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Roberto Marchesini – Il tramonto dellʼuomo. La prospettiva post-umanista [Edizioni Dedalo, Bari 2009, pp. 202, € 16]


Se volessimo racchiudere in poche parole lʼintentio della filosofia post-umanista potremmo metterla così: essa cerca di scrollarsi di dosso quel peccato di apologetica dellʼumano che Nietzsche acutamente attribuiva alla filosofia tutta. Ma il post-umanesimo è non solo, e forse non proprio, una corrente filosofica, è piuttosto una prospettiva, vale a dire un modo di vedere, un vedere a partire da (è proprio questo “da” a essere incarnato, ibrido, interattivo, ridondante, etc.) che accoglie a pieno titolo i contributi delle biologie e delle tecnoscienze proponendosi di ridefinire i criteria antropoietici. Il novecento ha sconfessato apertamente la visione antropocentrica, costruita attorno al mito dell’uomo signore dell’universo, dando luogo a un doppio movimento di ridimensionamento e decentramento dell’umano. Il testo di Marchesini prende avvio proprio dalla consapevolezza che il concetto di uomo, così come lo abbiamo inteso dal rinascimento a oggi, volge al tramonto. Ciò per Marchesini, contrariamente a quanto sostengono alcuni, non apre scenari fatalmente apocalittici, piuttosto segna l’alba di una nuova comprensione dell’umano, secondo diversi paradigmi interpretativi. Il testo, quindi, da un lato ripercorre quelli che sono i “miti” della prospettiva antropocentrica, come l’idea di purezza o quella dellʼuomo quale animale carente, dallʼaltro individua le linee guida dellʼapproccio post-umanista all’antica quaestio dell’essere umano. Quali sono, secondo Marchesini, i fondamenti sgretolati del paradigma umanista? Innanzitutto «l’autarchia della dimensione umana» (p. 27), l’umanismo fonda se stesso su un’autosufficienza esplicativa, relegando così lʼumano in una solitudine tanto superba quanto sterile. Ecco perché l’alterità nella prospettiva umanista è sempre temuta, negata, soppressa. Nella dialettica continua e irrinunciabile tra identità e alterità Marchesini ravvede uno dei fulcri della filosofia post-umanista: «l’umano non è più l’emanazione o l’espressione dellʼuomo bensì il risultato dell’ibridazione dellʼuomo con le alterità non umane» (p. 34). Quando pensiamo allʼalterità pensiamo immediatamente allʼanimalità, a questa eco della dimensione regressiva, e tuttavia tale categoria è artificiosa, dacché non c’è carattere che sia condiviso da tutti gli animali, né dalla maggioranza degli stessi; essa si carica di senso solo perché fa da contraltare al pensiero antropocentrato. Dunque il post-umanesimo si caratterizza, in primo luogo, come «critica al pensiero dicotomico» (p. 36). Questʼultimo realizza lʼidentità umana secondo divergenza e opposizione e fa coincidere il diventare umani con un progressivo allontanamento dalla condizione animale, che, a conti fatti, non entra mai a costituire lʼumano stesso, ma viene mantenuta solo come polo dialettico. Ciò vuol dire che da una parte «si ammette una prossimità filogenetica ma parimenti si cerca di annichilire la vicinanza o per converso riconoscerla solo in alcuni comportamenti regressivi, contrastativi con la predicazione stessa di umanità: lʼaggressività, lʼomicidio, lʼeccesso alimentare o sessuale, la frenesia cinestesica, il panico, lʼirrazionalità» (p. 43). Il mito dellʼautarchia va di pari passo col mito della purezza, risolvendosi in una concezione distorta della tecnica quale strumento volto a definire lʼumano. Lʼente non umano, sia esso un oggetto di utilizzo o conoscenza, si dà allʼuso «come un guanto, mantenendosi tuttavia esterno, senza cioè modificare la mano» (p. 91). Viceversa secondo il post-umanesimo la tecnologia non è solo strumento, ma un partner che modifica il profilo stesso dellʼumano e la sua struttura biologica, agendo al pari di un fenotipo. In tal senso essa non si configura quale emanazione dellʼuomo, bensì come il frutto della congiunzione con il non umano. La lettura distanziativa della tecnica, come di quella stampella culturale di cui lʼuomo si dota per far fronte alla presunta carenza biologica, è fuorviante: la tecnica penetra nellʼumano, si fa carne; essa modifica il bìos, lo declina, «ogni tecnologia è di fatto una biotecnologia» (p. 174), unisce e non distanzia. La tecnologia, così intesa, trasforma lʼepistemica umana: non separa e purifica, ma coniuga e ibrida, antropodecentrando la visione dellʼessere umano. La concezione esonerativa della tecnica articola, ancora una volta, il paradigma dellʼuomo quale animale carente. La natura umana, ammesso che ne esista una, deve dirsi deficitaria o piuttosto pregnante? Lʼumanesimo, da Pico della Mirandola a Gehlen, ha fornito la sua risposta e ha pensato lʼincompletezza come libertà e virtualità. Un corpo carente conferisce allʼuomo il pieno possesso del proprio destino, radica l’orgoglio evolutivo nella risposta intellettiva, che ha permesso allʼuomo di esercitare il dominio sugli altri esseri viventi. Ma una tale visione è erronea per due ragioni: in primo luogo perché non ipotizza un feedback dello strumento sull’uomo stesso; in secondo luogo perché si figura la “subottimalità” come uno stato dato a priori, vagheggiando un passato in cui i nostri lontani progenitori abbiano dovuto sopportare un corpo tanto carente. In realtà il rapporto corpo-strumento è più complesso di quanto ci vogliano far credere gli umanisti: «qualunque strumento – argomenta bene Marchesini – interviene sia a livello filogenetico che ontogenetico nell’impostare le coordinate evolutive del corpo, pertanto lo strumento non è al di fuori di noi, ma è in noi […]. Lo strumento ha trasformato il corpo e si è iscritto nel corpo, per questo togliere lo strumento significa ritrovare un corpo modificato e non un’essenza primigenia» (p. 113). L’avvento dello strumento non è una risposta esonerativa, ma il frutto di una mutazione occasionale, creativa che agisce sulla storia dellʼuomo, determinandone un processo integrativo. Parimenti la percezione di “subottimalità” non è un qualcosa che precede lo strumento, dal momento che non possiamo parlare di deficit sul piano performativo senza avere un piano di confronto, e questʼultimo si dà sempre a posteriori, «è lʼavvento di una partnership che crea un senso di carenza e non viceversa» (ibid.). «Un sistema nervoso centrale così magnificato, 12 milioni di neuroni con un costo energetico di quasi il 50% delle risorse alimentari, […] come si può considerare questo corpo indeclinato e carente sotto il profilo della specializzazione?» (p. 114), punzecchia Marchesini. Ciò può accadere solo se riteniamo lʼ“esternalizzazione” come sintomo di una mancanza originaria e non il risultato un processo evolutivo altamente specializzato, confondendo così una qualità biologica della nostra specie con lʼesatto contrario. Carenza quindi non vuol dire incompletezza, bensì correlazione. Non a caso le recenti biologie della complessità hanno mostrato che la carenza di un sistema è sintomo di ridondanza e non di vacuità: quanto più un sistema è complesso tanto più richiede-consente lʼapporto esterno. La visione post-umanista, secondo lʼautore, si distanzia anche da quella iperumanista e transumanista: entrambe, sebbene in modi diversi, insistono sul carattere strumentale ed emanativo della tecnica, rimanendo ancorate a una concezione essenzialistica dell’umano. Possiamo stigmatizzare le teorie iperumaniste e transumaniste in questo modo: per i primi la tecnoscienza raffigura il dominio dellʼuomo sul mondo, per i secondi la via di salvezza dellʼuomo dal mondo. Sia gli uni sia gli altri reintroducono di soppiatto una visione del biologico come frutto di una natura matrigna, da compensare o avversare. Se è vero, ed è vero, che il novecento ha segnato la fine della “questione del soggetto”, conviene a questo punto domandarsi quali siano i predicati che ineriscono a questa nuova forma di individualità post-umana? In primis la soggettività post-umanistica è una soggettività al plurale, fondantesi sulla contaminazione, Marchesini conia a tal proposito il termine “multividuo” proprio per sottolineare che quellʼidea di individuo come entità emergente per separazione, solida, coesa, unica e indivisibile, tipicamente umanista, non corrisponde più all’esercizio di soggettività come si viene a dipanare oggi. Il cammino della soggettività post-umana non è più votato allʼinterno, alla ricerca del vero sé, bensì costantemente proiettato verso lʼesterno, è apertura progressiva verso il mondo. È interessante altresì notare che la soggettività post-umanistica reca con sé una diversa concezione del tempo e dello spazio. Marchesini afferma che si verifica un passaggio da una concezione esistenziale a una resistenziale: «mentre lʼesistenza è un fluire lungo il tempo, un rinnovarsi che sbiadisce il passato, […] la resistenza indica la compresenza del passato nel presente, la sua corposità sostanziale e sincronica, l’affardellarsi del trascorso sul qui e ora» (p. 143). Come conseguenza di ciò il presente viene alleggerito e il passato diviene lʼunico punto fermo, e questo è testimoniato dal diffondersi, pervasivo negli ultimi decenni, di macchine del ricordo. Il resistere è un sentire profondamente diverso dal tradizionale “fermare il tempo”; esso non ha ambizioni di staticità al contrario, si modula sulla dinamicità del mutare. «Il presente – nota acutamente lʼautore – ha un significato diverso nellʼuomo contemporaneo e non è una differenza di poco conto: viviamo un presente fluido che annulla il concetto di qui e ora, viviamo a dispetto del tempo, non ci leghiamo a nulla e nello stesso tempo non abbandoniamo nulla» (p. 145). A mutare, come dicevamo, è anche il concetto di spazio: la soggettività post-umanista è meta-locata, garantendo così unʼesperienza che non tiene conto dello spazio-tempo specifico di collocazione, perché può costantemente inventare se stessa, avvalendosi di locazioni fittizie come testimoniano gli avatar. C’è un’ultima questione che vorremmo sollevare sulla scorta della lettura dell’ottimo testo di Marchesini. Spesso si obietta alle filosofie post-umaniste di ignorare il dato ingenuo che per lʼuomo è impossibile abbandonare una posizione antropocentrata, dal momento che ogni dialogo col mondo non può prescindere dalle dotazioni di dialogo, ovvero dal profilo di interfaccia col mondo e, in ultima analisi, dalla posizione assunta dall’uomo. Questo è in un certo senso vero ecco perché lʼautore parla efficacemente di antropodecentrismo: non si tratta, cioè, di superare lʼumano o annichilirlo, ma di ripensarlo attraverso lʼallargamento della soglia di interfaccia (luogo di incontro tra il retaggio e le opportunità declinative) col mondo, introducendo caratteri ibridativi non umani, capaci di fornire altri modelli interpretativi. Se la conoscenza è «in-con qualcosa» (p. 200) essa si appella più a un atto di ospitalità che di razionalità e invocherà una nuova dimensione del sé che sia eteroriferita, eccentrata, simpatetica, contaminata, in una parola sola: post-umana.

Alessandra Scotti

S&F_n. 8_2012

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