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L’elogio del superficiale. Dal chiasma tattile a quello visivo, considerazioni tra Portmann e Merleau-Ponty

Autore


Alessandra Scotti

Università di Napoli Federico II

Dipartimento Scienze Umane

Indice


  1. Essere è/o apparire
  2. Anche la forma conta
  3. Il mimetismo animale
  4. Dal chiasma tattile al chiasma visivo

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S&F_n. 11_2014

Abstract



This work investigates Maurice Merleau-Ponty’s concept of chiasme and his philosophical link with the biology by Adolf Portmann. The paper invokes a different meaning of "profondeur" surfaces, according to the notion of self-presentation. Through the studies of Merleau-Ponty, Arendt and Portmann himself it emerges the possibility of overcaming the opposition between inside/outside and a new conception of inter-animal-ity.

  1. Essere è/o apparire?

«In questo mondo, in cui facciamo ingresso apparendo da nessun luogo e dal quale scompariamo verso nessun luogo, Essere e Apparire coincidono»[1]. Con quest’affermazione eterodossa, di rara bellezza e profondità filosofica, si apre il primo capitolo de La vita della mente di Hannah Arendt. La dichiarata identità fra essere e apparire comporta due rilevanti conseguenze filosofiche: in primo luogo che la cosiddetta teoria dei due mondi perde ogni significato e valore, per dirla con Nietzsche una volta eliminato il mondo vero avremo eliminato anche quello apparente[2]; in secondo luogo l’apparire sensibile, scevro dall’accezione ingannevole e fallace a cui la storia della metafisica ci ha abituato, reclama una sua propria dignità ontologica. Ciò che si manifesta nel mondo è il mondo stesso, ed è la sua natura fenomenica che va indagata, toccata anzi. Proprio questo slittamento costituisce uno dei passaggi cruciali implicati dall’uguaglianza tra apparire essere. Ecco perché nella ricostruzione della Arendt giocano un ruolo decisivo tanto la biologia di Portmann quanto la fenomenologia di Merleau-Ponty. Poiché non siamo solo nel mondo ma anche del mondo, la nostra esistenza mondana implica una qualche forma di spettacolo allestito per uno spettatore. Ogni creatura vivente, in quanto tale, è chiamata ad apparire, a mostrarsi, «come attori su una scena»[3]. L’apparire nel mondo presuppone sempre un parere a, un mi pare e, dunque, una dimensione intersoggettiva. No man is an Island, scriveva John Donne, «la pluralità è la legge della terra»[4], gli fa eco la Arendt. Non a caso la lettura merleaupontiana di Portmann è utile a far emergere una certa dimensione dell’essere-con-altri che, mediante lo slittamento dal chiasma tattile a quello visivo, chiama in causa il complesso concetto di chair du monde.

 

  1. La forma conta

Interno/esterno è una delle vecchie dicotomie del pensiero che trova agio nella tradizione metafisica. Come nota sapientemente la Arendt[5] la stessa concezione heideggeriana della verità come a-letheia non si sottrae a questa logica. L’esterno trova giustificazione solo nel richiamo all’argomento utilitaristico, un esempio su tutti: il senso comune crede che il piumaggio degli uccelli svolga una certa funzione utile alla sopravvivenza dell’organismo vivente e si fa fatica a convincersi che esso possa non rispondere ad alcun principio evoluzionistico ma a quello che Portmann chiama impulso all’autoesibizione. Ecco che gli studi del biologo ginevrino, riconoscendo l’esistenza in natura di una morfogenesi con un preciso intento espressivo, se non addirittura di un vero e proprio criterio estetico, rivelano tutta la loro portata rivoluzionaria perché, mai come stavolta, filosofia e senso comune vanno a braccetto. Se è vero che – come nota Sloterdijk ne La domesticazione dell’essere – vi è solitamente in atto una «guerra civile tra filosofia e pensiero “ordinario”, che dai tempi di Platone non si è ancora acquietata»[6], è vero anche che storia della filosofia e comune sentire sono unite nel credere che ciò che vale, ciò che è prezioso, ciò che ha senso si cela dietro le cose e in un certo qual modo le legittima a essere. E tuttavia, come scrive Valery, «ciò che vi è di più profondo, nell’uomo, è la pelle»[7]. Quando pensiamo alla profondità pensiamo a un movimento verticale, teso a scandagliare gli abissi, come i cercatori di tesori, pensiamo al cuore di tenebra che si nasconde dentro le cose, dietro la superficie. È possibile allora pensare, sulla scorta di alcuni concetti desunti dalla biologia portmanniana (come quello di Selbstdarstellung), una concezione orizzontale della profondità. Il concetto di profondità orizzontale, nonostante suoni paradossale, consente di rinunciare alla supremazia del fondo sulla superficie, riconoscendo quindi l’identità enunciata fra essere e apparire, evitando che il superficiale si tramuti nel superfluo. In fondo si tratta di un’operazione non troppo dissimile da quella condotta da Deleuze e Guattari in Mille plateaux, che ripensa il concetto di radice in maniera totalmente anomala attraverso la figura del rizoma. Quest’ultimo, infatti, anziché svilupparsi in verticale lo fa in orizzontale. Ecco che, nel repertorio concettuale di Deleuze e Guattari, il rizoma indica tutt’altro che radicamento, verticalità e gerarchia poiché cresce orizzontalmente e ha struttura diffusiva, reticolare, anziché arborescente. È un anti-albero e un’anti-radice, se così si può dire. Simboleggia, quindi, il decorso di un’esperienza che si muove in maniera spontanea, caotica, creando una quantità innumerevole di connessioni. Ed è interessante notare come sia qui sia in Portmann l’ausilio concettuale provenga dall’osservazione del mondo naturale, dallo studio del vivente in ultima analisi.

 

  1. Il mimetismo animale

Sulla scia degli studi di Portmann e del biologo Hardouin, Merleau-Ponty si confronta con la possibilità che il principio dell’utilità non sia l’unico principio che governi la natura. Il fenomeno del mimetismo, per esempio, mostra come il vivente possegga una certa predisposizione all’esser visto e, quindi, al manifestarsi. La vita è in tal senso «potenza d’inventare del visibile; essa è in potenza di se stessa dal momento che ha fatto del visibile il proprio tema»[8]. Le forme dell’apparenza sembrano affermare una donazione gratuita del vivente, che sfugge a canoni quali quello di economia o adattamento. Scrive infatti nei suoi corsi sulla natura:

Questi fatti sono l’occasione per mettere in causa l’ideologia darwiniana: la vita non è solo organizzazione per sopravvivere; nella vita c’è una prodigiosa fioritura di forme, la cui utilità è attestata solo raramente, e che anzi, talvolta, costituiscono un pericolo per l’animale[9].

 

È ragionevole affermare che oltre all’utilità, le forme viventi cercano probabilmente l’autorappresentazione. Una fioritura di forme che rassomiglia a una produzione artistica. Aggiunge Merleau-Ponty: «le leggi dell’interno e dell’esterno non sono dello stesso ordine: l’interno dà l’impressione di una macchina, l’esterno dà piuttosto l’impressione di un prodotto dell’arte»[10]. Insomma si verifica uno spostamento da una funzione di utilità a una funzione di espressione. Ma ciò che interessa maggiormente a Merleau-Ponty è l’attestazione di «somiglianza tra la morfologia animale e il milieu»[11], fra i due vi è un vero e proprio rapporto percettivo. «Ciò che il mimetismo sembra stabilire è che il comportamento può essere definito solo attraverso una relazione percettiva e che l’Essere non può essere definito al di fuori dell’essere percettivo»[12], riaffermando il principio dell’indivisibilità fra essere e apparire (percettivo). E ancora l’animale non vede perché teleologicamente destinato alla vista, ma vede in quanto visibile, in quanto egli stesso può esser visto. Qui Merleau-Ponty chiama in causa il concetto di inter-animalità: l’identità fra colui che vede e ciò che egli vede delinea uno spazio percettivo comune, realizzando, così, ciò che possiamo chiamare chiasma visivo.

 

  1. Dal chiasma tattile al chiasma visivo

La bibliografia secondaria ha fin troppo abusato del celebre esempio della mano toccante/toccata per spiegare il concetto di chiasma o intreccio in Merleau-Ponty. Tuttavia le cose si complicano quando ne Il visibile e l’invisibile, o ne L’occhio e lo spirito, il filosofo estende la nozione di chiasma dal campo tattile a quello visivo. L’esperienza della mano che tocca, ed è al tempo stesso toccata, è verificabile da ciascuno con una certa facilità. Tutti, nessuno escluso, percepiamo un fondersi dell’oggetto col soggetto del conoscere, una singolare unione, rendendolo così un esempio di sorprendente chiarezza. Viceversa, quando il fenomenologo cita la tanto amata frase di Cézanne «il paesaggio si pensa in me»[13], la questione diviene francamente oscura. L’incomprensibilità si radica nell’ambiguità del concetto di chair, carne, allorquando fa la sua comparsa l’espressione chair du monde. Ora in Husserl il Leib designa il corpo vivente e sensibile, il corpo che abito o che sono, differenziandosi dal resto del mondo organico che anch’esso è e vive, in sintesi il corpo proprio. Ma se questo concetto gioca un ruolo importante nel padre della fenomenologia, è pur vero che esso designa nient’altro che un particolare ente, ha insomma una portata ontica, non ontologica. Di contro è con Merleau-Ponty, e più precisamente quello de Il visibile e l’invisibile e i testi coevi, che la carne – sostantivo utilizzato non a caso privo dell’aggettivo possessivo dal momento che non è più la mia propria carne, o meglio non esclusivamente – occupa un posto centrale divenendo il concetto chiave attorno al quale ruota tutta la nuova ontologia che Merleau-Ponty tratteggia. La mia propria carne assurge a testimonianza ontologica di una dimensione originaria che la eccede: quella della carne del mondo che sembra delinearsi come l’altro nome che Merleau-Ponty attribuisce all’essere. La questione allora è la seguente: come si verifica il passaggio dalla mia carne a questa dimensione enigmatica di carne del mondo? Nell’esempio toccato/toccante si assiste all’annullamento della distinzione sentire/sentito, soggetto/oggetto. Dal momento che nessuna parte del mio corpo può restare puro corpo (semplicemente toccato), né alcuna attività tattile può sottrarsi al suo essere incarnata, bisogna ripensare l’attività gnoseologica a partire dalla reversibilità che sussiste fra me e il mondo. Questa reversibilità, che poi è la definizione che Merleau-Ponty dà del chiasma, significa in primis che l’esperienza del mondo racchiude per essenza un’appartenenza fondamentale a questo mondo stesso. La realtà percettiva, di cui il toccare è una modalità eminente, è caratterizzata da una iterazione fondamentale: la percezione fa apparire il mondo in quanto essa è già dal suo lato. In tal senso, secondo una relazione che è paradossale solo in apparenza, essa appartiene a ciò che va costituendo. Come il numero zero che, al tempo stesso, è qualcos’altro che un numero e il primo fra essi, come un passo verso il mondo che sarebbe contemporaneamente un passo nel mondo. Detto questo è inevitabile che il concetto di carne e di reversibilità abbia una qualche portata ontologica. Come nota Barbaras delle due cose l’una: «ou bien on continua à se situer dans le cadre ontologique traditionnel et l’on admet alors que la réversibilité n’est qu’une curiosité psychologique […] Ou bien on prend au sérieux cette réversibilité qu’atteste le toucher, mais alors elle ne peut plus être circonscrite à mon seul corps et il faut admettre que (…) elle doit être au-delà»[14]. Il senso ontico della carne è destinato, dunque, a essere oltrepassato verso un senso più originario. Il passaggio si opera per estensione del modo di essere carnale sulla base dell’appartenenza del mio corpo al mondo. In effetti dal momento che la frontiera fra il mio corpo e il mondo perde di senso da un punto di vista ontologico, dire che il mio corpo è abitato da un sentire equivale a dire «l’espace lui-même se sait à travers mon corps»[15]. Non sono io che sento, ma è la cosa che si sente in me; la confusione di soggetto e oggetto in seno alla carne propria è attribuita al mondo stesso sotto forma di indifferenziazione essenziale fra l’essere e l’apparire: cosicché ogni parte del mio corpo può uscire dal suo silenzio corporale e diventare sensibile. È in questo senso che la carne, intesa ontologicamente, è compresa come Visibilità. Ecco che una nota dell’aprile del 1960 de Il visibile e l’invisibile, in cui Merleau-Ponty fa esplicitamente riferimento a Portmann, può tornare utile a tirare le fila del discorso su cosa sia quest’alone di visibilità di cui parla a proposito del concetto di autoesibizione. La nota si intitola “Telepatia - Essere per altri - Corporeità”: se è vero che ogni vivente debba essere considerato come organo per essere visto, allora «percepire una parte del mio corpo è anche percepirla come visibile, i.e. per altri»[16]. Così come scrive Portmann, «l’occhio contiene in sé la possibilità di esser guardato»[17], cioè se non vi fosse l’altro a guardarmi, se non ci fosse questo alone di visibilità a mettere in comunione me e l’altro, la mia propria visibilità perderebbe di senso. C’è un’espressività originaria e fenomeni come la telepatia o il mimetismo attestano il rapporto chiasmatico tra corpo e mondo; entrambi ci portano ad ammettere una indivisione, una relazione interna di somiglianza tra vivente e ambiente. Nei Résumés des cours leggiamo:

il y a parenté entre l’être de la terre et celui de mon corps (Leib),dont je ne peux dire exactement qu’il se meut puisqu’il est toujours à la même distance de moi, et la parenté s’étend aux autres, qui m’apparaissent comme «autres corps», aux animaux, que je comprends comme variantes de ma corporéité, et finalement aux corps terrestres eux-mêmes puisque je les fais entrer dans la société des vivants en disant par exemple qu’une pierre «vole»[18].

 

L’ammissione di questa parentela fra noi stessi e la terra e gli altri esseri viventi è la condizione che permette il verificarsi di un intreccio fra il vedere e l’essere visto, fra il nostro sguardo e lo sguardo altrui. Essa consente altresì, grazie anche all’apporto degli studi di Portmann, di ripensare il rapporto interno/esterno in termini nuovi ricordandoci che, talora, la natura si comporta come il nostro inconscio, nascondendo in superficie ciò che è più prezioso. Proprio come fa il protagonista del racconto di Poe La lettera trafugata, oggetto per altro di uno splendido seminario di Lacan[19], che depista i vari ispettori nascondendo la suddetta nel posto a cui nessuno avrebbe pensato: il portalettere.

 


[1] H. Arendt, La vita della mente, tr. it. Il mulino, Bologna 2009, p. 99.

[2] Cfr. F. Nietzsche, Come il «mondo vero» finì per diventare favola in Crepuscolo degli idoli, ovvero come si filosofa col martello, tr. it. Adelphi, Milano 1983, pp. 46-47.

[3] H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 101.

[4] Ibid., p. 99.

[5] Cfr. H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 104.

[6] P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, tr. it. Bompiani, Milano 2004, p. 113.

[7] P. Valery, L’idea fissa o due uomini al mare, tr. it. Theoria, Roma-Napoli 1985, p. 60.

[8] Cfr. É. Bimbenet, Nature et humanité. Le problème anthropologique dans l’œuvre de Merleau-Ponty, Vrin, Paris 2004, p. 259.

[9] M. Merleau-Ponty, La natura, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 272.

[10] Ibid., p. 274.

[11] Ibid., p. 277.

[12] Ibid., p. 278.

[13] M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, in Senso e non senso, tr. it. Net, Milano 2004, p. 36.

[14] R. Barbaras, Le trois sens de la chair. Sur une impasse de l’ontologie de Merleau-Ponty, in «Chiasmi», 10, 2008, p. 22.

[15] M. Merleau-Ponty, Signes (1960), Nrf Gallimard, Paris 1993, p. 176.

[16] Id., Il visibile e l’invisibile, tr. it. Bompiani, Milano 2009, p. 257.

[17] A. Portmann, Le forme viventi. Nuove prospettive della biologia, tr. it. Adelphi, Milano 1989, p. 24.

[18] M. Merleau-Ponty, Résumés de cours. Collège de France 1952-1960, Paris, Gallimard, 1968, p. 169.

[19] J. Lacan, Il seminario su “La lettera rubata”, in La cosa freudiana, tr. it. Einaudi, Torino 1972.

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