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Massimo De Carolis – Il paradosso antropologico. Nicchie, micromondi, e dissociazione psichica [Quodlibet, Macerata 2008, pp. 160, € 16]


Massimo De Carolis prosegue in questo libro la riflessione avviata nel suo precedente lavoro, La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Bollati Boringhieri, Torino 2004), nel quale aveva mostrato come le scienze contemporanee, dalla biologia molecolare, alle neuroscienze, alle scienze cognitive, si siano assunte il compito di manipolare le facoltà specie-specifiche degli uomini, cioè le potenzialità legate al linguaggio, al pensiero e alla creatività. Tale tecnicizzazione della vita è un fenomeno recente, e accompagna una radicale trasformazione della realtà, la quale ha reso le nostre categorie interpretative, retaggio della modernità, improvvisamente obsolete; ma ha anche portato allo scoperto le caratteristiche essenziali della natura umana.

Anche in questo nuovo testo De Carolis assume gli stessi due piani di analisi, le invarianti antropologiche e il loro rapporto con trasformazioni sociali e politiche più recenti.

Il punto di partenza della riflessione è la constatazione che la condizione umana è biologicamente scandita dall’oscillazione tra l’istanza di apertura, che spinge gli uomini a esplorare ogni possibile dimensione mondana, in quanto privi di un ambiente prestabilito e gestibile tramite gli istinti, e l’istanza di protezione, che tenta di far fronte alla complessità e alla contingenza del reale istituendo dei reticoli di simboli, ovvero delle nicchie culturali, veri e propri rassicuranti ambienti artificiali a metà strada tra realtà e rappresentazione, dai quali escludere tutto quanto risulti unheimlich. Se pure tale impostazione è debitrice nei confronti delle riflessioni di Uexküll, Gehlen e Plessner, De Carolis sottolinea però come i nuovi indirizzi di ricerca delle tecnoscienze umane rendano inaccettabile lo statuto di eccezionalità e indipendenza riservato all’uomo rispetto alla natura in generale nelle riflessioni antropologiche classiche.

Tale condizione, costituendo l’essenza stessa della natura umana, è destinata a perpetuarsi a dispetto degli sforzi di scienza e filosofia, che l’autore considera come tentativi di far fronte al paradosso. Il vero problema, e anche il fine cui tende il libro, è difatti tentare di assumerlo come presupposto di ogni discorso comunitario e politico, e di trovare strategie adatte a neutralizzarne il potenziale distruttivo.

De Carolis affianca a questa un’altra linea di ricerca sulla diffusione sempre crescente nelle società odierne dei disturbi dissociativi, ovvero dell’«attitudine a isolare e separare l’uno dall’altro i momenti virtualmente conflittuali dell’esperienza psichica» (p. 13), respingendoli non nell’inconscio, bensì in un comparto della vita cosciente separato dall’esperienza. Per l’autore i disturbi dissociativi sono legati al paradosso antropologico e sono il segnale di una mutazione in corso nelle forme di organizzazione della vita psichica che coinvolge anche istituzioni e vita collettiva, tanto che è possibile constatare come «i reticoli sociali postmoderni si aggancino di preferenza ai meccanismi dissociativi» (p. 87). Esistono esempi di dissociazione felice, cioè creativa, il cui esempio principale è l’interpretazione del gioco infantile proposta da Winnicott, nella quale il perturbante viene incluso nella realtà interna, quindi neutralizzato e, infine, padroneggiato attraverso una serie di ridefinizioni delle regole del gioco stesso. Tuttavia ben più frequente è il caso della dissociazione fallita, della chiusura nei confronti della realtà con gli esiti nefasti ben rappresentati da quelle che Anderson ha definito «comunità immaginate» e «nazionalismi long-distance», i quali animano i nuovi conflitti identitari che attraversano le nostre società. Questa rete di scissioni verticali, nicchie e micromondi, disposti in parallelo e senza gerarchia, ha difatti preso il posto delle scissioni orizzontali che hanno contrassegnato la modernità, caratterizzate dal primato della reductio ad unum – l’Io di contro alle pulsioni parziali, lo Stato di contro alle passioni della moltitudine.

Sebbene il quadro delineato nel libro risulti tutt’altro che ottimistico, le conclusioni, sulla scorta di Dewey e Walser, lasciano trasparire «nuove possibilità di resistenza e di creativa ridefinizione della vita» (p. 179). Esiste difatti la possibilità che le tecnoscienze umane, facendo emergere la dimensione antropologica primaria, cioè quella del paradosso, possano dischiudere una nuova sfera pubblica caratterizzata dal pluralismo e non più dalla ricerca dell’omogeneità che ha caratterizzato lo Stato-nazione moderno. Si tratterebbe di una vera e propria risposta alternativa al paradosso antropologico, in grado cioè di introiettarlo all’interno del piano politico della vita umana in entrambi i suoi due lati, l’istanza di chiusura nella propria identità d’origine e quella di apertura a una comunità nuova, il cui motore siano «l’indistinzione, la contingenza e la generica potenzialità» (p. 171).

Ma il tema sotteso a tutta la riflessione di De Carolis è in realtà una critica filosofica all’eredità della modernità, i cui tratti essenziali vengono individuati nella «repressione delle pulsioni come strumento necessario per il buongoverno» e nel «primato della legge come espressione formale della razionalità» (p. 97). Di fronte a questa constatazione, il lettore accorto vede le «maglie rotte» (p. 8), i vuoti che l’autore stesso ravvisava nella sua rete argomentativa, e che sono per lo più riferibili agli aspetti politici del ragionamento. Si tratta, per fare qualche esempio, della tradizione alternativa della modernità, materialista e non essenzialista, il cui problema è quello della prassi adeguata alla teoria politica di volta in volta proposta. Del marxismo, con il quale l’autore condivide l’analisi di certi aspetti distruttivi del capitalismo, ma che poi abbandona rapidamente assieme ai vecchi codici che a lungo hanno garantito la leggibilità del mondo e che oggi hanno perso efficacia. Delle guerre e dei conflitti che attraversano il nostro tempo, non come uno dei possibili esiti della nostra epoca di cambiamento, al pari della sfera pubblica pluralista richiamata dall’autore, bensì come drammatica emergenza mondiale, già qui e ora avanti ai nostri occhi, e ancora perfettamente leggibile attraverso quelle categorie che l’autore giudica antiquate.

Ma De Carolis convince quando afferma che è stata «la mancata o insufficiente trasposizione del paradosso antropologico sul terreno politico» (p. 167), che resta dominato dalle visioni conservatrici della tarda modernità, ad aver ostacolato un’adeguata penetrazione di queste teorie. E convince tanto più quando, coerentemente, tiene fermo quanto si era imposto fin dall’inizio, cioè di «non abbandonare mai il terreno antropologico primario» (p. 19) per la politica, e quindi di lavorare sulla profondità dell’analisi piuttosto che sulla sua estensione, di lasciare aperto uno spazio di interrogazione sulle possibilità che ci si stanno dischiudendo, e assieme ricordare il paradosso essenziale che sempre l’uomo si trova ad affrontare nei momenti decisivi della sua storia.

Aldo Trucchio

S&F_n. 1_2009

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