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Maryanne Wolf – Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge – tr. it. a cura di S. Galli [Vita e Pensiero, Milano 2009, pp. 293, € 20]


«Non siamo nati per leggere» (p. 9). Quando si pensa al lungo processo di antropomorfizzazione, al faticoso percorso che dall’ominide giunge all’umano con le sue inedite e mirabolanti caratteristiche, la riflessione si posa immediatamente sul passaggio da una dimensione muta all’acquisizione di mondo inteso come parola, come linguaggio. Ci si interroga molto meno sull’altrettanto miracoloso transito dalla dimensione dell’oralità a quella della parola scritta, sull’invenzione di una serie di segni che in modi diversi corrispondono alla parola, la rispecchiano, la rischiarano.

La storia senza fine del processo di antropomorfizzazione prevede anche che l’uomo acquisisca le competenze della lettura. E allora, che cosa succede al cervello che impara a leggere? Quali sono i mutamenti ai quali l’organo plastico per eccellenza viene sottoposto attraverso l’acquisizione di questa inedita capacità? È quello che Maryanne Wolf, neuroscienziata cognitivista, cerca di delucidare all’interno di questo testo, Proust e il calamaro, evocando sia il genio che ha fatto della parola scritta un santuario, sia il calamaro del neuroscienziato, emblema degli esperimenti tesi a chiarire la trasmissione di segnali da parte dei neuroni: «Il santuario di Proust e il calamaro del neuroscienziato sono modi complementari per capire dimensioni diverse del processo di lettura» (p. 12). Se la lettura «non si basa in modo diretto su nessun programma genetico trasmesso da una generazione alla successiva» (p. 17), allora come ha avuto inizio? Sicuramente grazie all’architettura aperta del nostro cervello che ci predispone geneticamente allo sviluppo, al cambiamento, per cui «noi veniamo al mondo programmati per modificare ciò che abbiamo ricevuto dalla natura» (p. 11). La lettura è in effetti possibile grazie a un elaborato processo di riciclaggio neuronale che consente di utilizzare per nuove facoltà – in questo caso per il riconoscimento delle parole durante la lettura – «circuiti nervosi evolutivamente più antichi specializzati nel riconoscimento degli oggetti» (p. 18). Dal punto di vista scientifico risulta perciò di estremo interesse l’osservazione diretta di ciò che accade durante l’età evolutiva «tra la prima esposizione alla lettura e la lettura esperta» (p. 21), poiché si tratta di un’occasione unica per osservare da vicino lo sviluppo ordinato di un processo cognitivo.

Il testo prosegue attraverso una ricognizione dei primi sistemi di scrittura, dalla rappresentazione simbolica in cui una figura stilizzata rinvia a un oggetto, fino ad arrivare alla corrispondenza suono-simbolo, «frutto della geniale intuizione che tutte le parole sono composte da brevi suoni, e che i suoni di ogni parola possono essere rappresentati concretamente per mezzo di simboli» (p. 33). Sono segnalati i passaggi dai primi simboli pittografici a quelli logografici, più astratti dei primi, ma ancora legati in maniera diretta ai concetti della lingua parlata, sino al sistema logosillabico che comincia a rappresentare alcune sillabe del parlato. L’autrice rievoca una storia della parola scritta che va dal cuneiforme sumerico all’accadico, fino all’alfabeto, inteso come «il più efficiente dei sistemi di scrittura» (p. 68), dato il ridotto numero dei caratteri, che consente un minor dispendio di risorse percettive e mnemoniche. Vygotskij fu uno dei primi a comprendere che l’affrancamento dagli oneri mnemonici richiesti dal pensiero orale ha consentito di liberare le idee e trasformarle, aumentando l’attitudine al pensiero astratto e facilitando l’insorgere di idee nuove: la scrittura perciò alimenta la coscienza, «leggere ha cambiato il modo in cui le persone possono pensare sul proprio pensiero» (p. 238). L’autrice cerca di far luce sulla dinamica che consente al bambino l’apprendimento della lettura e sulle difficoltà che spesso incorrono all’interno di questo processo, soffermandosi in maniera particolare sui problemi di dislessia. La relazione affettiva che si instaura attraverso lo stare in grembo ascoltando l’adulto che legge può essere fondamentale per il futuro sviluppo di una corretta lettura, poiché «il bambino comincia ad associare l’atto del leggere alla sensazione di essere amato» (p. 92). Secondo la Wolf «affrontare il problema del perché alcuni cervelli non riescono ad apprendere la lingua scritta ci aiuta a capire come funziona il cervello […] e viceversa: capire lo sviluppo del cervello che legge getta nuova luce sulla dislessia» (p. 183). La dislessia sarebbe la prova che il cervello umano non è predisposto per la lettura e la prova inoltre che siano possibili differenti organizzazioni cerebrali: «alcune organizzazioni possono non funzionare bene per la lettura e, tuttavia, prestarsi alla progettazione di edifici, alla realizzazione di opere d’arte e al riconoscimento delle configurazioni» (p. 233), lo dimostrano geni come Rodin, Leonardo o Einstein.

Il testo solleva infine una perplessità: l’evolversi del digitale, la possibilità sempre più estesa per le nuove generazioni di avere accesso facile e immediato a una mole imponente di informazioni attraverso la rete, sta determinando una nuovo tipo di riorganizzazione cerebrale, nuove funzioni e nuove potenzialità; si tratta di un progresso ulteriore nell’ininterrotto sviluppo dell’umano o rischiamo di perdere qualcosa? Ritornando a Proust e alle sue parole, potremmo dire che il miracolo della lettura sta nel tempo ritrovato, nel «dono del tempo per pensare oltre» (p. 248). Chi legge supera ciò che è dato dal testo e dall’autore, chi legge prosegue l’opera mai compiuta del narratore e costruisce mondi, trascendendo la costitutiva e limitata condizione di singolo, partecipando dell’altrui coscienza e in tal modo ampliando la propria; la lettura crea ponti e relazioni con l’altro da sé. Da qui la domanda pressante dell’autrice: «quando informazioni visive apparentemente complete sono fornite simultaneamente […] chi le ottiene ha tempo e motivazioni sufficienti per elaborarle in modo inferenziale, analitico e critico?» (p. 22). Agli albori della scrittura Socrate espresse il proprio parere sfavorevole: «lo statico mutismo della parola scritta rischiava di estinguere il procedimento dialogico» al cuore della conoscenza, rischiava perciò di ridurre al silenzio il dialogo e la memoria; «una volta scritta, la composizione, si diffonde ovunque finendo in mano non solo a quelli che la capiscono ma anche a quelli che non sono fatti per lei» (p. 85). Potremmo in effetti dire che questo vale per qualsiasi strumento tecnico, grande risorsa, ma incalcolabile pericolo allorquando non si posseggono i mezzi adeguati per gestirlo. In effetti «gli interrogativi sull’accesso al sapere percorrono l’intera storia dell’uomo, dal frutto proibito del giardino dell’Eden a Google» (ibid.). L’azione dinamica della lettura e scrittura on-line richiede nuove e ulteriori abilità cognitive. Il testo non intende affatto mettere in discussioni i vantaggi del digitale, di cui vengono riconosciute le immense potenzialità soprattutto nell’ambito dell’apprendimento di coloro che presentano dei deficit; ci si chiede piuttosto se la rapidità con la quale si ha accesso alle informazioni possa danneggiare quei processi più lenti di approfondimento e indagine critica di un testo, ovvero quell’andare oltre il testo che per l’autrice sta al cuore della lettura. Ecco perché secondo la Wolf «dobbiamo insegnare ai nostri bambini a essere bitestuali o multitestuali», adoperando con flessibilità i nuovi strumenti digitali e continuando a coltivare il miracolo della lettura che da 6000 anni arricchisce il nostro mondo.

Fabiana Gambardella

12_2009

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