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Henri Bergson – L’energia spirituale – tr. it. a cura di G. Bianco [Raffaello Cortina Editore, Milano 2008, pp. 166, € 18,50]


L’energia spirituale è un’opera preziosa per la comprensione del pensiero di Bergson, perché essa ospita interessanti argomentazioni intorno a temi fondamentali per il dibattito filosofico, come il rapporto tra la coscienza e la vita, l’anima e il corpo, il sogno. Ma il filo conduttore di questo ciclo di conferenze (tenute tra il 1901 e il 1913 e raccolte dallo stesso Bergson) sembra essere il tema dell’attenzione alla vita, cui il filosofo dedica gran parte del suo sforzo.     

La prima conferenza, dal titolo “La coscienza e la vita” si apre con una critica rivolta al metodo astratto della filosofia, la quale, quando si interroga sull’origine della natura e sul destino dell’uomo, decide di procedere oltre, per «occuparsi di questioni che giudica più nobili e dalle quali dipenderebbe la soluzione di quelle» (p. 4). L’autore sostiene che le speculazioni astratte della filosofia (intorno all’esistenza in generale, al rapporto realtà/possibilità, tempo/spazio, ecc.) non riguardano le cose stesse, ma l’idea che ci facciamo di queste senza averle studiate empiricamente. Queste astrazioni costituiscono infatti delle idee vuote che i filosofi riempiono retrospettivamente con tutto ciò che l’esperienza avrà insegnato loro riguardo alle cose stesse. Essi credono di anticipare l’esperienza con la forza del ragionamento e di costruire sistemi coerenti e rigorosi, «ma questo rigore deriva dal fatto che si è operato sulla base di un’idea schematica e rigida, invece di seguire i contorni sinuosi e mobili della realtà» (p. 5). Il filosofo auspica dunque una filosofia più modesta, che vada dritta verso il suo oggetto senza preoccuparsi dei principi da cui dipendere. Una filosofia che non aspiri a una certezza immediata, ma a una «graduale ascesa verso la luce» (p. 5).

Ecco così dichiarato il metodo intrapreso da Bergson: all’opera sistematica di un unico pensatore egli preferisce «un comune sforzo di buone volontà associate» (p. 5), alle costruzioni astratte della filosofia predilige una collaborazione fra le diverse regioni dell’esperienza che non danno immediatamente la conoscenza desiderata ma indicano la direzione in cui trovarla. Perciò l’autore paragona la filosofia alla scienza positiva: entrambe si fondano su un graduale progresso dei mezzi e delle tecniche, sul lavoro sinergico delle menti ma soprattutto sulla convinzione che i risultati della ricerca sono sempre perfettibili e che la verità – in quanto meta verso cui tendere all’infinito – non si raggiunge mai definitivamente ma sempre un po’ alla volta.

Ebbene, qual è la prima domanda che l’autore si pone in questa argomentazione? È importante sottolineare che il suo interesse si muove innanzitutto verso ciò che è costantemente presente nell’esperienza di ciascuno di noi, ossia la nostra coscienza. Quando però il filosofo si interroga sul tema della coscienza non intende darne una definizione, ma caratterizzarla secondo il suo tratto più evidente, ossia la memoria. Memoria intesa sia come accumulazione e conservazione del passato, sia come anticipazione del futuro, di un futuro che è già qui, che ci chiama e ci attira verso di lui. La coscienza si presenta perciò come la nostra attenzione alla vita nella misura in cui trattiene ciò che non è più e anticipa ciò che non è ancora. Possiamo dire quindi che «la coscienza è l’intermediario di ciò che è stato e ciò che sarà, un ponte gettato tra il passato e il futuro» (p. 6), ma dobbiamo allora chiederci a cosa serva questo ponte, ossia qual è la funzione della coscienza. Per rispondere a questa domanda occorre individuare in primo luogo fin dove la coscienza si estende in natura. Si può affermare che la coscienza è coestensiva alla vita? Se infatti colleghiamo la coscienza alla capacità di scelta, essa risulterebbe nulla negli esseri viventi che sono incapaci di movimento spontaneo. Ma nemmeno ai vegetali è negata la facoltà di movimento, essa non è assente ma addormentata, si risveglia solo quando può essere utile. All’autore sembra pertanto verosimile la tesi per cui la coscienza si addormenti quando la vita rinuncia al movimento spontaneo e si esalti quando invece essa si fonda sull’attività libera. La vita infatti porta con sé, al momento del suo ingresso nel mondo, una forza che sfugge alla materia bruta: «la materia è inerzia, geometria e necessità. Ma con la vita appare il movimento, imprevedibile e libero. L’essere vivente sceglie o tende a scegliere. Il suo ruolo è quello di creare» (p. 11). La materia e la coscienza sono quindi antagoniste ma la vita trova il modo di conciliarle, adattandole l’una all’altra. Se la coscienza ha il ruolo di decidere, essa dovrà conservare il passato e anticipare il futuro: per scegliere bisogna prevedere e ricordarsi, ossia bisogna pensare a quello che si potrà fare e ricordarsi delle conseguenze, vantaggiose o sfavorevoli; perciò la vita si serve della coscienza, poiché questa, grazie alla sua funzione di mediazione tra il passato e il futuro, ne garantisce lo sviluppo e l’evoluzione. L’organismo naturale allora si distingue dalla semplice materia perché è dotato di capacità di scelta, perché è provvisto di volontà.

Nella seconda conferenza del saggio, dal titolo “L’anima e il corpo”, Bergson distingue infatti i movimenti meccanici, provocati da cause esterne, dai movimenti volontari, che sembrano avere origina interna ed essere completamente imprevedibili. Quale il rapporto, allora, tra la coscienza e la volontà? Abbiamo detto che la coscienza trattiene il passato per preparare un futuro che contribuirà a creare. L’insieme dei movimenti appresi grazie alle nostre precedenti esperienze, si concentra in ciò che chiamiamo “atto volontario”; esso infatti viene diretto dalla forza cosciente che ha il compito di portare qualcosa di inedito nel mondo, ossia di lasciare una zona di indeterminatezza e di libertà in un cosmo governato dalla necessità delle leggi fisiche. Gli esseri viventi infatti sono capaci di spezzare la catena causalistica del cosmo perché possono introdurre qualcosa di nuovo, come un movimento libero e imprevedibile, in un mondo necessariamente determinato; l’atto volontario «disegna nello spazio movimenti imprevisti, imprevedibili» (p. 24). Ma cos’è che impone al corpo non più movimenti automatici e prevedibili, ma liberi e imprevedibili? Secondo Bergson è l’anima. L’anima, intesa come l’essenza della vita, provvede alla conversione del determinismo fisico secondo i fini che le sono propri, essa è capace di «volgere a proprio vantaggio la legge di conservazione dell’energia» (p. 28). Alla tesi del parallelismo fra l’anima e il corpo, fra mente e cervello, per cui l’una sarebbe il riflesso dell’altro e viceversa, l’autore preferisce trattare il rapporto tra attività mentale e attività cerebrale senza ricorrere ad alcuna idea preconcetta ma fondandosi unicamente sui fatti conosciuti. Il filosofo infatti sostiene che la teoria della corrispondenza fra l’anima e il corpo nacque nel XVII secolo allo scopo di realizzare la speranza della nascente fisica moderna in un mondo che fosse «come un’immensa macchina, regolata da leggi matematiche» (p. 30). Perciò, il corpo umano, come tutti gli altri corpi, era considerato uno degli ingranaggi utili per il funzionamento della macchina e anche il pensiero doveva essere calcolabile e determinabile in anticipo. L’anima, secondo questa teoria, non poteva né creare, né scegliere, né portare qualcosa di inedito nel mondo, ma solo esprimere con il pensiero e il sentimento le stesse cose che il corpo esprimeva con il movimento e l’estensione. Bergson invece formula la relazione anima/corpo esaminando la struttura del sistema nervoso centrale e la modalità con cui esso risponde agli stimoli provenienti dall’esterno: «l’attività mentale sta a quella cerebrale come i movimenti della bacchetta del direttore d’orchestra stanno alla sinfonia» (p. 36). Così come la sinfonia supera i movimenti del maestro adattandosi all’estensione e la potenza che questi esprimono, allo stesso modo lo spirito si adatta alla materia grazie al cervello, che trae dalla vita dello spirito ciò che è materializzabile e trasformabile in movimento, insomma il cervello assicura il contatto tra lo spirito e la realtà.

Se la coscienza consiste nella nostra attenzione alla vita nella misura in cui trattiene il passato e anticipa il futuro per essere in grado di scegliere e di agire, il cervello è l’organo dell’attenzione alla vita perché fa sì che la coscienza resti tesa sulla vita reale e che sia in grado di compiere azioni efficaci. Il cervello, ricavando dallo spirito ciò che è esteriorizzabile in movimento, lo inserisce in una cornice motoria e rende quindi efficace la sua attività. L’autore in realtà non vuole risolvere definitivamente il problema della relazione anima/corpo, si limita a sostenere che l’attività mentale supera quella cerebrale, perché viene racchiusa all’interno di una cornice (quella del movimento) ma questa cornice consiste nel suo rapporto con il corpo e il resto della realtà fisica. Ciò significa che la vita mentale non può essere un riflesso di quella cerebrale, «al contrario tutto procede come se il corpo fosse semplicemente utilizzato dallo spirito e non abbiamo alcuna ragione di ipotizzare che il corpo e la mente siano inseparabilmente legati l’uno all’altro» (p. 43). L’attività cerebrale non corrisponde se non a una minima parte di quella mentale e precisamente a quella che combacia con i contorni della cornice motoria. Il cervello è dunque organo di scelta e di attenzione alla vita nella misura in cui adatta la vita dello spirito a quella della materia, le concilia e le armonizza per sopravvivere, risolvere problemi e compiere azioni efficaci in questo mondo. La funzione di attenzione alla vita può anche subire dei disturbi, come ad esempio le malattie della memoria delle parole. Nella conferenza “Fantasmi di viventi e ricerca psichica”, il filosofo afferma infatti che questo tipo di patologie, ad esempio l’afasia, non danneggia il ricordo in sé, ma l’evocazione del ricordo, ossia il meccanismo del richiamo. Il ruolo del cervello è di offrire al ricordo la cornice sensibile in cui inserirsi, ma questo in realtà è offerto dalla vita dello spirito. Se la cornice è presente, il ricordo verrà da sé solo a inserirvisi, altrimenti, se la funzione del richiamo viene disturbata, ci troveremo in presenza di una malattia della memoria. Essa colpisce la facoltà del cervello di mimare la vita dello spirito. Questa mimica è di primaria importanza perché permette di relazionarci alla realtà, adattarci alle circostanze e rispondere con azioni appropriate agli stimoli provenienti dall’esterno. La coscienza, dunque, in quanto funzione di attenzione alla vita, si occupa di accomodare i ricordi alle cornici motorie ma per svolgere questo compito deve, appunto, concentrarsi e prestare attenzione all’unità della situazione presente.

Ma cosa succede quando questa tensione si allenta, quando lo sforzo di concentrazione si rilassa? Accade che sogniamo. Siamo così giunti alla quarta conferenza del saggio, dedicata interamente al sogno. Si tratta in realtà della prima conferenza che Bergson tenne nel marzo del 1901 all’Institut général psychologique e che, per più di un verso, segna l’intero tracciato del volume; così come giova segnalare che, all’epoca, Bergson non conosceva ancora Freud, il quale aveva appena pubblicato L’interpretazione dei sogni. Ancora una volta l’autore sottolinea la specificità del metodo usato (in questo caso per spiegare il fenomeno onirico) metodo distante dalla teoria e vicino all’analisi dei fatti. Egli cerca di isolare e di esaminare l’istante preciso in cui passiamo dal sonno alla veglia perché solo in quel momento è possibile dividere l’io della veglia dall’io del sogno, per poterne così stabilire le analogie e le differenze. Ebbene, l’autore afferma che il sogno consiste nella nostra vita mentale meno lo sforzo di attenzione, nel sogno infatti «percepiamo ancora, ricordiamo ancora, ragioniamo ancora» (p. 78). In realtà la funzione di attenzione alla vita non scompare mai, perché noi risultiamo disattenti rispetto a ciò che non ci interessa, attenti verso ciò che ci interessa: «una madre che dorme al fianco del suo bambino potrebbe non sentire gli scoppi di tuono, mentre un sospiro del bambino la sveglierà» (p. 78). Ma durante il sonno l’attenzione alla vita si allenta, applica le sensazioni ai ricordi in modo distratto e disinteressato e così dà vita al sogno. Il sogno infatti consiste nell’unione di ricordo e sensazione, il ricordo è la forma vuota che, per emergere dalle tenebre della coscienza, necessita di un contenuto vivo, caldo e vibrante, offertole dalle sensazioni.

Ma allora che differenza c’è tra la percezione e il sogno visto che in entrambi i ricordi si applicano alle sensazioni? La differenza consiste nella precisione di questo adattamento. Bergson espone un esempio molto chiaro, tratto dalla sua vita personale, grazie al quale possiamo individuare la differenza tra il sogno e la veglia. Racconta che una notte si era svegliato di soprassalto perché turbato dal sogno di un’assemblea che inveiva contro di lui. Al momento del risveglio si accorse che in strada un cane stava abbaiando con forza e questo lascia presumere che la sensazione uditiva si sia associata a un ricordo sepolto nella coscienza. Ecco dunque la differenza tra il sogno e la veglia: se siamo addormentati, lo sforzo di concentrazione (che garantisce la precisione dell’adattamento del ricordo alla sensazione) si rilassa, per cui noi non dobbiamo fare nulla perché l’abbaiare di un cane susciti di passaggio nella memoria il ricordo del boato di un’assemblea. «Ma perché esso vada a raggiungere, preferendolo a tutti gli altri, proprio il ricordo dell’abbaiare di un cane, perché possa … essere percepito come un abbaiare, occorre uno sforzo positivo. Il sognatore non ha più la forza di farlo. In questo e solamente in questo si distingue dall’uomo che veglia» (p. 79).

Esistono forme diverse con cui lo slancio di coscienza, che persegue l’attenzione alla vita, può indebolirsi o fermarsi. Nella conferenza “Il ricordo del presente e il falso riconoscimento”, il filosofo definisce questi due fenomeni come delle forme inoffensive di disattenzione alla vita. Il ricordo del presente consiste in uno sdoppiamento tra la percezione e il ricordo della situazione presente. La totalità di ciò che siamo e di ciò che ci circonda si divide tra percezione e ricordo. Si tratta di una situazione paradossale perché l’oggetto del ricordo è la realtà passata non attuale, eppure talvolta abbiamo la sensazione di vivere due volte lo stesso momento, infatti il fenomeno è noto come dejà-vu (di qui, detto per inciso, si svilupperanno le celebri pagine deleuziane sul tempo e l’immagine cinematografica).

In realtà il ricordo procede di pari passo con la percezione, come se noi vivessimo e, a un tempo, ci guardassimo vivere. È chiaro che questa sensazione, del ricordo, ha solo la forma mentre il suo contenuto è il presente. Perciò il ricordo del presente è una lieve forma di disattenzione alla vita: per la coscienza non c’è ricordo più inutile di quello del presente, dato che disponiamo della sua percezione immediata. Anche il falso riconoscimento si comporta come un’innocua disattenzione alla vita perché esso non è un riconoscimento vero. Quando riconosciamo realmente qualcuno o qualcosa siamo consapevoli di aver già conosciuto quella cosa o quella persona ma in una situazione diversa da quella attuale. Si tratta della stessa immagine avente cornici diverse (una presente e una passata); se il riconoscimento è falso le due immagini invece hanno le cornici uguali, perché la percezione del presente si è duplicata come ricordo del presente. Questo significa che il ricordo ha raggiunto la percezione, la quale normalmente lo precede almeno di un passo: «il ricordo del presente penetrerebbe dunque nella coscienza, se potesse insinuarsi nella percezione del presente. Ma questa è sempre più avanti di lui: grazie allo slancio che l’anima, essa si trova più nel futuro che nel presente» (p. 113). Ora, se lo slancio d’un tratto si ferma, il presente viene conosciuto e allo stesso tempo riconosciuto; si tratta di un disturbo passeggero che copre la coscienza per qualche istante e poi scivola via come un’onda.

Nella penultima conferenza Bergson non affronta più il tema dell’attenzione alla vita, preferisce definire la caratteristica principale dello sforzo intellettuale. Esso viene considerato dall’autore come lo sforzo di richiamo dei ricordi, necessario per ogni attività dell’intelletto che, per agire, si serve sia dell’attenzione sia della memoria. Questo sforzo determina la trasformazione di una rappresentazione schematica in una immaginata. Quando ci impegniamo a ricordare qualcosa, la nostra attività mentale discende nei livelli più profondi della coscienza ma contemporaneamente si muove anche in superficie, non solo in profondità ma anche in estensione. Nel primo caso, definito rappresentazione schematica, le immagini si compenetrano; nel secondo, ossia nella rappresentazione immaginata, le immagini si giustappongono. Ebbene, la caratteristica dello sforzo intellettuale consiste proprio nella conversione dello schema in immagine: i ricordi da confusi e indistinti diventano nitidi e precisi perché la coscienza conserva il rapporto percettivo con il reale, grazie al quale la sensazione copre il ricordo offrendogli contenuto e chiarezza. Se la percezione non corrisponde al ricordo, lo sforzo ricorre ad altri schemi, fino a quando non diventa chiaro e distinto.

La tematica della relazione fra l’attività mentale e quella cerebrale viene ripresa nell’ultima conferenza, ma per uno scopo diverso. Bergson infatti vuole superare l’antitesi tra l’impostazione realistica e quella idealistica della ricerca filosofica e per farlo usa la tecnica del paradosso. Il tema del parallelismo anima/corpo, infatti, non può essere posto né in un sistema di notazione realista né in uno idealista, ma soltanto se, per assurdo, questi due sistemi venissero usati contemporaneamente, perché: «il problema dei rapporti del cervello con il pensiero, ci suggerisce, per i termini stessi in cui è posto, i due punti di vista del realismo e dell’idealismo, dato che il termine cervello ci fa pensare a una cosa e il termine pensiero alla rappresentazione» (p. 147), si tratta perciò di una contraddizione in termini. Questo dimostra la volontà dell’autore di superare il dualismo gnoseologico per assumere il punto di vista della scienza e il suo metodo autoptico-sperimentale. Anche il tema dell’attenzione alla vita e dello sforzo d’intellezione sono affrontati in questo modo: Bergson infatti fonda le argomentazioni su esperienze reali, confronta diverse linee interpretative, sospende l’argomentazione per riprenderla in seguito e ritrovarla arricchita dai risultati dell’analisi condotta, ottenuti sempre attraverso un dialogo tra le varie correnti di pensiero e il rifiuto di un rigido schematismo. L’obiettivo della filosofia è infatti, come espresso sin dall’inizio del saggio, quello di seguire non i contorni statici delle idee, ma quelli mobili della realtà.

 

Maria Teresa Speranza

10_2009

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