Il sessuale politico di Lorenzo Bernini, edito da ETS nel 2019, è uno dei testi degli ultimi anni che meglio concedono al ‘sessuale’ un autonomo spazio di riflessione filosofica che ne illustri le connessioni con la dimensione politica. Bernini sviluppa una narrazione brillante, animata e talvolta ironica che tende a illuminare alcuni momenti del pensiero occidentale che in diversi modi si sono approssimati a quella regione dell’umano – la sessualità – tanto perturbante per l’uomo quanto irriducibile per la conoscenza.
L’autore si muove tra due prospettive che continuamente si intersecano nel volume: da un lato egli allestisce un’accurata cartografia storico-filosofica che dalla freudiana teoria della sessualità giunge all’analisi delle più recenti posizioni della queer theory e dei postcolonial studies; dall’altro tiene fermo uno sguardo vigile sulle dinamiche della contemporaneità, non mancando di insistere «sull’esclusione del sessuale dal politico e sulle implicazioni sessuali del legame politico che si istituisce attraverso tale esclusione» (p. 35).
Dopo aver passato in rassegna, nel Prologo, alcuni recenti fatti di cronaca e aver sviluppato un’analisi pragmatica e psicoanalitica – orlandiana, sarebbe il caso di dire – delle strategie retoriche di esponenti dell’élite politica, Bernini apre la prima sezione del saggio rivolgendo una critica a quella «lunga tradizione filosofica» (p. 36) che per secoli ha mandato in malora «l’appuntamento tra filosofia e sesso» (p. 43).
Fedeli alle geometrie politiche necessarie al patto sociale e alla nascita dell’uomo civilizzato, infatti, i filosofi moderni hanno generalmente preso le distanze da una trattazione filosofica adeguata della sessualità, talvolta riservando ad essa parole di disprezzo o di diniego. È il caso di autori come Hobbes, Bentham o Kant, il quale intravede nel sesso una pericolosa violazione della seconda formulazione del suo imperativo categorico. Nell’unione sessuale, infatti, l’uomo si scopre essere puro mezzo per il piacere dell’altro, conducendo così la sua nobile natura di essere razionale fine in sé stesso ai limiti della bestialità.
Ma quella di Kant è solo un esempio delle tante voci del coro della filosofia che, sino ai più contemporanei Schopenhauer, Nietzsche e Merleau-Ponty, hanno mancato di abbracciare compiutamente una visione dell’umano come soggetto sessuale, riservando ad esso una trattazione perlopiù superficiale e rimuovendo dal proprio campo d’indagine quei fenomeni dell’eros percepiti come potenzialmente eversivi per l’assetto sociale.
A svelare le potenzialità perturbanti del sesso, per Bernini, è indubbiamente Freud, pensatore di punta che non viene mai abbandonato nello sviluppo della trattazione e che, anzi, rappresenta il riferimento costante a partire dal quale interpretare le indagini filosofiche attorno all’eros sino ai giorni nostri.
L’opera di Freud appare meritoria, innanzitutto, per aver aperto le porte della filosofia al sesso e per aver dato un nome a quella ‘pulsione’ (Trieb nei Tre saggi del 1905) che rende l’esperienza erotica umana eccedente e sovrabbondante rispetto alla mera finalità biologico-funzionale della riproduzione. In altre parole, per Freud l’uomo possiede sin dall’infanzia una dynamis erotica che lo rende «originariamente, universalmente perverso» (p. 80).
Tuttavia, l’intuizione del concetto di pulsione, chiave di volta della freudiana e innovativa ontologia del sessuale, resta un punto problematico e oscuro, che lo stesso Freud, attraverso le sue opere, tenta continuamente di razionalizzare e di rendere intelligibile. Alla scoperta disturbante di una forza demoniaca come quella pulsionale, si accompagna, infatti, «la constatazione che la civiltà si edifica a spese della sessualità, e che quindi la vita sociale degli umani è giocoforza una vita inibita, mutilata, disagiata» (p. 81).
Per quanto il sessuale rimanga al fondo delle pagine del teorico della psicoanalisi come un rimosso oscuro e pericoloso, Bernini attribuisce a Freud la prima fondamentale intuizione del nesso tra sessuale e politico: l’edificazione della macchina sociale richiede che la pulsione sia sublimata e che alcune pratiche del piacere siano dunque rimosse.
Sia pure la civiltà in preda al disagio, ma alcuni esercizi erotici, specie quelli che più si allontanano dalla finalità biologica della riproduzione, devono essere censurati per la salute della macchina sociale. Tra quei giochi erotici vi sono senz’altro le pratiche legate all’omoerotismo e, nello specifico, al piacere anale, che lo stesso Freud non si occupa mai di redimere, allineandosi così alla prospettiva civilizzata e civilizzante che inibisce tutto ciò che si situa al di fuori della norma eterosessista.
È questo il limite dell’ontologia dello psicoanalista di Vienna: anziché mettere in discussione le «fondamenta della società eterosessuale» (p. 116) attraverso la scoperta delle potenzialità eversive del fattore erotico, Freud si abbandona all’eterosessismo del suo tempo, normando il sesso e lasciando ai pensatori a venire il compito di riformulare i rapporti tra sessuale e politico nell’ottica di una liberazione.
È proprio a partire da Freud che Bernini, nella seconda sezione del volume, intraprende una vasta e complessa esplorazione che risulta di gran pregio per il modo in cui poggia una lente d’ingrandimento su quei filoni di pensiero la cui morfologia teorica appare complessa e stratificata. In questo modo, l’autore rende omaggio a quell’insieme di saperi, ancora bisognoso di attenzione da parte dei filosofi e ancora poco integrato nei curriculari studi accademici, che è il campo dei gender studies e delle teorie queer.
Tra gli indirizzi posti a confronto, Bernini passa in rassegna le teorie costruttiviste dell’identità di genere e sessuale, riservando particolare attenzione alle figure di Judith Butler e Michel Foucault. Il loro merito, dal canto di Bernini, è quello di aver intuito la natura storica dell’identità soggettiva, calando nel tessuto materiale dei rapporti di potere quella tara ontologica del sessuale che Freud sembra invece aver concepito in maniera astorica. E tuttavia, tanto la “matrice eterosessuale” della Butler, quanto il “dispositivo di sessualità” del Foucault de La volontà di sapere, «tematizzerebbero il soggetto della sessualità in modo tutto sommato non dissimile da come la tradizione filosofica moderna ha pensato il soggetto politico» (p. 160), ovvero forcludendo il sessuale e rimuovendo – freudianamente parlando – l’aspetto pulsionale dell’eros.
È su questo punto che interviene la critica mossa dalle teorie antisociali della sessualità, di cui Bernini fissa in Bersani ed Edelman i rappresentanti di punta. Per i teorici antisociali, infatti, i soggetti minoritari sessuali che oltrepassano la norma imposta dalla civiltà devono persistere «al di fuori di ogni edificazione e intelligibilità» e «continuare a occupare ostinatamente il luogo oscuro della negatività che da sempre hanno occupato» (p. 131).
È in questo senso, allora, che «se la politicizzazione della sessualità operata da Butler sulla scorta di Foucault corre il rischio di desessualizzare la sessualità, le teorie antisociali, almeno nella versione di Edelman, corrono il rischio di depoliticizzare le teorie queer» (p. 132).
Tra i due schieramenti, Bernini cerca allora una terza via, animato dal proposito di tenere insieme la freudiana ontologia sessuale e la possibilità di azione politica che, in virtù della sua storicità, il soggetto di desiderio detiene.
Ora è Marx a parlare con Freud: Bernini insegue un’opzione mediatrice dirigendosi verso quei «luoghi ibridi, molteplici e diffusi della produzione di sapere in cui l’accademia interseca i movimenti sociali, dove gli autori sono intellettuali militanti e la teoria è più vicina alla pratica politica» (p. 161). La tradizione del freudomarxismo si dipana in diverse correnti, ma è soprattutto a Mario Mieli che guarda l’autore, evidenziando il fascino delle sue teorie e presentandone lo sforzo teorico, insieme antisociale e freudomarxista. La forza della sua posizione non passa inosservata, infatti: «Mieli parteggiava per l’estinzione dello statuto stesso di minoranze sessuali, per l’estinzione dell’identità omosessuale, per l’estinzione tanto dell’omosessualità quanto dell’eterosessualità, quanto ancora dell’istituzione borghese della coppia monogamica» (p. 197). La radicalità di Mieli gli impone un rigetto per qualsiasi costrutto soggettivistico e sociale, risolvendo di fatto il suo pensiero nell’auspicio dell’avvento di un “gaio comunismo” capace di riconsiderare, liberandole, le pulsioni forcluse dall’assetto sociale borghese.
Con Mieli, tuttavia, non sarebbe d’accordo Foucault o, almeno, non del tutto. Ed è a Foucault che fa ritorno Bernini, nell’ultima parte del testo, con l’obiettivo di unire lo spirito teorico di Mieli a una maggiore concretezza che tenga conto della realtà politico-sociale.
Se in autori come Mieli e Hocquenghem vi è una forte idiosincrasia per il concetto stesso di soggetti minoritari, giacché implica una costante esposizione alle forze repressive della civiltà che tentano l’integrazione del diverso anche attraverso la sua commercializzazione, in Foucault, al contrario, la compresenza di dispositivi biopolitici della sessualità e di forze di resistenza delle minoranze sembra pienamente possibile.
Bisogna, allora, «essere giusti con Foucault» e, senza smarrire il fil rouge della teoria freudiana, liberarlo dall’accusa mossa dagli antisociali di aver desessualizzato il soggetto politico. Per farlo, Bernini guarda al concetto di “eterotopie” formulato ne Le parole e le cose.
Eterotopici sono quei luoghi dove, pur vigendo una manipolazione biopolitica e, talvolta, commerciale del sessuale, il soggetto di desiderio può abbandonarsi alle pratiche del piacere più differenti (comprese quelle più trasgressive e confinate ai limiti della civiltà) per concedersi l’occasione di un’«eclissi momentanea della soggettività» (p. 210) che lo rende prossimo alla regione negativa e pulsionale del sessuale.
Per quanto esposti al rischio di una manipolazione da parte del potere, i luoghi eterotopici sono spazi di resistenza attiva dove trovano soddisfazione le pulsioni represse, dove i processi di soggettivazione sono nuovamente messi in gioco e in cui si fa spazio un’alternativa assai più concreta dei progetti utopici entro cui rischiano di rimanere ingabbiate le correnti di pensiero freudomarxiste.
Freud con Marx, dunque, ma anche con Foucault, per scoprire, in ultima istanza, che «per quanto antisociale, il sessuale, il sesso in quanto sesso, è profondamente invischiato nel sociale; per quanto impolitico, esso è eminentemente politico (biopolitico e psicopolitico)» (p. 221).
Le cartografie del sessuale certamente non si esauriscono con questo volume. Altre regioni potrebbero essere esplorate, ad esempio, assumendo basi teoriche differenti da quelle freudomarxiste. Basti pensare alla corrente fenomenologico-freudiana che attraversa la produzione di autori come Bataille, Barthes, Nancy, insieme al corredo di fonti letterarie cui essi attingono per le loro filosofie dell’erotismo.
E, tuttavia, il testo di Bernini rappresenta un ottimo strumento di navigazione per chi intenda orientarsi tra le teorie della sessualità, meritorio per lucidità delle analisi e per acume dello sguardo politico, per il rifiuto di soluzioni ideologiche a buon mercato e per la rinuncia a trovare idee antropologiche rigide e assolute attorno all’umano e al sessuale.
È sulla prospettiva intersezionale che si conclude il testo, quando, facendo riferimento alle teorie di Fanon, Bernini rafforza il legame intuito tra sessuale e politico rintracciando le fondamenta psicopolitiche del razzismo nella teoria fanoniana. Ed è questo l’aggancio ultimo verso cui si dirige l’Epilogo del testo che, in una circolare ringkomposition, torna alla cronaca per denunciare la persistenza, nella nostra civiltà, di quei processi di rimozione che ancora celano ostinatamente la verità ontologica e, dunque, politica del sessuale.
L’autore non indugia a interrogare la contemporaneità, ed è alle minoranze (di qualsiasi tipo esse siano) che rivolge il suo appello finale: contro un mondo ancora scandalizzato dalle soggettività eterotopiche, occorre fare tesoro della negatività del sessuale per resistere alle logiche della civilizzazione liberale.
Se è vero che «il sessuale, il sesso-pulsione […] può rappresentare una risorsa radicale di resistenza alle tendenze sovraniste, fasciste» (p. 243), allora al tentativo di conformare il diverso a ciò che la civiltà sancisce come ‘normale’, è preferibile opporre le risorse del soggetto sessuale minoritario capace di mettere in discussione, rimodellandola, la macchina sociale.
L’auspicio, in ultima istanza, è che le lotte delle comunità eterotopiche (si pensi alla comunità LGBTQIA+) non diventino vettore di una ideologica richiesta di riconoscimento sociale che asseconda la normatività sancita dalla cultura liberale rinunciando alla propria portata rivoluzionaria.
Contro la politicizzazione sterilizzante del desiderio, urge appellarsi al suo lato apolide, negativo e pulsionale (quel freudiano al di là del principio di piacere) per riformulare i canoni del soggetto e dell’apparato sociale: in nome di Freud, di Marx, di Fanon e di Foucault.
Andrew Perpetua