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Il lavoro come atto linguistico e la fine dell’etica convenzionale del lavoro

Autore


Giovanni Mari

Università degli Studi di Firenze

già docente di Storia della Filosofia presso l’Università degli Studi di Firenze è Presidente della rivista «Iride. Filosofia e discussione pubblica»

Indice


1.Il problema

2. L’etica convenzionale cristiana

3. L’etica personale e laica del Rinascimento

4. L’uso capitalistico delle forme dell’etica cristiana

5. L’etica intrinseca del lavoro come atto linguistico

6. Lavoro, etica, società e macchine

7. Conclusioni

 

 

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S&F_n. 22_2019

Abstract


Job as a speech act and the end of conventional work Ethics

According to the author, the work that takes place in the Cyber Physical System (Smart Factory) has the nature of the «performative speech act». This change determines the end of the conventional ethics of work as duty, task, destiny, etc. which the author analyzes in Christianity as the most important conventional ethics for the Western world. If work is a "s act" then the ethics that constitutes its conditions and meaning will be a form of ethics of communication of which the author establishes the "norms" by integrating the proposal of K.-O. Apel

 

 

 

  1. Il problema

La rivoluzione informatica degli ultimi decenni del XX secolo e quella digitale in corso, insieme alle relative innovazioni organizzative e manageriali, hanno determinato una trasformazione profonda del lavoro e portato a conclusione, nei settori più avanzati e strategici dell’industria, la fine del rapporto diretto (manuale) tra l’attività umana e la materia prima da trasformare, che l’automazione degli anni Cinquanta del Novecento aveva avviato su larga scala. Quest’ultima aveva implementato le attività tecniche e di sorveglianza delle macchine, trasformando la maggior parte del lavoro manuale in attività di controllo a distanza di macchine programmate per lo svolgimento delle attività routinarie precedentemente compiute dall’operaio di linea. A loro volta, l’informatizzazione e Internet hanno reso flessibili e autonome le macchine, ridotto le attività di sorveglianza e radicalmente quelle manuali di supporto, e concentrato l’attività umana nella creazione dei modelli digitali di beni e servizi da costruire con le macchine, oltreché, ovviamente, nella definizione dei programmi complessivi e nella creazione stessa delle macchine. In ogni caso queste, come ad esempio la stampante 3D, sono in grado di fabbricare i beni attraverso processi interamente automatizzati che possono fabbricare un numero indefinito di oggetti secondo gli indefiniti modelli digitali che vengono comunicati alla macchina.

Ciò che occorre sottolineare è la trasformazione della natura del lavoro che accade in questi processi. Già l’informatizzazione delle attività e lo sviluppo del lavoro cognitivo avevano accentuato la dimensione linguistica del lavoro, sia nei rapporti e negli scambi di collaborazione, anche a distanza, tra chi lavora, che una volta erano improntati al silenzio, sia nei contenuti stessi del lavoro. Più il lavoro si intreccia con la conoscenza (Knowledge worker)[1] e questa diviene la materia prima delle attività, più il lavoro tende a essere comunicazione, scambio di informazioni, creazione conoscitiva e linguistica. Quando poi le attività produttive accadono in un ambiente digitale, quello che viene definito un Cyber Phisical System, cioè un ambiente incardinato su Internet – in cui alla comunicazione tra uomo e uomo e a quella tra uomo e macchina si aggiunge quella tra macchina e macchina – il lavoro, almeno nei suoi snodi essenziali, è interamente attività linguistica, nel senso preciso che nella Smart Factory la produzione di oggetti fisici accade attraverso attività linguistiche che attivano la macchina digitale, come accade compiutamente e emblematicamente con la 3DP (3D Printer). La comunicazione si trasforma in realtà fisica senza alcun intervento manuale, in un ambiente che mette in comunicazione, in tempo reale, uomini e macchine sulla base della comunicazione incardinata in una piattaforma digitale.

Anche se nella Smart Factory il lavoro manuale non scompare del tutto, esso assume forme complementari, oppure altamente specializzate. Ne parla, ad esempio, G. Berta, Produzione intelligente, quando analizza il processo di fabbricazione degli pneumatici della Pirelli che, benché totalmente automatizzato, richiede alla fine l’intervento del lavoro manuale nella forma del controllo della levigazione dello pneumatico che solo la sensibilità della mano può garantire perfettamente. Una sorta di atto manuale di tipo artigianale cui viene affidata la decisione del rilascio degli oggetti prodotti interamente dalla macchina. Oppure il lavoro manuale è impiegato in momenti di logistica o di altro tipo, complementari al processo di fabbricazione e in genere a bassa qualifica.

Una volta stabilito[2] che nei processi di fabbricazione digitalizzati in ambiente Cyber Phisical Sistem lavorare è svolgere attività di comunicazione e di invenzione linguistica, perché la fabbricazione degli oggetti fisici o dei beni immateriali è affidata all’attività autonoma della macchina che realizza il modello digitale creato dall’uomo – realizzazione in cui consiste il lavoro – anche le questioni etiche relative alle attività lavorative cambiano profondamente natura. L’etica dovrà essere commisurata innanzitutto all’attività linguistica e non alla fatica manuale. Non dovrà più limitarsi e impegnarsi, come ha fatto per millenni, a costruire un legame di senso tra la fatica, la persona che la sopporta e la società che ne ingloba il risultato, perché il lavoro non è più solo fatica e alienazione, ma conoscenza e comunicazione: in quanto linguaggio esso ingloba le caratteristiche di questo, e le condizioni della sua realizzabilità coincidono con quelle della comunicazione. Nella misura in cui il lavoro è attività comunicativa, trasmissione di conoscenze e informazioni che performano attività tecnologiche produttive, per lavorare occorre che la persona sia messa nelle condizioni di autonomia e creatività presupposte dalla conversazione. Tutto ciò conduce a un lavoro che trova in sé stesso, negli elementi etici che presuppone necessariamente, gli elementi del suo significato etico, senza bisogno, come vedremo, di un discorso etico che gli attribuisca dall’esterno (cultura, politica, religione, ecc.) ciò che esso non possiederebbe di per sé.

In realtà il lavoro ha sempre posseduto un autonomo significato etico, ma esso per millenni è stato sussunto e trasformato dalla cultura ufficiale, che lo ha restituito al lavoro in maniera da mantenerne la subalternità necessaria all’ordinamento e al funzionamento della divisione sociale del lavoro. Il lavoro come atto linguistico, invece, come vedremo subito, trova nella propria autonomia etica le condizioni della sua attuazione e quindi la valorizzazione non può non ammettere tale autonomia, la quale contribuisce alla realizzazione non solo del profitto ma anche e necessariamente della libertà nel lavoro.

 

  1. L’etica convenzionale cristiana

Il lavoro manuale, fino a poco tempo fa attività preponderante nella produzione di oggetti e servizi, è sempre stato accompagnato da un’etica convenzionale che lo valorizzava e giustificava dall’esterno dell’attività stessa. Il lavoro si è sempre presentato come un’attività necessaria e faticosa, nonché soggetta a sfruttamento, a cui l’etica ha cercato, anche in buona coscienza, di trovare un senso elaborato a partire da considerazioni culturali, religiose e sociali esterne alla natura e all’attività stessa del lavoro. Al fine di illustrare questo fatto, cioè di illustrare il concetto di etica convenzionale ed esterna al lavoro, nonché il processo che conduce all’affermazione di un’etica non convenzionale legata alla natura stessa del lavoro, prenderò in considerazione il paradigma del cristianesimo. Nella nostra cultura è soprattutto in questa religione che sorge, sia un’etica esterna del lavoro manuale, che rappresenta la prima generale valorizzazione del significato del lavoro, sia il luogo culturale in cui inizia la crisi di questa etica. Si tratta di un processo che si intreccia con importanti trasformazioni del lavoro e che approda alla recente affermazione del lavoro cognitivo e linguistico in cui viene riproposta la persona e un valore etico autonomo del lavoro.

Nella Genesi della Bibbia, nel racconto della cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre a causa dal peccato originale, viene presentato un episodio che sembra alludere a un passaggio di civiltà particolarmente importante e drammatico: quello dell’affermazione del lavoro costrittivo dopo la fine di uno stato in cui tale lavoro non sussisteva o non era generalizzato. Nel paradiso terrestre, prima di peccare, Adamo ed Eva lavoravano con diletto, o se si preferisce, svolgevano attività che ai nostri occhi non sono propriamente lavorative[3]. Il salto con cui l’umanità sprofonda nel lavoro fatto di travaglio e sudore viene spiegato in maniera religiosa e il quadro elaborato e trasmesso mediante l’etica convenzionale del lavoro che conosciamo. Il punto decisivo di questa etica è che in essa il lavoro acquista un significato negativo anche se ineliminabile della vita umana: il salto risulta irreversibile e la condizione umana viene caratterizzata dalla contraddizione di non potere non svolgere un’attività negativa, che è, insieme, una necessità nuova e un oggetto di ubbidienza al comandamento divino per l’accesso alla felicità eterna. La religione, attraverso il peccato, fornisce la spiegazione del perché l’umanità sia passata dal lavoro piacevole al lavoro terribile. E quindi la religione diviene il senso di questo nuovo lavoro che si svolge contro la volontà individuale e con fatica. Il cristianesimo, quindi, è la spiegazione e il senso del lavorare, in genere non valorizzato o addirittura disprezzato dalla cultura pagana. L’etica cristiana estrinseca del lavoro è quindi il risultato dell’elaborazione culturale della perdita di uno stato di felicità primitivo e, insieme, la spinta a entrare nella storia di una civiltà fondata sul lavoro, interpretando la più grande trasformazione della condizione umana intervenuta sinora.

Ciò che qui interessa sottolineare è che questa etica religiosa del lavoro offre a chi lavora il senso della propria attività indipendentemente dal tipo di lavoro che egli svolge, indipendentemente dalle condizioni in cui lo svolge e dal fatto che lo abbia scelto in base alle proprie abilità o formazione, oppure aspirazioni, dal tipo di ricchezza che esso produce, ecc. Indipendentemente, cioè, da tutti i caratteri personali che determinano il rapporto tra chi lavora e il proprio lavoro: il significato religioso del lavoro, quello fissato dalla Genesi, è il significato che viene attribuito dalla religione al lavoro, indipendentemente da ogni considerazione personale del lavoro e del senso che il lavoro ha per la persona che lavora. In altre parole, il lavoro risulta di per sé moralmente indifferente. In questi termini il cristianesimo spiega e costituisce il lavoro.

La Riforma protestante – secondo il principio che è l’uomo buono a compiere cose buone e non le buone azioni a fare di un uomo un uomo buono – trasforma la principale attività umana svolta nel mondo, il lavoro, in una attività buona perché svolta dall’uomo buono, cioè dall’uomo che si trova nella grazia del Signore, anziché considerare il lavoro un’attività buona semplicemente perché comandata dal Signore. Senza un fondamento personale (buono) non ci sono azioni buone semplicemente perché formalmente tali. Nel protestantesimo l’accento cade sul soggetto, non sulla forma. Al primo posto non c’è l’azione (anche se formalmente corretta), ma la persona, il suo essere stata «chiamata» (Beruf) dal Signore. La qualità buona della persona rende buona anche l’attività del lavoro, della «professione» (Beruf). Se l’essere in grazia del Signore non dipende dalla libertà della persona, ma da quella imperscrutabile di Dio, il lavoro e le sue modalità dipendono dalla libertà della persona. La quale nello svolgimento del proprio Beruf (professione, lavoro) realizza la grazia personale, cioè il Beruf (chiamata), e quindi nel Beruf incontra Dio.

L’etica protestante del lavoro solo in parte e indirettamente è esterna al lavoro, mentre del tutto esterna è quella biblica che ho ricordato. La quale richiede solo ubbidienza per legittimare e trovare un senso (proveniente dall’alto) alla fatica del lavoro. Che poi era soprattutto lavoro manuale, perché quello intellettuale trovava il proprio significato in molti altri motivi, sociali e culturali. Invece l’etica protestante è, direbbe un marxista, interclassista: vale per il lavoro manuale come per quello intellettuale, per le «arti liberali» e per le «arti meccaniche». Il cristianesimo biblico non si occupa della persona ma solo dei suoi comportamenti sui quali si basa la certezza della salvezza, deduce la santità dell’uomo dai suoi atti informati al comandamento.

Per il protestante il ragionamento, come si è visto, è opposto: prima occorre il cambiamento dell’anima, che non può che essere opera libera e indeterminata di Dio. L’uomo può solo ricevere l’anima buona che non può essere il frutto della sue buone azioni, che invece la presuppongono. Questa inversione dei termini biblici del significato delle attività libera in parte il lavoro dall’etica convenzionale e estrinseca al lavoro: in parte perché il Beruf, la bontà personale dipende da Dio e non dalla volontà umana. Se l’attività buona, il lavoro, non dipende dalla forma prescritta dal comandamento ma dal Beruf della chiamata, la premessa, il presupposto trascendentale dell’azione buona, cioè ricca del senso etico che si ricerca, è esterna rispetto all’uomo e alla sua libertà. L’uomo è libero solo da un certo punto in là. Non solo, ma gli uomini che non sono stati «chiamati» non saranno mai liberi del tutto. L’esclusione tra liberi e schiavi, tra «arti liberali» e «meccaniche», si trasforma, nella società interclassista protestante, nella esclusione dei santi dai non santi per imperscrutabile e irreversibile volontà divina.

 

 3.  L’etica personale e laica del Rinascimento

Indipendentemente e in maniera assai diversa dalla cultura protestante, nel Rinascimento non solo italiano, al culmine di un processo secolare di crescita delle «arti meccaniche» e di contemporaneo declino di quelle «liberali», si afferma un’etica personale del lavoro interamente laica e individuale, la quale cerca nel lavoro stesso la motivazione e il senso dell’attività; in un rapporto con quest’ultima in cui la persona, che trasforma la materia prima secondo una rappresentazione liberamente definita, realizza se stessa, cioè la rappresentazione ideata, e fa crescere umanamente la propria soggettività. Tutto questo accade in maniera emblematica nell’artigianato artistico dei pittori, scultori e architetti, che nel Cinquecento rappresentano un settore specifico delle «arti meccaniche». Una realtà (italiana, fiorentina in particolare) di cui Eugenio Garin scrive che essa ha «detto la parola più alta del Rinascimento […] meglio di ogni scrittura di letterati, di scienziati, di filosofi»[4].

Un esempio egregio di questo artigianato è fornito dalla Vita di Benvenuto Cellini[5]. Al centro dell’autobiografia del famoso orafo e sculture troviamo il lavoro. Meglio sarebbe dire la passione per il lavoro. Un sentimento che non ha niente a che vedere con la passione che noi conosciamo per un lavoro quale strumento di arricchimento individuale, che è una passione per il denaro piuttosto che per il lavoro. Non è la ricchezza lo scopo principale del lavoro di Cellini, che egli invece ama per la possibilità che esso permette di creare oggetti «belli» in cui rinvenire una personale soddisfazione e la fama che tutto ciò permette di conquistare. Il significato essenziale del lavoro è morale: è la sua capacità di realizzare la coscienza di chi lavora nell’oggettivazione delle sue idee in determinati oggetti, i quali manifestano e rendono reale il sé dell’artigiano, mentre arricchiscono il mondo di qualcosa precedentemente inesistente. Il valore etico di questa esperienza del lavoro è determinato, come testimonia la Vita, dalla sua libertà che si concentra nella libera rappresentazione (il disegno nel caso di Cellini) di ciò che poi si fabbricherà. Tra la rappresentazione mentale dell’oggetto, richiesto dal committente, e la sua realizzazione fisica, Cellini non permise mai che altri si inframettessero, facendo del lavoro un’esperienza morale della libertà personale. Un’esperienza che escludeva ogni morale convenzionale finalizzata a trovare solo un senso estrinseco al lavoro, quindi a legittimare un lavoro sospinto a non cercare tale senso: solo così il lavoro poteva fondarsi sul dovere e, a sua volta, fondare l’ordine della società.

 

  1. L’uso capitalistico delle forme dell’etica cristiana

Come è noto, secondo Max Weber la società industriale rinviene nell’etica protestate un prezioso alleato in quanto lo spirito produttivo, non consumistico e fortemente individualistico di tale etica favorisce l’accumulazione e la crescita capitalistiche. In verità il giudizio di Weber vale soprattutto per le attività individuali autonome, imprenditoriali e di comando su cui si basa tale sviluppo. Per quanto riguarda l’altra parte, anch’essa protagonista della crescita della ricchezza, cioè il proletariato, l’etica cattolica romana appare assai più adeguata al lavoro subordinato di massa. In questo senso, essa costituisce il fondamentale alleato del capitale: il protestantesimo, come si è visto, ancorché attraverso la mediazione della «chiamata», riesce a fondare il lavoro (in generale) sulla persona e la sua intima religiosa soddisfazione, invece la morale cattolica romana non richiede alcuna soddisfazione personale ma solo l’ubbidienza del comportamento al comando divino. Per questa etica, come l’uomo buono è quello che informa la propria vita al comando che viene dall’alto attraverso la mediazione della Chiesa, così il lavoratore buono è quello che assume questo paradigma di un’etica dei principi: ubbidisce al comando della direzione d’impresa, svolgendo bene i compiti stabiliti sulla base di tale comando e non su quella della propria soddisfazione. L’etica, esterna (convenzionale), in altre parole, dà senso al lavoro subordinato e alienato, lo compensa senza aprire alla sua libertà e autorealizzazione. E in questo modo lo legittima e lo rende sopportabile. E quando la Chiesa romana affronterà alla fine dell’Ottocento la questione sociale del lavoro, solleverà una serie di valide questioni relative al mercato e alle condizioni del lavoro, a cominciare dall’equo salario, ma non metterà mai in discussione la natura del lavoro eterodiretto e quindi della necessità di un’etica convenzionale ed estrinseca al lavoro, comunque frutto del peccato originale.

Questa impostazione dell’etica del lavoro che abbiamo preso a modello rivelerà tutti i suoi caratteri nei confronti del lavoro industriale maturo, il lavoro taylorista e fordista che trasforma l’attività nella successione di una serie di atti ripetitivi scientificamente determinati sulla base dell’efficienza e del risparmio del tempo di esecuzione. Non casualmente, il socialista rivoluzionario Paul Lafargue, che comprende la necessità di una battaglia culturale e non solo economica contro il capitale, vede l’influenza dei moralisti e dei preti che predicano il dovere e il compito del lavoro che è solo fatica, sfruttamento e insoddisfazione come il peggior nemico dei lavoratori. A sua volta il cattolico Max Scheler che invita il lavoratore dell’industria moderna all’ubbidienza passiva nei confronti della direzione d’impresa, rileva la principale funzione dell’etica convenzionale del lavoro: «Siamo così giunti, allora, a risultati che non conferiscono a quella attività denominata “lavorare” la consacrazione morale che la morale pratica dei nostri giorni vuole attribuire al “lavoro”. Abbiamo visto in esso una cieca attività moralmente indifferente, che riceve il suo carattere moralmente buono o cattivo solo da un condizionamento, da una regolamentazione da parte di sistemi di fini oggettivi»[6]. Appunto i «fini» dettati al lavoro dall’etica convenzionale e a esso esterna. In sé il lavoro non ha alcun senso. Questo, detto di fronte al lavoro alienato fordista ha solo il significato della sua perpetuazione.

Protestantesimo e cattolicesimo romano rappresentano quindi le due facce dell’etica cristiana del lavoro, l’etica convenzionale più influente e, sino al Novecento, l’incontrastata etica estrinseca del lavoro in Occidente. La quale, in maniere diverse e talvolta opposte, trova nel Signore, cioè in un valore trascendente, il significato e la ragione ultima e essenziale del perché l’uomo lavora, svolge cioè un’attività artificiale (voluta da Dio) che si presenta con la necessità del destino in tutta la sua crudezza e necessità. Nella seconda parte dell’Ottocento e poi con la Rivoluzione bolscevica del 1917 si afferma una nuova etica del lavoro, quella socialista e comunista la quale riproduce integralmente, mutatis mutandis, il paradigma delle etiche convenzionali ed estrinseche. Cambiano solo i «fini«, direbbe Scheler, che devono condizionare l’attività lavorativa. In questa caso il senso del lavoro è interamente dato dalle nuove finalità politico-economiche, non più private ma sociali, promosse dallo Stato comunista. Al di là di questo rivoluzionario contesto economico e sociale il lavoro, come tale, è lo stesso della fabbrica capitalistica, organizzato esattamente secondo gli stessi metodi tayloristici e fordisti, quasi fosse un comportamento oggettivo senza spazio per la persona e le sue aspirazioni[7]. Quasi che il lavoro fosse un’attività neutrale, «moralmente indifferente» (Scheler), qualcosa che prima o poi potrà essere sostituito da qualche macchina e comunque privo di qualsiasi senso morale. La fine del fordismo capitalistico e di quello socialista ha, prima di tutto, riproposto la persona al centro del lavoro.

 

5. L’etica intrinseca del lavoro come atto linguistico

Le cose cambiano radicalmente, dunque, con l’avvento del lavoro della conoscenza e del lavoro digitale. Cambiano nel senso che queste nuove forme di lavoro introducono nella produzione industriale di beni e servizi ciò che nel lavoro fordista era impossibile rinvenire, e che nel lavoro artigianale si realizzava in maniera non esportabile nella grande fabbrica ottocentesca e novecentesca: una dimensione etica fondata sulla natura e sull’organizzazione del lavoro, e non su culture a esso estranee che ne fissavano il senso a partire da se stesse per poi essere attribuite, come abbiamo visto, al lavoro e alle persone che lo svolgevano. Il salto è notevole. Esso permette di trovare nel lavoro un senso che scaturisce dall’attività stessa, per cui questa attività non viene svolta principalmente o unicamente per una necessità economica, o un dovere sociale oppure per un imperativo religioso. Un senso che è connesso alla soddisfazione di lavorare in un tipo di lavoro e secondo un modo di lavorare, nei quali la persona realizza la propria personalità e le sue potenzialità, umane e culturali. Il senso, in altre parole, consistente nel sentimento di una crescita della persona realizzata nello stesso momento in cui si crea una ricchezza materiale per sé e per gli altri. Di modo che il senso, a partire dall’attività stessa, connetta la persona e la società in un circolo di autorealizzazione e di crescita collettiva del benessere. Indipendentemente dai meccanismi economico-sociali, e politici, in cui questo possa avvenire o essere ostacolato o addirittura impedito (lavoro alienato), questo accadimento presuppone un lavoro e un’etica del lavoro che lo permettano. Ed è relativamente a questa premessa che entra in gioco il lavoro come atto linguistico di cui si è detto all’inizio.

Se il lavoro è, nei termini in cui si è detto, un atto linguistico, l’etica che innanzitutto lo riguarda è l’etica della comunicazione. La quale, da una parte, riguarderà le condizioni etiche, cioè intersoggettive, perché tale comunicazione possa accadere: un fatto che interessa anche l’etica delle macchine, nella misura in cui la comunicazione in ambiente CPS accade tra uomini, tra uomini e macchine e tra macchine e macchine. E, dall’atra, tale etica riguarderà la possibilità e le modalità della comunicazione tra il lavoro – i suoi luoghi – e la società, e viceversa tra la società e la ‘fabbrica’, e quindi le persone che vi lavorano.

Dato il lavoro come atto linguistico, Il primo passo per stabilire un’etica del lavoro intrinseca al lavoro stesso, tale per cui non si dà lavoro senza un’etica, è scoprire se le condizioni etiche perché la comunicazione accada siano, in parte o totalmente, le stesse per cui possa accadere il lavoro. Ovvero, se si accettano le condizioni in generale (trascendentali) che l’etica della comunicazione di Karl-Otto Apel stabilisce perché una conversazione possa accadere, se le condizioni poste da tale etica[8] sono valide perché possa svolgersi anche il lavoro come atto linguistico[9]. Le «norme» trascendentali, che devono cioè essere sempre premesse e realizzarsi perché l’esperienza della conversazione possa effettivamente accadere, sono per Apel di tre tipi: 1) la giustizia, cioè l’«uguale diritto per tutti i possibili partner del discorso all’impiego di ogni atto linguistico utile»[10] all’ottenimento del «consenso»; 2) la solidarietà, ovvero il «reciproco appoggio e dipendenza»[11] tra tutti i «membri» della comunità linguistica in questione (ad esempio una Smart Factory) al fine del «comune intento di una soluzione argomentativa dei problemi»[12]; 3) la co-responsabilità, cioè lo «sforzo solidale per l’articolazione e la risoluzione dei problemi»[13].

Dal punto di vista del lavoro e della conflittualità che esso solleva necessariamente, queste norme, ancorché assai calzanti per i problemi che stiamo approfondendo, non appaiono sufficienti perché il lavoro, come atto linguistico e comunicazione tra uomini, macchine e macchine, possa accadere. A mio parere ne occorrono almeno altre due: 1) la traducibilità, cioè la possibilità che i giochi linguistici che popolano la conversazione complessa della Smart Factory, espressione anche del conflitto di interessi e non solo delle condivisibili finalità produttive, siano reciprocamente comprensibili; 2) la libertà, cioè il rispetto dell’autonomia e non solo della condizione di subalternità in cui si trova il lavoro. In questo modo le «norme» divengono cinque.

Dal punto di vista del lavoro queste condizioni appaiono in grado di permettere il lavoro come atto linguistico e quindi di intrecciare il lavoro non solo con la conoscenza (knowledge work) ma anche con un’etica i cui contenuti (le cinque «norme») sono anche le condizioni del suo accadere, sono cioè a tutti gli effetti contenuti etici intrinseci all’atto lavorativo. Occorre tuttavia aggiungere che queste condizioni ideali devono essere effettivamente e praticamente riconosciute, divenire cioè un diritto soggettivo, quindi conquistate dal lavoro attraverso delle richieste che le facciano riconoscere e le garantiscano. Perché il lavoro può essere svolto, e di fatto accade sempre, anche disattendendo, in misura più o meno ampia, tali condizioni: in questo caso il lavoro non si svolgerebbe in maniera ideale, producendo contemporaneamente una caduta di senso per il lavoratore e una caduta di produttività per la direzione dell’impresa. In altre parole, ciò farebbe retrocedere il lavoro a una condizione di tipo fordista.

Ma soprattutto, la caduta di senso del lavoro come atto linguistico, causata dal non rispetto delle «norme», appare quindi una condizione immorale di lavoro, perché sarebbe un lavoro senza giustizia, solidarietà, co-responsabilità, traducibilità e libertà. Cioè un lavoro basato fondamentalmente sui valori fordisti dell’ubbidienza, della costrizione e dell’alienazione, anziché sull’autorealizzazione e la libertà che il rispetto delle condizioni trascendentali garantiscono al lavoro, da una parte, e alla sua produttività ed efficienza aziendale, dall’altra. In altre parole il lavoro come atto linguistico ridescrive il conflitto novecentesco: per la prima volta e realmente, non per l’ideologia di una etica convenzionale, le condizioni ideali di lavoro per il lavoratore non sono semplicemente in conflitto con gli interessi dell’azienda. Il conflitto si sposta sulla qualità e la misura delle «norme» ammissibili dalla direzione d’impresa e rivendicate dal lavoro, ma entro certi limiti si tratta di condizioni invalicabili, oltre le quali il coinvolgimento morale del lavoratore e la sua produttività, vengono meno. Questa la fondamentale differenza rispetto al conflitto fordista.

 

6. Lavoro, etica, società e macchine

Rimane a questo punto da richiamare, da un lato, la questione del senso sociale del lavoro, più precisamente quale senso sociale non estrinseco può rimpiazzare quello che veniva avanzato dalle etiche convenzionali – ad esempio quello evocato da Menenio Agrippa per far tornare a lavorare le plebi romane nel famoso apologo riportato da Tito Livio[14] - il quale, ancorché non separabile dal senso intrinseco del lavorare, rompe l’orizzonte circoscritto del lavoro e dei suoi luoghi; e, dall’altro, la questione dell’etica riferita alle macchine e alla loro collaborazione con l’uomo. Qui si tratta, naturalmente, solo di porre degli elementi e delle questioni in generale. Per il primo aspetto, cioè come la conversazione travalichi, e possa farlo, i luoghi di lavoro ed estendersi all’intera società, occorre richiamare la questione della partecipazione, che nel lavoro come atto linguistico è soprattutto una partecipazione al discorso della definizione di tutti gli aspetti della filiera della valorizzazione. Ovviamente si tratta di gradi diversi di responsabilità a seconda della posizione e delle competenze dei dipendenti, ma la partecipazione e l’informazione devono essere dei diritti riconosciuti a ciascun lavoratore. Si tratta di un’antica questione, in gran parte legata alla stessa alienazione del lavoro, che nel lavoro 4.0 viene posta diversamente. Infatti, la partecipazione comunicativa è sinonimo di partecipazione attiva. Le norme ideali trascendentali sono quindi anche condizioni dell’autonomia, dell’attività e della libertà del lavoratore, che poi non rimangono circoscritte alla factory: le persone che partecipano attivamente al successo dell’impresa sono anche cittadini attivi o più facilmente tali, che partecipano ai problemi della società e del suo sviluppo democratico[15]. Ci sono, ovviamente e non secondariamente, anche problemi economici e di redistribuzione della ricchezza prodotta e non solo della conoscenza impiegata, creata e comunicabile. Ma se questo piano non diviene un ostacolo alla comunicazione, un ostacolo alla lealtà e alla disponibilità, cioè un fatto di iniquità, la partecipazione si svolge su di un piano di conflittualità comunicativa che dalla conversazione nei luoghi di lavoro si apre a una conversazione sociale tra cittadini. In questo modo può accadere l’apertura del senso personale del lavoro al suo senso sociale. Naturalmente tutto questo deve essere supportato da decisioni sindacali e politiche anche di carattere organizzativo, un piano di questioni che qui è impossibile approfondire.

Quanto all’etica da costruire in relazione alle macchine, accettato che di un’etica delle macchine si possa parlare, occorre capire in che senso questo tipo di etica possa risultare coerente e utile per l’etica del lavoro di cui abbiamo parlato. Ovvero, in che modo è pensabile un’etica delle macchine che favorisca l’etica del lavoro? In questa sede si tratta solo di richiamare alcuni elementi di un ragionamento che andrebbe sviluppato specificatamente. Se partiamo dai quattro tipi di etica delle AI che James H. Moor propone[16] per classificare le capacità etiche delle macchine – che possono essere «agenti di impatto etico», «agenti etici impliciti», «agenti etici espliciti» e «agenti etici completi» - qualora le macchine del CPS in cui si svolge il lavoro come atto linguistico vengano programmate (e mi riferisco soprattutto alle macchine del secondo e terzo tipo) sulla base di programmi che valutino, controllino e suggeriscano il rispetto delle norme trascendentali che permettono la comunicazione, il coinvolgimento e la partecipazione dei dipendenti non potranno che risultare rafforzati. Inoltre, questo obiettivo apre uno spazio di dialettica interna (ma anche sociale) che vede la possibilità di contribuire da parte di tutti, secondo le proprie competenze e rivendicazioni, alla formulazione e alla comunicazione dei programmi da inserire nella memoria delle AI. Qualora poi si arrivasse alla fabbricazione di agenti del quarto tipo di Moor, questi robot, ad esempio, potrebbero essere costruiti al fine di contribuire autonomamente a vigilare sulla effettiva realizzazione del coinvolgimento attivo dei dipendenti, oppure a suggerire modalità che ne favoriscano l’attuazione. Insomma nella Smart Factory si potrebbe realizzare un importante esempio di come – cito Moor - «Alla fine, costruire robot etici renderà migliore la nostra società, oltreché aiutarci a comprendere meglio l’etica stessa»[17].

 

7. Conclusioni

Siamo partiti dalla trasformazione del lavoro manuale della fabbrica novecentesca (il lavoro fordista) in «atto linguistico performativo» per giungere alla definizione delle premesse etico-comunicative indispensabili perché tale atto si possa attuare. In questo modo abbiamo individuato nell’etica della comunicazione l’etica capace di realizzare il senso sia personale, sia sociale del lavoro. Infatti, le premesse generali e necessarie che permettono la comunicazione in cui consiste il lavoro, permettono anche di svolgere il lavoro nella autonomia, creatività e responsabilità che qualsiasi comunicazione presuppone per poter essere tale, cioè un atto che permette l’autorealizzazione della persona nel lavoro. Siamo quindi di fronte a un’etica che permette ed esprime la conquista di un senso, sia personale del lavoro, sia sociale - nella partecipazione solidale, dialettica e attiva che permette (non senza conflitto). Abbiamo altresì visto che l’etica della comunicazione mette fuori gioco le etiche convenzionali del lavoro, che per secoli hanno legittimato e giustificato il lavoro subalterno in nome di valori esterni alle attività lavorative, riuscendo a compensare l’assenza di autorealizzazione nel lavoro manuale servile, prima, e coercitivo e alienato poi. Abbiamo infine segnalato come il protestantesimo e la cultura rinascimentale delle arti meccaniche (che abbiamo emblematicamente descritto nell’artigianato artistico), abbiano rappresentato altrettanti momenti di crisi delle etiche convenzionali del lavoro, e aperto il lavoro, al di là dell’etica cristiana, a forme di autorealizzazione e di significato personale nel lavoro. In questo senso l’autorealizzazione nel lavoro come atto linguistico, permessa dall’etica della comunicazione, rappresenta la ripresa e la ridescrizione dell’amore per il lavoro e la crescita umana che esso ha scoperto nel Rinascimento.

 


[1] Cfr. F. Butera, E. Donati, R. Cesaria, I lavoratori della conoscenza, Franco Angeli, Milano 1997.

[2] Per un’analisi più approfondita di questi aspetti, cfr. G. Mari, Libertà nel lavoro. La sfida della rivoluzione digitale, il Mulino, Bologna 2019, in particolare il cap. I.

[3] Cfr. Agostino, Commento letterale al Genesi, Città nuova editrice, Roma 1989, Libro VII, 15. M. Lutero, La libertà del cristiano, La rosa editrice, Torino 1994, Cap. 22. Su questi temi cfr. R. Heilbroner, L‘atto del lavoro, a cura di G. Mari, in «Iride. Filosofia e discussione pubblica», XXIV, n. 63, 2011.

[4] E. Garin, La cultura del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 177.

[5] B. Cellini, Vita, Rizzoli, Milano 1999.

[6] M. Scheler, Lavoro ed etica (1899), tr. it. Città Nuova, Roma 1997, p. 101.

[7] Cfr. V.I. Lenin, Il taylorismo asserve l’uomo alla macchina (1914), in Opere, 20, pp. 141-43. Il taylorismo «asserve» perché i frutti dell’aumento della produttività che esso permette di incrementare non sono socialmente e razionalmente distribuiti, cosa che avverrà nel socialismo, il quale emanciperà il lavoro dall’asservimento anche se esso continuerà a essere organizzato come nella grande fabbrica capitalista. Il lavoro e chi lavora sono moralmente indifferenti e il senso del lavoro dipende solo dai condizionamenti sociali.

[8] K.-O. Apel, Etica della comunicazione, in C. Sini (a cura di), Filosofia, Jaca Book, Milano 1992.

[9] Ho affrontato questa problematica nel già citato volume Libertà del lavoro, cap. II, a cui rinvio per alcuni degli aspetti che qui tratto più sinteticamente.

 [10] K.-O. Apel, op. cit., p. 145.

 [11] Ibid.

 [12] Ibid.

 [13] Ibid.

[14] Tito Livio, Ab Urbe Condita, II, 32, 3.

[15] Cfr. G. Mari, Presentazione a A. Cipriani (a cura di), Partecipazione creativa dei lavoratori nella “fabbrica intelligente”, Firenze University Press, Firenze 2018.

[16] J.H. Moor, Four Kinds of Ethical Robots, in «Philosophy Now», 72, 2009.

 [17] https://philosophynow.org/issues/72/Four_Kinds_of_Ethical_Robots.

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