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Il sorriso, espressione virtuale e virtuosa

Autore


Vallori Rasini

Università di Modena e Reggio Emilia

Indice


  1. Lo statuto del sorriso
  2. Il sorriso non è riso
  3. Virtuale presenza  
  4. Virtuoso silenzio

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S&F_n. 18_2017

Abstract


The Smile: a virtual and virtuous Expression


In the theory of Helmuth Plessner, an eminent contemporary philosopher of anthropology, smile is a miming expression independent from laugh. Laugh represents an interruption of a special situation: it is a manifestation of disorder and confusion. Smile is on the contrary a controlled mediation of man in regards to the world. The nature of smile is usually refined and mitigating; it can reveal, to a careful look, a lot of sensation and psychical conditions. Ultimately, smile is the must virtual and virtuous expression of human eccentricity.


  1. Lo statuto del sorriso

“Un sorriso può tutto”: sarà un semplice modo di dire, ma certamente le sue radici affondano nella versatilità profonda e istrionica di una manifestazione espressiva che si può dire l’emblema del trasformismo umano. La sua ambiguità supera quella di qualunque altra espressione mimica umana e la sua adattabilità alle più differenti e contrastanti disposizioni dell’animo decreta l’assoluta impossibilità di determinare con esattezza a quali motivi si possa legare la sua comparsa. Il sorriso del neonato, il sorriso amichevole, quello ironico o beffardo, il sorriso di piacere e quello di amarezza, non hanno tra loro nulla in comune, se non una determinata contrazione muscolare del volto, con allungamento delle labbra e formazione di lievi fossette laterali che, fotografata nel suo darsi puramente esteriore, dice – insieme – troppo e troppo poco: mentre non traspare univoca ragione di scatenamento né sensazione provata, dalla sua sola immagine prende spazio un vasto campo di possibilità accennate, impercettibilmente presenti.

Il fascino del sorriso ha stregato poeti, musicisti, ma specialmente scultori e pittori di ogni tempo, ispirando alcune delle opere più straordinarie della cultura mondiale: dalle molte rappresentazioni orientali del Buddha all’etrusco Apollo di Veio; dai ritratti in affresco dell’antichità alla ineguagliabile Gioconda, per sedurre infine l’arte relativamente giovane della fotografia. Al contempo, la sua spontanea insorgenza – talora apparentemente inconsapevole, talaltra pregna della massima concentrazione raziocinante – ha incuriosito scienziati e psicologi[1]. Il noto studio di Charles Darwin, dal titolo  L’espressione delle emozioni, che si avvale peraltro di minuziose osservazioni antropologiche e di testimonianze fotografiche, nel valutare il rapporto tra certe sensazioni e le manifestazioni fisiche loro conseguenti, si è soffermato sulla fisiologia del sorriso, precisando che, oltre all’intervento dei grandi muscoli zigomatici, avviene una moderata contrazione anche di alcuni muscoli del labbro superiore e contemporaneamente una dei muscoli orbicolari dell’occhio, sia nella parte superiore sia in quella inferiore[2]. Una simile descrizione fisiologica del sorriso, tutt’altro che fine a se stessa, recepiva numerosi risultati di ricerche anatomiche e morfologiche – animali e umane, precedenti e contemporanee – inserendosi all’interno di un lavoro di ricerca che mirava a sottolineare la continuità di forma, modalità e funzione delle espressioni emotive tra specie differenti e tra l’animale e l’essere umano.

Con un intento di altra natura, nel 1950, Helmuth Plessner – esponente di spicco della corrente tedesca contemporanea dell’antropologia filosofica – proponeva alle stampe un breve ma intenso saggio sul sorriso, cercando di interrompere la consueta separazione tra una lettura estetico-fenomenologica dell’espressione e la sua analisi fisiologico-funzionale[3]. Impegnato in una scrupolosa indagine sul valore specificamente antropologico delle diverse forme dell’espressione e della comunicazione, Plessner sostiene che il sorriso rappresenta la forma più duttile e convincente della “eccentricità” umana[4]; esso è inoltre l’espressione insieme più spontanea e più artificiosa che possa darsi. Ma soprattutto, sostiene con forza – diversamente dalla maggior parte delle trattazioni filosofiche e scientifiche – che il sorriso non ha nulla a che fare con il riso, e che benché possa darsi un passaggio graduale dall’una all’altra forma espressiva, il valore antropologico del riso e quello del sorriso sono non solo diversi, ma persino opposti.

  1. Il sorriso non è riso

L’espressione sfumata del sorriso richiama la più decisa e rumorosa manifestazione del riso, come a indicarne una forma diminutiva, una fase iniziale o accennata. Non è un caso che anche la formulazione linguistica, in molti casi, si attenga a questa impressione: come l’italiano “sorridere”, così subridere, sourire, sonrisa, ma anche lächeln, osmijeh, buzequeshje ecc. propongono – benché in forme diverse – un chiaro rimando al riso[5]. Naturalmente, questo fatto ha un fondamento: accade spesso che il riso si scateni a partire dal sorriso, o che con un sorriso si concluda; o ancora che ci si trattenga in un sorriso mentre si vorrebbe ridere, può dunque persino accadere che il sorriso sostituisca il riso. Ma in queste circostanze ad avere la meglio è specialmente il fattore mimico. Di per sé, il sorriso è un’espressione autonoma, con una propria caratterizzazione e proprie occorrenze. In particolare se il punto di vista che assumiamo è quello del significato antropologico dell’espressione – come intende fare Plessner – rimarcare l’alterità reciproca di riso e sorrido è affatto doveroso. Nella prefazione alla seconda edizione di un volume dedicato al riso e al pianto egli scrive:

il sorriso è una modalità espressiva sui generis: 1. è una forma germinale, frenata e di passaggio al riso e al pianto, e perciò è una espressione mimica nell’ambito delle espressioni non mimiche; 2. è espressione mimica “di” e gesto “per” una sterminata quantità di sentimenti, sensazioni, azioni, relazioni e stati, come la cortesia e l’impaccio, la superiorità e l’imbarazzo, la compassione, la comprensione, l’indulgenza, la sciocchezza e la ragionevolezza, la dolcezza e l’ironia, l’irrilevanza e la lealtà, la difesa e la seduzione, lo stupore e il riconoscimento; 3. è gesto di costume (keep smiling dall’Asia orientale all’America), che dice tutto e nulla, e atteggiamento semplicemente rappresentativo, essendo specchio della eccentricità come distanza dell’uomo da se stesso[6].

Quasi in forma di appunto, Plessner condensa i principali motivi che escludono l’opportunità di una trattazione congiunta del riso e del sorriso. A suo parere, il riso va trattato insieme al pianto, non al sorriso; perché come il pianto, riveste il significato assai particolare e ben definito di manifestazione estrema, di “limite comportamentale” e al contempo di superamento di detto limite[7]. Dal punto di vista fenomenico, il riso è una manifestazione violenta e improvvisa; potente nella sua irruenza, e rumorosa, aperta e singolarmente coinvolgente; ma anche difficilmente controllabile, per molti aspetti “meccanica”, come se l’intera persona fosse improvvisamente caduta in preda a un processo puramente fisiologico, “profondo” e autonomo; tutto ciò è sintomo del fatto che il riso costituisce un fenomeno di rottura e di disorganizzazione, una manifestazione dal significato univoco e inequivocabile. Esattamente come il pianto, il riso testimonia l’irrompere di una crisi, di deragliamento dell’uomo rispetto a una situazione che lo spiazza; denuncia una insanabile (ancorché momentanea) debolezza, lasciando trasparire l’esistenza di uno iato all’interno dell’ente “eccentrico”; pur mantenendo integra la responsabilità della persona, esso quietanza una situazione, decreta una chiusura[8]. Il sorriso è un’altra cosa.

 

  1. Virtuale presenza

Il sorriso non interrompe un rapporto, non stacca l’uomo dal resto delle circostanze, non quietanza una situazione; al contrario, esso mantiene – talora forzatamente – un preciso legame con gli eventi, tesse sottili trame, collaborando proficuamente con altre potenzialità espressive del volto e degli occhi. La sua straordinaria versatilità, soggetta a sfumature e rifrazioni innumerevoli, è unica:

conosciamo il sorriso amichevole, quello scortese e quello riservato, il beffardo e il compassionevole, il sorriso del perdono e quello sprezzante. Può esprimere sorpresa, un giudizio, il riconoscimento, l’incomprensione, il piacere sensuale, la soddisfazione, ma anche dolore e amarezza. Successo e sconfitta portano egualmente il suo sigillo.

In ogni caso, appartiene alla sua essenza un presa di distanza, un allontanamento dalla situazione, che tuttavia, lungi dall’essere un congedo, interpone e frappone tra il sé e il fuori una quantità di possibili dati e circostanze. Il sorriso crea insomma una sorta di intercapedine tra le sensazioni dell’uomo e la relazione con il mondo; e questo rende possibile il passaggio, scivoloso e talora perverso, dalla manifestazione spontanea di uno stato all’assunzione di un “atteggiamento”. Quanto dunque allo statuto del sorriso:

nulla è più significativo dell’impossibilità, insita nel suo carattere silenzioso, delicato, composto, di determinare con precisione i limiti entro cui l’atteggiamento spontaneo del sorriso si trasforma in gesto allusivo, una maschera di copertura[9].

Il lieve rilassamento del volto, che accompagna il sorriso, sembra offrire a questa singolare manifestazione comunicativa un ampio “campo di gioco”, all’interno del quale si concentra tutta la “virtualità” di una espressione capace di una inusuale disponibilità di percorsi e di esiti. L’allontanamento che si rende possibile, tra l’uomo stesso e la propria espressione – al contrario di quanto accade ad esempio con il riso e il pianto – apre un ambito indefinito di seduzioni e di scelte, di effettive o apparenti decisioni, intenti, risposte. La caratteristica allusività della mimica del sorriso spalanca un universo di simboli e allegorie. Grazie anche alla abbondanza di sfumature motorie che si adattano alla molteplicità dei sentimenti, nel sorriso resta fluido il confine tra atteggiamento spontaneo e gesto allusivo. Così – scrive Plessner – «la natura diviene arte»[10].

Con enigmaticità, il sorriso dice “in potenza”; avanza un portato comunicativo che rimane in certo senso “sempre sospeso”. Come gesto non solo mimico, il sorriso si dimostra plasticamente strumentalizzabile e capace di “dire” molto più di quanto non sia realmente detto, oppure molto meno di quanto sarebbe necessario esprimere a parole. In questo senso, il sorriso – capace di «distacco dall’espressione nell’espressione stessa»[11] – costituisce il mezzo espressivo maggiormente virtuale, nel novero delle manifestazioni comportamentali umane.

Agganciandosi alla concezione dell’Antriebsform di Ludwig Klages, Plessner spiega il carattere immancabilmente sfumato e “diminutivo” del sorriso anche quando esso comporti la risposta a impulsi straordinariamente forti. Se il sorriso appare privo in se stesso di una forte carica affettiva e sembra mancare di una eccitazione violenta, ciò non significa affatto che possa esprimere solo emozioni deboli. Al contrario, le sue potenzialità sono oltremodo ampie, e la sua capacità di adattamento al sentimento è pressoché infinita. La cosa si può spiegare attraverso l’introduzione del concetto di “forma impulsiva”, secondo il quale certi sentimenti, indipendentemente dalla loro capacità di pervadere o di trascinare la persona, sono tuttavia dotati di una forma impulsiva debole, non posseggono cioè uno spiccato impulso motorio. Così, chiarisce Plessner

l’intensità di un sentimento varia indipendentemente dalla sua forma impulsiva; un sentimento debole può avere una forma impulsiva forte, pronunciata, mentre un sentimento forte può averla debole e attenuata[12].

Quindi l’aspetto sfumato del fenomeno non dice nulla sulla intensità effettiva delle eccitazioni che vi si manifestano. Il gesto è virtualmente capace di assumere su di sé una quantità di variazioni emotive, rivelandosi sempre adeguato a ciò di cui si fa tramite espressivo:

un sorriso trionfale, un sorriso beato o pacifico non è meno adeguato al suo sentimento di quanto lo sia un sorriso sufficiente o malizioso, un sorriso ironico o amaro. Non è in gioco l’entità, la forza, la pienezza o l’autenticità del sentimento; non è necessario che esso sia più debole, più breve, superficiale o addirittura in autentico per il fatto che si manifesta in un gesto smorzato. Il sentimento può sentimento può esibirsi nel modo più vivido e puro, e tuttavia realizzarsi in questa e nessun’altra forma[13].

  1. Virtuoso silenzio

Questa singolare adattabilità fa del sorriso, al contempo, una manifestazione estremamente “virtuosa” del carattere eccentrico umano; ne fa cioè una espressione provvista di una dote speciale e rara: quella di modellare in una certa nuance – di volta in volta unica – il moto interiore in gioco. Nel sorriso – chiarisce Plessner – «noi stessi scolpiamo i nostri sentimenti»[14], l’uomo interviene appositamente per configurare espressivamente ciò che prova, all’interno del campo di gioco offerto dalla bocca e dalla mimica facciale. Al contrario di certe opinioni diffuse, il sorriso non ha la funzione di occultare azioni, intenzioni o idee; quanto meno, non è questa la sua principale vocazione. Al contrario, favorito dalla declinazione dell’angolo della bocca, dal movimento delle sopracciglia e delle palpebre, accentuandoli o attenuandoli, esso indirizza all’altro e a se stesso un messaggio che travalica qualunque comunicazione esplicita:

il gioco instaurato dal sorriso con la mimica del rilassamento si serve spesso dell’asimmetria, in cui vengono tratteggiati non solo il carattere allentato, leggero, libero e sospeso del sentimento, oltre alla distanza da se stesso e dal proprio ambiente di colui che è affetto dal sentimento, ma sovente anche l’ambiguità e la polivalenza della cosa, l’obliquità e rischiosità della situazione[15].

Il sorriso reagisce a una situazione con eleganza, sempre mitigando; conferma l’avvenuta comprensione delle circostanze, allentando il legame con esse. E anche quando i suoi tratti non “dicono” veramente, fanno quanto meno “capire” qualcosa.

Allegorico e altamente simbolico; inesauribile, imperscrutabile ed eloquente più di qualunque parola, il sorriso si serve soprattutto del silenzio, giacché l’ambiguità del silenzio e quella del sorriso sono reciprocamente equivalenti:

il silenzio interrompe il flusso del discorso per lasciarlo proseguire in modo sotterraneo, o lo spezza per delimitare o approfondire tacitamente quanto detto, lasciar emergere o smorzare l’indicibile, inserirlo, come fa una pausa, nel gioco dei toni, delle luci: così pure il sorriso. Esso dice, silenziosamente e a modo proprio, il tacito, l’occulto, il trattenuto come il dissolto, ciò che ha abbandonato ogni possesso e ogni sapere e superato il mondo. Il suo dire non ha più bisogno di essere rivolto a un ambiente[16].

Il sorriso riesce insomma a “migrare” dal mondo, mantenendo al contempo tutta la lucidità che tradisce l’altezza e la nobiltà della posizione umana. Anche per questo, gli è possibile scivolare spontaneamente nel simbolismo. La semplice espressione naturale riesce infatti a cambiarsi con facilità in gesto meditato, mostrandosi come la più sublime allegoria del dominio dell’uomo sul proprio corpo. Per questo stesso motivo si dice che il sorriso è la «mimica dello spirito»[17]. Proprio perché già come atteggiamento naturale il sorriso esprime prendendo distanza dall’espressione stessa, rende nota la capacità dell’uomo di prendere distanza da se stesso e dal mondo; e questo è esattamente ciò che Plessner intende con “spiritualità”. Diversamente dall’animale, l’essere umano si sente spirituale, in quanto “sollevato” su di sé e sul proprio mondo, capace di “vedersi da fuori”, e di essere consapevole anche di questa sua possibilità.

Il sorriso diviene allora non soltanto veicolo di senso ed estrinsecazione di stati d’animo, ma specchio della stessa posizione umana e sua mimica; esso – in ogni modalità – esprime «l’umanità dell’uomo»[18]. Lo fa tuttavia in maniera molto diversa dal riso e dal pianto: anch’essi vengono considerati da Plessner monopolio specifico dell’uomo in quanto capaci di mostrarne l’eccentricità, ma mentre riso e pianto denotano una perdita dell’autocontrollo, il sorriso rappresenta «quiete attiva e controllata distanza»[19]. Nella allegorica nobiltà del suo molteplice darsi, come nel raffinato gioco di virtuosità e virtualità che sempre lo accompagna, il sorriso sembra condividere il proprio valore semantico con la sola “figura umana” in grado di impersonare l’eccentricità: quella dell’attore[20].


[1] Un significativo studio psicologico contemporaneo specifico sul sorriso è quello di G. Dumas, Le Sourire et l’expression des émotions, pubblicato per la prima volta nel 1906 (poi PUF, Paris 1948); sono interessanti le osservazioni etnologiche sul sorriso di I. Eibl-Eibesfeld, in Etologia Umana. Le basi biologiche e culturali del comportamento, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2001, particolarmente p. 132 e p. 308.

[2] C. Darwin, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 232.

[3] H. Plessner, Il sorriso (1950), a cura di V. Rasini, in «aut-aut», 282, 1997, pp. 153-163. Non è qui possibile presentare il complesso quadro teorico all’interno del quale Helmuth Plessner colloca anche la concezione del sorriso; si rimanda pertanto il lettore italiano ai lavori di M. Russo, La provincia dell’uomo. Studio su Helmuth Plessner e sul problema di un’antropologia filosofica, La Città del Sole, Napoli 2000; O. Tolone, Homo absconditus. L’antropologia filosofica di Helmuth Plessner, ESI, Napoli 2000; V. Rasini, L’eccentrico. Filosofia della natura e antropologia in Helmuth Plessner, Mimesis, Milano 2013; e al sito della HPG: http://helmuth-plessner.de/literatur/werkausgaben/.

[4] Il concetto esprime la posizione “ex-centrica” dell’essere umano, il quale non è “centrato” in se stesso, come lo è l’animale (costretto a vivere l’attualità del qui e ora), ma è in grado di “uscire da se stesso”, di vedersi “da dietro”, di essere cioè autocosciente.

[5] Persino la lingua scritta cinese compone la parola “sorridere” utilizzando il carattere per “ridere”, preceduto da uno che indica “poco”, “piccolo”, “minima parte”.

[6] H. Plessner, Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del comportamento umano, tr. it. Bompiani, Milano 20153; poi Giunti, Firenze 2017, p. 43.

[7] Mi permetto di rimandare a V. Rasini, Espressione umana e realizzazione del limite: il riso e il pianto, in B. Accarino (a cura di), Espressività e stile. La filosofia dei sensi e dell’espressione in Helmuth Plessner, Mimesis, Milano 2009, pp. 219-230.

[8] H. Plessner, Il riso e il pianto, cit., p. 213 sgg.

[9] Id., Il sorriso, cit., p. 157.

[10] Ibid., p. 158.

[11] Ibid., p. 157.

[12] Ibid., p. 155. Si veda L. Klages, Espressione e creatività (1913), tr. it. Marietti, Milano 2015.

[13] H. Plessner, Il sorriso, cit., p. 156.

[14] Ibid., p. 158.

[15] Ibid.

[16] Ibid., p. 159.

[17] Ibid., p. 160.

[18] Ibid., p. 161 e p. 163.

[19] Ibid., p. 63.

[20] Plessner ha dedicato studi particolari e assai interessanti alla figura dell’attore, emblematica della capacità dell’uomo di uscire dai propri panni per vestire quelli dell’alto, ciò che solo un essere eccentrico può realmente fare: H. Plessner, L’antropologia dell’attore (1948), in Studi di Estesiologia. L’uomo, i sensi, il suono, tr. it. CLUEB, Bologna 2007, pp. 77-90.

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