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Daniel C. Dennett – Sweet Dreams. Illusioni filosofiche della coscienza – tr. it. a cura di A. Cilluffo [Raffaello Cortina Editore, Milano 2006, pp. 187, € 19,50]


Un colpo ben assestato al nostro secolare bagaglio di credenze su ciò che chiamiamo coscienza. Così Daniel C. Dennett si inserisce nel dibattito contemporaneo delle scienze cognitive.

Nel suo Sweet Dreams, che raccoglie testi di conferenze e lezioni tenute tra il 2001 e il 2003, lo studioso prosegue la critica demolitrice contro i falsi miti e le innumerevoli illusioni che impediscono un approccio adeguato alla coscienza. Ai dolci sogni dei filosofi che la dipingono come ineffabile e misteriosa, Dennett ribatte col punto di vista naturalistico. La tradizione di pensiero che fa capo a Cartesio si scontra con l’eterofenomenologia: è questa la vera sfida cui si assiste nelle pagine del libro. Col suo abituale piglio ironico e sferzante, l’autore prova ad abbattere le barriere del senso comune, quelle che chiamano in causa l’intenzionalità, nozione inadeguata perché conduce al bersaglio centrale della polemica dennettiana, l’homunculus che abiterebbe la parte centrale del cervello umano e che muoverebbe le funi del Teatro cartesiano. Qui, secondo l’impostazione classica, andrebbe in scena il magico spettacolo dell’anima, si celerebbero gli irrisolvibili enigmi dell’entità coscienza. «Una visione teorica obsoleta» che sostiene l’esistenza di una precisa zona cerebrale in cui confluiscono tutti i segnali esterni. Un Quartier Generale attraversato da un unico, ordinato e lineare flusso di processi che l’homunculus ha il compito di elaborare e redistribuire tra le diverse aree del cervello, nessuna delle quali è cosciente, perché cosciente è, invece, solo il Sé, il punto focale in cui converge la sequenza esperienziale. E allora, si chiede Dennett, come liberarsi dal manovratore di carrucole? Come sbarazzarsi dell’ostinato, quanto attraente, pregiudizio di un mondo interiore che richiede una forza extra per esser spiegato?

All’incrocio tra i temi dell’Intelligenza Artificiale e della neurobiologia, la proposta dennettiana taglia fuori la soggettività individuale per imboccare una strada su cui non c’è più spazio per trucchi filosofici e magie religiose. Non che la coscienza non esista: piuttosto essa non è ciò che gli uomini, da sempre, credono. Solo se ci accosteremo a questo fenomeno con gli strumenti messi in campo dalla prospettiva naturalistico-meccanicistica, potremo realmente dare una spiegazione del mistero coscienza. Anzi, a ben guardare, ci accorgeremo che non esistono misteri, poiché spostare l’attenzione sull’effettiva struttura cerebrale renderà chiaro che possiamo parlare di coscienza senza appellarci al vocabolario mistico: sarà sufficiente quello biologico.

Le scienze del funzionalismo, fondate sull’assunto che non conti il sostrato su cui si attua il processo cognitivo, ma solo il modo in cui la materia è organizzata – la materia «fa bene quel che deve fare» – risolvono lo pseudosegreto mentale. Suggeriscono, difatti, che, se «la mente è fondamentalmente un sistema di controllo, implementato, di fatto, dal cervello organico» (p. 16), essa può tuttavia essere rimpiazzata da qualsiasi altro elemento in grado di computare le stesse funzioni di controllo. Il punto è che la coscienza è un software, perché a essere rilevante è solo la computazione. Per quanto provocatorio possa apparire, potremmo fare a meno del lusso dei neuroni e “accontentarci” di un mucchio di chip che svolgono esattamente quel che, abitualmente, è nostro privilegio.

Una coscienza ridisegnata su tale modello muove dal sospetto verso le percezioni soggettive, dal crollo dell’indubitabilità circa l’evidenza e la veridicità di ciò che i filosofi definiscono qualia, le intrinseche qualità delle esperienze individuali. Di qui, per rispondere a quanti ritengono che i sistemi computazionali obliano sentimenti, emozioni, «il cosa si prova a essere», Dennett proclama la necessità di un metodo in terza persona, fulcro di una scienza della coscienza, inaccettabile dalla teoria del senso comune. Eppure, se quest’ultimo ci direbbe che è impossibile una sindrome paradossale, e pur esistente, come la prosopagnosia, perché non potrebbe darsi una teoria scientifica della coscienza? Liberiamoci dalle incrostazioni della tradizione, ci suggerisce Dennett, e apriamo la mente a una predizione incredibile.

Il procedimento in terza persona, allora, si paleserà nella cosiddetta eterofenomenologia, «un sentiero neutrale che ci conduce dalla scienza fisica oggettiva, e dalla sua insistenza sulla prospettiva in terza persona, a un metodo per la descrizione fenomenologica che può (in linea di principio) rendere giustizia delle esperienze soggettive più private e ineffabili, pur senza mai abbandonare gli scrupoli metodologici della scienza» (p. 33). L’eterofenomenologia cattura il “come sembra” degli individui, la massa di «eventi, immagini, suoni, odori, impressioni, presentimenti e sentimenti che il soggetto in modo (apparentemente) sincero crede che esistano nel suo flusso di coscienza» (pp. 35-36). Mettendo fuori gioco l’angolazione in prima persona, l’impostazione eterofenomenologica chiede al soggetto di abdicare al proprio ruolo di osservatore unico. Così, lascia, prima, esprimere i mondi eterofenomenologici degli uomini, per poi confermare o smentire la convinzione individuale. I soggetti possono, infatti, sbagliarsi sui loro qualia, in quanto non hanno via libera a essi, ma esclusivamente alle relazioni tra le qualità che riescono a individuare. Un osservatore esterno si troverà, invece, nella posizione migliore per giudicare i presunti cambiamenti nelle risposte soggettive. Presunti, perché anche i qualia, afferma lo studioso, ci ritrascinano nelle secche del Teatro cartesiano, a ipostatizzare un Ego che pretende il dominio assoluto, mentre, mancando un accesso al fatto intimo di come lavori la mia mente, un controllo oggettivo può procedere nell’indagine senza «residui significativi». Così, effetti mentali quali il déjà-vu o il riempimento, da sempre considerati all’apice della fenomenologia magica della coscienza, recuperano facilmente una soluzione fisiologica nell’analisi in terza persona. Niente più spiriti ingannatori che animano la nostra testa ma, più semplicemente, «illusioni utente», il cui riconoscimento costituisce il primo passo per iniziare ad immaginare il modo in cui il cervello crei la coscienza.

Sweet Dreams incalza, destreggiandosi tra gli zombie filosofici di Mc Ginn e David Chalmers, ed esperimenti mentali, come quello di Jackson sulla scienziata del colore Mary, o la versione dennettiana RoboMary che, ancora una volta, mettono in scacco il binomio senso comune-tradizione. Il libro è costantemente attraversato dalle polemiche contro le problematiche anti-riduzioniste e con quanti non cessano di invocare il Soggetto come deus ex machina.

Aprire gli occhi dinanzi alle illusioni filosofiche in cui, finora, ci siamo cullati e sforzarci di prendere sul serio la teoria materialistica della coscienza, per quanto essa, nella sua controintuitività, ci faccia inizialmente violenza, significa accordare l’assenso al dennettiano «modello delle molteplici versioni». Subentrando al magic show di cartesiana memoria, esso ridisegna la coscienza nei termini di un software multilivello, frutto dell’operare in parallelo di diversi circuiti specializzati. Si tratta di «un’architettura computazionale competitiva, e non gerarchica» (p. 129), che scinde l’ipotetico Potere Esecutivo Centrale nelle sue varie parti, nessuna delle quali va considerata propriamente un Soggetto. Quest’ultimo è solo un’astrazione che misconosce l’Io come fenomeno dinamico e collettivo, non bisognoso di alcun supervisore. In tal senso, dunque, l’interconnesso funzionamento dei diversi moduli cerebrali decreterà l’unità dell’esperienza cosciente, risultato di una macchina virtuale a cui concorrono tutte le molteplici versioni.

Il modello di Dennett, proposto anche nella più aggiornata versione della «fama nel cervello», offre l’immagine di una coscienza somigliante all’influenza politica, vale a dire che tra gli stimoli che penetrano nella nostra mente, solo alcuni raggiungono le luci della ribalta e diventano fenomeni di cui abbiamo coscienza. Una simile concezione scientifica sostituisce al Problema Difficile di Chalmers la Domanda Difficile sulle modalità attraverso cui pochi contenuti raggiungano il potere e riescano, poi, a garantire influenza agli eventi coinvolti.

Per quanto possa apparire, a tratti, inquietante, sembrerebbe che le capacità di rivivere e immaginare vicende, di riflettere su determinati stimoli o di avvertire se stessi, siano, in linea di principio, raggiungibili anche da un robot programmato secondo queste direttive. L’organizzazione funzionale che regge il nostro essere coscienti può, così, congedare il cervello organico ed essere replicata da un calcolatore elettronico.

L’analogia tra coscienza e IA che Dennett ci propone suscita sicuramente più di una resistenza ma, a questo punto, concluderebbe l’autore, che a un robot così inteso manchi ancora qualcosa, è solo l’ultimo, inossidabile sweet dream di cui dobbiamo liberarci.

 

Pamela Mirra

09_2009

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