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Henri Bergson – L’evoluzione creatrice – tr. it. a cura di F. Polidori [Raffaello Cortina Editore, Milano 2002, pp. 300, € 24]


«Un filosofo degno di questo nome non ha mai detto che una sola cosa: o meglio ha cercato di dirla, più di quanto non l’abbia veramente detta» (Bergson, Pensiero e movimento, 2000, p. 103). Ebbene, ciò che Bergson cerca di dire lungo tutto il percorso teorico de L’evoluzione creatrice è che la filosofia deve imparare a pensare la vita senza fissarla; laddove, come ci ricorda Canguilhem riferendosi al valore simbolico delle operazioni di fissazione delle cellule in vista della loro osservazione al microscopio, «“fissare” è un termine tecnico pieno di senso filosofico. Fissare è uccidere» (Deleuze, Canguilhem, Il significato della vita, 2006, p. 74). Sin da subito la nostra intelligenza mostra la sua inadeguatezza nell’ambito del vitale, trovandosi a proprio agio solo nel discontinuo, nell’immobile, nel morto. Insomma «l’intelligenza è caratterizzata da un’incomprensione naturale della vita» (p. 138). Ma lo spirito eccede l’intelligenza, di cui essa rappresenta solo una sua funzione particolare, ovvero quella di preparare la nostra azione sulle cose, di prevedere sulla base della ripetizione dell’identico. È evidente, a questo punto, che l’intelligenza non è fatta per pensare l’evoluzione, che è cambiamento e mobilità, e che essa si lascia sfuggire proprio ciò che dovrebbe cogliere: il nuovo, l’imprevedibile, la creazione nel suo sorgere. Bisogna pertanto trovare uno strumento dello spirito che non spazializzi, come una sorta di Re Mida della geometria, tutto ciò che tocchi e sia in grado di restituire quel residuo di intraducibilità che il pensiero logico non può rendere. Questo strumento viene individuato da Bergson nell’intuizione, definita come «l’istinto divenuto disinteressato, cosciente di sé, capace di riflettere sul proprio oggetto e di estenderlo all’infinito» (p. 147).

Uno sforzo di questo genere non è impossibile e a legittimare la sua esistenza basta la presenza nell’uomo di una facoltà estetica accanto a quella percettiva, capace di dischiudere un orizzonte assolutamente nuovo: l’intenzione della vita, il movimento unitario che l’attraversa. La vita è creazione, proprio come un’opera d’arte, e così come per un ritratto non siamo in grado di prevedere il risultato finale pur conoscendo gli elementi che lo compongono (la fisionomia del modello, la natura dell’artista, i colori sparsi sulla tavolozza), così ogni atto di vita è unico e irripetibile, si sottrae alle relazioni di causa-effetto e fa saltare la validità di deduzioni e induzioni. È questa la ragione per la quale Bergson rifiuta sia il modello meccanicistico sia quello finalistico, poiché entrambi si basano sul presupposto che tutto è dato. L’essenza delle spiegazioni meccanicistiche consiste infatti nel considerare il futuro e il passato come calcolabili in funzione del presente, e «qui il tempo risulta essere privo di effetti, e poiché non fa niente, non è niente» (p. 37). Invece, per quanto riguarda il finalismo, esso presuppone un programma prestabilito al quale cose ed esseri devono attenersi; ma se nell’universo non c’è imprevisto, ancora una volta il tempo diventa inutile, per dirlo con Bergson «così inteso il finalismo non è altro che un meccanicismo alla rovescia» (p. 38). La vita come incessante creazione, che meccanicismo e finalismo sono incapaci di spiegare, può essere compresa solo a partire da una ricerca orientata nello stesso senso dell’arte, ma che abbia a oggetto la vita in generale. La filosofia di Bergson è, in questo senso, un’estetica della vita pronta a dispensare la gioia della creazione artistica anche a coloro che non sono privilegiati dalla natura o dalla sorte. Tale creazione, infatti, non è un mistero, viceversa «la sperimentiamo all’interno di noi stessi quando agiamo liberamente» (p. 204).

Ne L’evoluzione creatrice Bergson, oltre a proporre una teoria della vita capace di spiegare l’evoluzione nella sua processualità, nel suo farsi e non nella dimensione statica del già fatto, esamina anche il rapporto tra scienza e filosofia, chiedendosi se quest’ultima deve limitarsi a seguire il cammino della scienza, nella speranza di spingersi oltre, o non dovrà compiere forse il percorso inverso, «risalire la china che la fisica discende […], costituire progressivamente una cosmologia che sarebbe, se si può dire così, una psicologia alla rovescia» (pp. 172-173). Una volta asserito questo, «tutto ciò che al fisico e al geometra appare positivo diventerebbe, da questo nuovo punto di vista, interruzione o inversione della positività vera» (ibid.). In Bergson non c’è un mondo e un retro mondo, una realtà sensibile e una realtà intellegibile, separati da una soglia invalicabile, ma un’unica realtà «che si fa attraverso quella che si disfa» (p. 204), un movimento continuo e indivisibile di cui la vita rappresenta un verso e la materialità il verso opposto. L’ipotesi della genesi comune di materia e intelletto gli permette di sottrarsi alle antinomie in cui cade la tradizione filosofica e, in particolare, di prendere le distanze da Kant e dalla sua identificazione tra spazio e materia, ovvero dall’impostazione secondo la quale o lo spirito si regola sulle cose, o le cose si regolano sullo spirito, oppure sussiste una misteriosa concordanza tra cose e spirito. In verità, secondo Bergson, ci sarebbe una quarta possibilità, vale a dire l’ipotesi che vede «intelligenza e materia progressivamente adattate l’una all’altra per fermarsi infine in una forma comune. Questo adattamento si sarebbe del resto effettuato in maniera del tutto naturale, perché la stessa inversione dello stesso movimento crea a un tempo l’intellettualità dello spirito e la materialità delle cose» (p. 171).

Per dimostrare come il reale possa passare dalla spiritualità alla materialità, dalla tensione all’estensione attraverso un’inversione, Bergson effettua una lunga analisi del concetto di disordine, riconoscendo il ruolo decisivo di quest’idea nei problemi relativi alla conoscenza, tanto che «una teoria della conoscenza dovrebbe incominciare proprio dalla critica di quest’idea; se infatti il grande problema è di sapere perché e come la realtà si sottometta a un ordine, ciò è dovuto al fatto che l’assenza di qualsiasi tipo di ordine appare possibile o concepibile» (p. 182). La grande ammirazione che suscita l’ordine matematico nasce proprio dal fatto che il disordine sia concepibile, e l’ordine rappresenti una conquista su di esso. In realtà quello che noi chiamiamo disordine altro non è che la presenza di un ordine diverso, che non ci aspettavamo e non desideravamo, che in ultima analisi ci è poco utile. Vi sono, dunque, due forme opposte di ordine, perché lo spirito può procedere in due sensi opposti: la direzione naturale, cioè la creazione continua, l’attività libera e l’inversione della direzione naturale, la quale conduce all’estensione e infine al meccanicismo geometrico. L’ordine del primo genere è quello del vitale o voluto, in contrapposizione al secondo che è quello dell’inerte e dell’automatico. Ogni ordine è quindi contingente, ma la sua contingenza non va intesa rispetto al disordine bensì in rapporto all’ordine inverso.

La persistenza in noi dell’idea che potrebbe non esserci affatto ordine è l’esito di una delle due grandi illusioni del pensiero di cui parla Bergson nell’ultimo capitolo: 1) pensare il mobile attraverso l’immobile; 2) servirci del vuoto per pensare il pieno. Queste due illusioni vengono ricondotte dal filosofo alla erronea trasposizione di procedimenti fatti per la pratica in ambito speculativo; una tale operazione genera difficoltà inestricabili, oltre che dei veri e propri pseudo-problemi filosofici, come la questione dell’essere e del nulla. La difficoltà viene assai ben illustrata: «non posso liberarmi dell’idea che il pieno sia un ricamo sul canovaccio del vuoto, che l’essere si sovrapponga al nulla e che nella rappresentazione del “nulla” ci sia meno che in quella di “qualcosa”. Da qui tutto il mistero» (p. 226). Su questo mistero si fonda tutto il disprezzo della metafisica occidentale per ogni realtà che dura, una realtà può pervenire all’essere solo “vincendo” sul nulla, e un’esistenza che dura non sembra sufficientemente forte da sopraffare l’inesistenza e porsi di per sé. Per la medesima ragione la metafisica tende ad attribuire all’essere un’esistenza logica, ma questo tipo di esistenza esclude ogni libera scelta, tutto verrebbe dedotto geometricamente come un corollario dal suo assioma. Il procedimento attraverso il quale Bergson mostra l’infondatezza dell’idea di nulla è identico a quello adoperato per mostrare le ambiguità del concetto di disordine. Niente è un termine del linguaggio usuale che può avere senso solo se resta in ambito pratico, niente designa l’assenza di ciò che cerchiamo, ma in realtà non vi è il vuoto. Noi non percepiamo e non concepiamo che il pieno. Una cosa “scompare” solo perché un’altra l’ha sostituita. Dunque l’idea di soppressione altro non è che l’idea di sostituzione, ma allora parlare di una soppressione del tutto, il nulla assoluto, significa porre una sostituzione che non sarebbe tale, cioè contraddirsi. Ecco mostrata la fallacia dell’idea di nulla, il risultato paradossale dell’argomentazione bergsoniana è che la pretesa rappresentazione del vuoto assoluto è in realtà quella del pieno universale, l’idea di niente assoluto implica tanta materia quanto quella del tutto.

Concludiamo questa breve analisi de L’evoluzione creatrice focalizzando l’attenzione su uno dei nuclei teorici più interessanti in Bergson, ossia la percezione del mutamento. «Il meccanismo della nostra conoscenza abituale è di natura cinematografica» (p. 250). Come restituire il movimento della vita reale? La fotografia è un’arte statica, il cinema, invece, attraverso un abile artificio fornisce l’illusione del movimento. La pellicola cinematografica, pur essendo composta di tanti fotogrammi, attraverso l’azionamento della macchina si svolge, così ciascun fotogramma si fonde in quello successivo, di modo che gli attori riacquistano la loro mobilità. Il nostro pensiero conosce il movimento nello stesso modo, lo ricostruisce a posteriori attraverso dei frammenti immobili, dunque ragioniamo sul movimento come se fosse fatto di immobilità. La causa di ciò per Bergson è sempre la stessa, la confusione di spirito e intelligenza e, conseguentemente, la trasposizione di un’abitudine pratica in ambito teorico. La nostra azione ha bisogno di immobilità e così la erigiamo a realtà, ne facciamo un assoluto, addirittura vediamo nel movimento qualcosa che vi si aggiunge, tanto da pensare che il movimento implichi un mobile, un oggetto inerte e invariabile che, accidentalmente, si muove. La verità per Bergson è che non c’è nessun substratum rigido e immutabile, come non ci sono cose ma solo azioni. Vi è semplicemente una melodia che non va scomposta nelle sue note, solo ascoltata, percepita nella sua continuità indivisibile, nella sua durata, che altro non è «ciò che si è sempre chiamato tempo, ma il tempo percepito come indivisibile» (Bergson, Pensiero e movimento, 2000, p. 140).

Alessandra Scotti

10_2009

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