioni è fatto il nostro io, le nostre società, la nostra vita culturale, spirituale e politica. L’intuizione di Heisenberg e le sue conseguenze ci invitano ad abbandonare ogni antropocentrismo e ad accettare il da farsi: l’uomo fa parte della Natura e bisogna che a essa ritorni. Bisogna restituire l’uomo alla Natura. Se abbandoniamo il nostro egocentrismo, l’amore per il nostro Io, l’ossessione per la nostra individualità, il miraggio persistente di essere gli unici a poter comprendere il mondo, anche il nostro essere temporanei, il nostro essere mortali, diventa digeribile. Questo il messaggio del testo di Telmo Pievani, Finitudine, il quale riprende la tematica camusiana dell’assurdità della vita, dell’insensatezza del vivere se tutto poi è destinato a finire. Immaginando che sia proprio un sopravvissuto Camus a scrivere, in collaborazione con il suo grande amico biologo Jacques Monod, e dimostrando come tutte le sfide tentate alla finitudine siano destinate a fallire, Pievani vuole aprire un varco, vuole provare a rendere più accettabile la morte: noi, intesi come unicità, siamo destinati a perire ma la nostra esistenza non è per questo inutile: la vita è un inestimabile e casuale regalo, esistiamo perché è uscito il nostro numero alla roulette russa, e il nostro obiettivo deve essere quello di vivere il più possibile e di farlo al meglio. E come Sisifo, ogni giorno, anche noi non dobbiamo stancarci dei nostri eterni ritorni. Nulla è privo di senso e, anzi, è come se la finitudine stessa desse un senso alla nostra vita: la sua accettazione ci rende liberi, non illusi, non nichilisti, ma liberi (p. 220). È una libertà a termine, d’accordo, ma se l’unica fatalità della vita è la morte, tutto il resto è un mondo libero in cui l’uomo è padrone dei suoi giorni. Dei suoi giorni, non del mondo (p. 260). La nostra esistenza non ha nessun senso, non siamo alla nascita destinati a compiere grandi gesta, ma nulla vieta che possiamo dare noi un senso alla nostra vita. Dobbiamo lottare per diminuire le sofferenze e rendere questo mondo desiderabile oltre che vivibile, per renderlo un posto buono per la vita per noi e per i nostri simili, presenti e futuri. Non siamo parenti degli angeli ma siamo parenti delle scimmie, facciamo parte di questo mondo e proteggerlo, rallentarne l’inevitabile fine, potrebbe essere il nostro compito, il senso del nostro essere. La partita contro la morte è già persa, ma solo se l’obiettivo è l’immortalità. Se la posta in gioco diventa l’esser soddisfatti di come si è vissuto, l’assenza di rimpianti, allora l’esito della sfida è tutto da vedere.

Giordana Colicchio

S&F_n. 27_2022

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