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Ambiente e salute in aree critiche. prove scientifiche, scelte e questioni etiche

Autore


Fabrizio Bianchi

Istituto di Fisiologia Clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Pisa

Dirigente di Ricerca, Responsabile Unità di Epidemiologia ambientale

Indice


  1. A mo’ di premessa   
  2. Epidemiologia e prevenzione per la sanità pubblica 

  3. Una disciplina osservazionale alla prova dei fatti

  4. Soccombere all'incertezza o gestirla?  

  5. Conflitti scientifici e extrascientifici  
  6. Pubblicare e comunicare

 

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S&F_n. 02_2009

   

  1. A mo’ di premessa

A titolo di premessa è utile partire dalle definizioni di Ambiente, Epidemiologia ambientale e Prevenzione riportate dal Dizionario di Epidemiologia[1].

Ambiente: tutto quanto è esterno all’individuo umano ospite. Può essere diviso in fisico, biologico, sociale, culturale, etc. ciascuno dei quali o tutti possono influenzare lo stato di salute di popolazioni. La definizione di ambiente include i soggetti che stanno alla base dell’epidemiologia ambientale: l’uomo e al contempo la popolazione. Tale sostrato permea la definizione stessa di Epidemiologia ambientale, ed è centrale in quanto la protegge da riduzionismo e individualismo (nell’accezione di «tendenza a sostenere e a far prevalere le esigenze individuali rispetto a quelle collettive»[2]).

Epidemiologia Ambientale: lo studio di popolazione degli effetti sulla salute di esposizioni a agenti fisici, chimici e biologici esterni al corpo umano, e di fattori collegati di tipo sociale, economico e culturale, recenti e remoti (es. urbanizzazione, sviluppo agricolo, produzione/combustione energia). Attraverso lo studio di popolazioni in differenti circostanze di esposizione, l’epidemiologo ambientale punta a chiarire le relazioni tra agenti esogeni e/o fattori socioeconomici correlati e salute. Il riconoscimento di rischi per la salute dovuti a cambiamenti ambientali globali e sconvolgimenti ecologici, spesso attraverso vie indirette, ha aggiunto un’ulteriore dimensione a questo campo di indagine[3]. È peculiare che lo studio di popolazioni in differenti circostanze di esposizione rappresenti al contempo l’obiettivo e il metodo per raggiungere un adeguato riconoscimento del rischio: la capacità di individuare le popolazioni esposte a differenti livelli di agenti ambientali è il fulcro necessario per risolvere il problema ma non è sufficiente, poiché queste popolazioni sono immerse in un ambiente fisico, biologico, sociale e culturale, del quale bisogna tenere conto. L’Epidemiologia ambientale si trova quindi a dover operare in modo contestualizzato su relazioni causali a eziologia multifattoriale, con un approccio limitato dal suo stesso statuto di disciplina osservazionale e dal modello probabilistico, non deterministico, che adotta[4].

Prevenzione: azione mirata a eradicare, eliminare o minimizzare l’impatto di malattia e disabilità o, ove nessuna di queste sia possibile, ritardare la loro progressione. Il concetto di prevenzione è meglio definito nel contesto di livelli, tradizionalmente definiti come prevenzione. primaria, secondaria o terziaria. Un quarto livello aggiunto più di recente, chiamato prevenzione primordiale, in termini epidemiologici aspira a stabilire e mantenere condizioni che minimizzino i pericoli per la salute, mentre l’obiettivo della prevenzione primaria è di ridurre l’incidenza di malattia, della prevenzione secondaria di ridurre la prevalenza di malattia mediante una sua abbreviazione di durata, della prevenzione terziaria di ridurre il numero e/o l’impatto delle complicanze. La prevenzione primordiale consiste di azioni e misure che inibiscono l’emergere e il costituirsi di condizioni ambientali, economiche, sociali, culturali e comportamentali per le quali sia riconosciuto un rischio per la salute. Questo è il compito della Sanità pubblica e della Promozione della salute[5]. Si segnala la centralità della prevenzione primordiale nell’orizzonte dell’Epidemiologia ambientale, come produttrice di risultati utili a stabilire e mantenere condizioni che minimizzino i pericoli per la salute affinché l’Epidemiologia ambientale possa incidere in termini di prevenzione primaria e anche di prevenzione secondaria e terziaria. In questa accezione l’Epidemiologia ambientale si definisce come disciplina che guarda tutto il complesso della sanità pubblica.

Il tema della definizione di ambiente e di agente/causa ambientale e delle implicazioni per la sanità pubblica «non è solo e tanto un problema semantico ma porta implicazioni per la forma delle azioni preventive, se centrate sull’ambiente materiale e sociale o sul singolo individuo»[6]. Da queste definizioni, seppure non ancora in forma di costrutto, emergono già con chiarezza gli elementi principali che ci apprestiamo ad affrontare.

 

  1. Epidemiologia e prevenzione per la sanità pubblica

Nelle decisioni in materia di sanità pubblica più che ai contenuti dell’evidenza scientifica, l’attenzione è rivolta al modo in cui essi vengono rappresentati e di conseguenza al loro possibile impatto. Descrivere i fenomeni e identificare le cause sono condizioni necessarie ma non sufficienti a incidere su quei fenomeni e su quelle cause. Pensare a una prevenzione basata su un trasferimento automatico delle prove non solo è irrealistico ma è anche riduttivo, poiché è innegabile che sulle decisioni agiscono molteplici elementi, peraltro prevalentemente extrascientifici. Anche per questo l’attività scientifica deve essere rigorosa nel produrre prove valide e robuste.

La strada è sicuramente complessa, ma non è semplificabile né abbreviabile e si tratta di identificare metodi, strumenti e tempi per verificare (testare) l’ipotesi di base (ipotesi zero o ipotesi nulla), senza sottovalutare o sfuggire dalla ricerca di altre ipotesi degne di considerazione (ipotesi alternativa/e).

Senza addentrarsi sul tema della formazione delle ipotesi scientifiche, è tuttavia importante condividere la prospettiva dell’attività di ricerca scientifica come esercizio sistematico del dubbio, secondo un percorso accreditato teso a rafforzare le conoscenze proteggendo i risultati da approcci scorretti di falsificazione.

Un esempio tipico, quando si studia l’inquinamento ambientale, è quello dell’uso di ipotesi su fattori di rischio individuali, come fumo, alcol, consumo di grassi, sedentarietà, ciò non tanto per correggere l’azione di questi fattori sull’effetto dell’inquinamento ma piuttosto per attenuarlo o falsificarlo.

Tra i temi chiave sono da annoverare la costruzione, conduzione e interpretazione degli studi sulla salute in circostanze ambientali critiche, con uno sguardo privilegiato su errori e distorsioni che, più o meno inconsapevolmente, vengono commessi: uno sguardo motivato dal duplice interesse dell’epidemiologo verso gli aspetti metodologici della propria disciplina e verso gli effetti e le conseguenze della comunicazione delle decisioni. Questo è un punto di snodo per il ricercatore che intenda immergersi nel contesto sociale e politico e contribuire a “umanizzare” la disciplina scientifica o almeno a non farla relegare in un ambito di pura tecnica. Un percorso costellato da decisioni che aprono inevitabilmente questioni di natura etica.

La relazione tra epidemiologia ed etica e l’interfaccia tra scienze e politiche hanno uno spazio crescente nella riflessione sul rapporto tra ambiente e salute come testimoniato dal fatto che la “International Society for Environmental Epidemiology” ha istituito un Ethics and Philosophy Committee”, che ha prodotto Linee Guida Etiche[7], e dal fatto che la “International Epidemiological Association” si è occupata di Buone Pratiche in Epidemiologia, le quali includono una parte di etica dei comportamenti[8].

 

  1. Una disciplina osservazionale alla prova dei fatti

Tra gli elementi critici della disciplina epidemiologica come delle altre scienze basate su osservazione empirica di fenomeni che attengono alla natura vivente, quattro tipi di errori e distorsioni caratterizzano le fasi prima, durante e dopo l’osservazione: la formulazione degli obiettivi e dell’ipotesi da valutare, il posizionamento dell’osservatore e il metodo di osservazione, la valutazione delle prove e il trasferimento al mondo esterno.

Analizzare i limiti e le potenzialità del metodo scientifico è cruciale per renderlo più adeguato alla comprensione della realtà e per improntarne il cambiamento.

Il patrimonio dell’epidemiologia è costituito dall’osservazione, ciò significa che essa per una parte fondamentale mantiene un saldo ancoraggio empirico. Solo che l’osservazione deve essere “mirata”, deve cioè mettere in luce quelle caratteristiche, quei fenomeni che sono rilevanti e pertinenti per l’indagine che s’intende svolgere. L’osservazione quindi non potrà essere “ingenua” e nemmeno potrà ritenere di trovarsi di fronte un oggetto già ben confezionato[9].

Esperienze recenti riguardanti la regione Campania permettono di valutare “sul campo” il portato dei problemi.

Nel 2004 sale alla ribalta mediatica il “triangolo della morte” legato alla crisi dei rifiuti grazie a un reportage pubblicato sulla rivista The Lancet Oncology[10]. L’intervento identifica un’area, il triangolo Acerra-Marigliano-Nola, in cui viene registrato un elevato tasso di mortalità per cause tumorali ri spetto al resto della regione. Nonostante s’indicasse un problema reale, l’eccessiva semplificazione e la concentrazione su un’area pensata a priori come la peggiore (il tipico errore detto del pistolero texano, che prima spara e poi disegna il bersaglio intorno al foro del proiettile) compromettono una corretta osservazione, poiché impediscono di vedere che tali problemi erano già presenti e in un’area ben più vasta[11].

Tuttavia l’immagine del triangolo fa presa e ritornerà spesso tra le notizie diffuse nel lungo periodo della crisi, in cui il timore per la salute trova terreno fertile per crescere, alimentandosi delle difficoltà a prendere misure incisive e dell’incertezza sul futuro[12].

Seguono alcune indagini sui potenziali effetti del rilascio incontrollato di rifiuti, soprattutto tossici, che identificano situazioni di sofferenza di salute in una vasta area tra le province di Napoli e Caserta, la stessa dove è censito il maggior numero di siti di smaltimento illegale di rifiuti[13]. I risultati preliminari sono presentati agli amministratori della Regione Campania nel gennaio 2005 e resi subito pubblici sul sito web del Dipartimento della Protezione Civile, che aveva commissionato gli studi al Centro Ambiente e Salute della Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), all’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e all’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR (IFC-CNR).

I risultati finali degli studi sono presentati nell’aprile 2007 e confermano andamenti crescenti di mortalità e di alcuni tipi di malformazioni congenite parallelamente all’aumento del livello di compromissione ambientale dovuta a rifiuti pericolosi, la quale assume valore più alto di rischio in aree localizzate tra le province di Napoli e Caserta.

Gli autori dello studio, nel segnalare le criticità osservate, chiamano in causa non solo l’inquinamento da rifiuti e il degrado ambientale, ma anche problemi di deprivazione sociale, che starebbero alla radice di altri determinanti di malattia, individuali e collettivi.

È certo che della ricerca realizzata da OMS, ISS, CNR, ARPA e Osservatorio Epidemiologico della Regione Campania si parla e si discute molto, tra gli esperti e tra i non-esperti, nonostante la difficoltà della materia. I risultati sono ripresi dai media e moltiplicati dai soggetti attivi sul territorio, usati in maniera spesso parziale e strumentale, estrapolando conclusioni e certezze che sono talvolta ben lontane d

alle intenzioni degli autori del lavoro e dalle affermazioni in esso contenute.

Secondo lo schema tipico delle situazioni critiche, la comunicazione ha visto in campo un ampio arco di posizioni:

  1. a) quelle catastrofiste, che si sono concentrate sugli eccessi di rischio e ne hanno dato interpretazioni semplicistiche, fino a considerarli prova del nesso di causalità (quel tumore dovuto al vivere vicino a quella discarica);
  2. b) quelle riduzioniste, che hanno cercato di minimizzare la portata dei risultati, soprattutto perché prodotti da studi giudicati deboli;
  3. c) quelle negazioniste, che hanno usato l’arma dell’assenza di prove sull’esistenza del rapporto causa-effetto, per asserire l’evidenza dell’assenza di rischi associati all’inquinamento da rifiuti.

 

  1. Soccombere all'incertezza o gestirla?

In una situazione di mix tra crisi ambientale, elevata conflittualità sociale e scarsa informazione pubblica, non sorprende che le impostazioni scientifiche più rigorose incontrino difficoltà a farsi strada. Infatti, sia amministratori, sia cittadini si muovono nel mondo delle certezze, consone ai primi per prendere specifiche decisioni, utili ai secondiper pretendere (pre)determinate decisioni. Questo non sorprende, considerato il deficit strutturale, in particolare nel Sud del Paese, di cultura scientifica generale e di conoscenze tecniche specifiche per la gestione dell’incertezza a fini di comunicazione sul rischio e di presa di decisioni.

I risultati delle osservazioni empiriche su gruppi o campioni della popolazione stimano i fenomeni con un certo grado d’incertezza, che porta spesso a un giudizio di insufficienza per decidere azioni. Di contro, l’incertezza presente nei risultati non è considerata, cosicché i risultati divento certi o comunque sufficienti per prendere decisioni. Le posizioni degli epidemiologi rigorosi si collocano nella via di mezzo, aderendo a un ciclo né facile da realizzare né tantomeno da trasferire: formulano ipotesi da accettare o rifiutare, misurano il grado d’incertezza delle stime dei fenomeni e confrontano con dati adeguati di riferimento, considerano altri fattori di pressione, valutano la plausibilità biologica, cercano un’interpretazione basata sulle prove e le connesse raccomandazioni d’intervento.

In caso di prove solide le raccomandazioni si orientano ad azioni di prevenzione primaria (rimozione dei fattori causali), mentre nel caso di prove più incerte sarà possibile fare ricorso al principio di precauzione, inteso nella sua accezione non dogmatica, ovvero di strumento procedurale[14]. Secondo Tomatis, per esempio, adottare il principio di precauzione significa accedere al principio di responsabilità, significa quindi accettare il dovere di informare e di impedire l’occultamento[15]. In accordo con Jonas, se il sapere predittivo resta al di sotto del sapere tecnico, e il riconoscimento dell’ignoranza diventa l’altra faccia del dovere di sapere[16], allora il principio di precauzione può essere considerato come uno strumento per tentare di colmare questo divario[17].

Sul tema dell’incertezza è d’obbligo un richiamo alle strategie per produrre incertezze: le industrie del tabacco, ma non solo, pongono in essere azioni per mettere in dubbio la validità di prove scientifiche di supporto a regolamenti e azioni di protezione della salute pubblica e dell’ambiente. I sostenitori usano la definizione di “scienza spazzatura” per ridicolizzare la ricerca che minaccia gli interessi del potere. Questa strategia di fabbricazione dell’incertezza è antitetica ai principi di salute pubblica fondata sull’uso della migliore prova scientifica disponibile, che deve essere valutata correttamente ed estensivamente per influenzare efficacemente il processo decisionale per la protezione di salute e dell’ambiente[18].

 

  1. Conflitti scientifici ed extrascientifici

Tra le posizioni negazioniste nei confronti dei risultati dello studio dell’OMS si è distinta quella messa in atto da dirigenti e funzionari della struttura commissariale sui rifiuti tra il 2007 e il 2008.Per convincere operatori e popolazione della inesistenza d i rischi per la salute hanno usato una strategia a due vie: la critica al contenuto degli studi e la critica al fatto che i risultati siano stati divulgati prima della loro pubblicazione su rivista scientifica accreditata.

Sulla materia è in corso dagli inizi del 2009 un dibattito acceso sulla rivista degli epidemiologi italiani[19]. Nel maggio del 2009 la pubblicazione su rivista internazionale dei risultati dello studio coordinato dall’OMS[20] ha di fatto chiuso il tema delle critiche sui contenuti, evidentemente inconsistenti, mentre sul secondo punto la discussione è in atto e merita qualche approfondimento, specie sul piano etico.

In circostanze di crisi, in cui l’impatto sociale della componente extrascientifica prevale su quello delle componente scientifica, la pubblicazioni di risultati scientifici su riviste con revisori può certamente essere di aiuto, come sostenuto dal direttore di “Epidemiologia e Prevenzione”[21], tuttavia occorrerebbe anche riempire i tempi in attesa della pubblicazione con azioni mirate basate sulle raccomandazioni deducibili da quanto fino a quel momento prodotto[22].

 

 

  1. Pubblicare e comunicare

L’accaduto è una conferma di quanto critica e sostanziale sia la differenza tra rendere pubblico e comunicare. Rendere pubblico è un fatto dovuto poiché il lavoro è commissionato da un ente pubblico per i cittadini ai quali l’ente pubblico risponde o dovrebbe rispondere, e riguarda la salute pubblica, che include il privato, ma lo estende alla sfera di condivisione di ambiente, risorse e eventuali rischi.

La responsabilità del ricercatore si presenta doppia: è giuridica e di cittadinanza. Nell’aspetto giuridico, per il ricercatore assume rilevanza primaria il fatto di essere investito da un committente (ente pubblico) e quindi di dover svolgere il lavoro per il quale ha ricevuto l’incarico. Al contempo il ricercatore è cittadino, parte di una comunità di cittadini che sono titolari e destinatari dello studio (lo pagano, sia pure attraverso le istituzioni, condividono la situazione, attendono i risultati in vista di una rassicurazione, o, in alternativa, di reazioni funzionali alla salute). A questo proposito non possono essere sottovalutate le conseguenze del fatto che il ricercatore spesso non fa parte geograficamente o sanitariamente della comunità interessata dallo studio, soprattutto per gli aspetti contrapposti che ne derivano: da una parte l’autorevolezza del ricercatore, proprio perché soggetto “non implicato” (sempre che lo sia realmente; su questo punto occorrerebbe aprire una finestra sui conflitti di interesse), dall’altra la sua estraneità o distanza dai problemi veri vissuti dalla comunità, dei quali non condivide l’esperienza quotidiana. Due aspetti che dovrebbero essere di volta in volta indagati nel profondo, soprattutto per le loro implicazioni etiche e per la conseguente informazione-comunicazione.

I rapporti del ricercatore con l’ente pubblico che commissiona e finanzia lo studio, e che è sottoposto alla richiesta dei cittadini, dipendono perciò da molteplici, e spesso non conciliabili, aspetti. In primo luogo dagli accordi sulla titolarità dei risultati, sulle modalità della loro diffusione e sulla esplicitazione dei conflitti d’interesse. Ma non si può trascurare il peso che i risultati devono giocare per la gravità delle loro conseguenze sulla salute pubblica e per il probabile o possibile impatto sulla psicologia dei soggetti esposti al rischio.

La presenza di elementi di conflittualità tra i tre soggetti in campo, committente, ricercatore e cittadino, è rilevante, specie per gli effetti sulla disseminazione e comprensione delle informazioni, anche se tutto sommato risulta essere un epifenomeno rispetto al cuore del problema, che quasi sempre rimane sotto traccia: ogni scelta apre una questione etica nel momento in cui investe i soggetti e i destinatari delle decisioni.

Chi rende pubblici risultati di studi prima della pubblicazione su rivista scientifica, quindi a valle di valutazione da parte di pari indipendenti (peer review), si prende una responsabilità e mette in gioco la propria autorevolezza personale, senza che ne sia investita la struttura di appartenenza, anche se questa conferisce di per sé autorevolezza al soggetto: in questo caso prende una decisione a proprio rischio e pericolo.

Se possono essere prevedibili, a volte legittime, le critiche a chi ha “osato” divulgare prima di una peer review, due questioni etiche restano centrali: se questi risultati entrano sul/nel contenuto essi assumono un connotato positivo, perché comunque mettono in gioco non solo il ricercatore, ma tutta la comunità scientifica e civile. Si ricordi che anche chi critica, a tutto diritto, lo fa spesso senza la legittimazione di un peer-review; va poi considerata la differente provenienza delle critiche. Là dove la critica muove da un soggetto singolo si configura una discussione o scontro tra pari, che di per sé non comporta particolari problemi. Quando sono interessate parti legate alle istituzioni possono invece sussistere elementi di disparità di poteri in gioco, tanto da generare un atteggiamento autoritario che mina l’autonomia del ricercatore e della ricerca. Dall’altra parte, se le critiche intervengono non sul contenuto (su cui tutti hanno diritto di lettura e d’intervento) ma sul metodo della comunicazione, l’avvalersi del termine “pubblico” può configurarsi come elemento di controllo e gestione “autoritaria”, ben diversi dall’idea dell’interesse pubblico, autentica base della democrazia.

In sostanza il rendere pubblico è requisito e fondamento di democrazia proprio in quanto consente a tutti di confrontarsi pariteticamente con ciò che la ricerca scientifica mette a disposizione di tutti al di là del senso comune.

Comunicare, infatti, coinvolge tutti gli interessati e richiede strumenti e tempi adeguati per mettere in circolazione e condividere contenuti di diversa provenienza. Si tratta perciò di un reale confronto pubblico, che prevede accordo e disaccordo senza la contrapposizione tra amici e nemici, nell’unico interesse della comunità civile. In questo quadro è chiaro allo stesso modo che un lavoro scientifico certificato da peer review rappresenta un materiale importante, che tuttavia non potrà ritenersi di per sé pronto al trasferimento pubblico, ma dovrà essere trasformato in informazioni e messaggi che siano comprensibili ai soggetti coinvolti, messi nelle condizioni di muoversi e di valutare ogni decisione diretta o indiretta.

Non si tratta, dunque, di una sequenza di esibizioni di prove che pretendono a diverso livello un carattere assoluto e definitivo, ma di un percorso complesso di confronto, che metta in gioco le responsabilità di tutti i soggetti, committenti, ricercatori, cittadini.

Alla chiarezza del contenuto (validato, certificato, maturato) dovrà seguire la trasparenza della comunicazione e la partecipazione attiva dei portatori d’interesse, come sancito dalle politiche comunitarie in tema di comunicazione in materia ambiente[23]


 

[1] J.M. Last, A Dictionary of Epidemiology, Oxford University Press/International Epidemiological Association, New York 2001.

[2]  T. De Mauro, Il dizionario della lingua italiana, Paravia, Torino 2000.

[3]  J.M. Last, A Dictionary of Epidemiology, cit.

[4] N. Krieger, Theories for social epidemiology in the 21st century: an eco social perspective, in «International Journal of Epidemiology», 30, 4 (2001), pp. 668-677.

[5] J.M. Last, A Dictionary of Epidemiology, cit.

[6] R. Saracci, P. Vineis, Disease proportions attributable to environment, in «Environment Health», 28, 6 (2007), p. 38.

[7] Cfr.  http://www.iseepi.org/about/ethics.html#Ethics_Guidelines

[8] Cfr. http://www.dundee.ac.uk/iea/GEP07.htm

[9] F. Battaglia, F. Bianchi, L. Cori, Ambiente e salute: una relazione a rischio, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2009, p. 179.

[10] K. Senior, A. Mazza, Italian “triangle of death” linked to waste crisis, in «The Lancet Oncololy», 5, 2004, pp. 525-527.

[11] F. Bianchi, P. Comba, M. Martuzzi, R. Palombino, R. Pizzuti, Italian “triangle of death”, in «The Lancet Oncology», 5, 2004, p. 710.

[12]  L. Cori, Finalità e criticità del processo di comunicazione, in «Indagini epidemiologiche nei siti inquinati: basi scientifiche, procedure metodologiche e gestionali, prospettive di equità», A cura di Fabrizio Bianchi e Pietro Comba, Rapporti ISTISAN 06/19, 2006, pp. 85-114.

[13] P.L. Altavista, S. Belli, F. Bianchi et al, Mortalità per causa in un’area della Campania, in «Epidemiologia e Prevenzione», 28(6), 2004, pp. 311-21; P. Comba, F. Bianchi, L. Fazzo et al, Cancer Mortality in an Area of Campania (Italy) Characterized by Multiple Toxic Dumping Sites, in «Annals of New York Academy of Science», 1076, 2006, pp. 449–61.

[14] L. Tomatis, Prevenzione fra precauzione e responsabilità, in «Epidemiologia e Prevenzione», 25, 2001, pp.149-151.

[15] Ibid.

[16] H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, tr. it. Einaudi, Torino 1990.

[17] F. Battaglia, F. Bianchi, L. Cori, Ambiente e salute: una relazione a rischio, cit.

[18] D. Michaels, C. Monforton, Manufacturing Uncertainty: Contested Science and the Protection of the Public’s Health and Environment, in «American Journal of Public Health», Supplement 1, 95, 2005, S1.

[19] P. Comba, La risposta degli autori dello studio, in «Epidemiologia e Prevenzione», 32 (4-5), 2009, pp.192-193; P. D’Argenio, Critiche allo studio “Trattamento dei rifiuti in Campani: impatto sulla salute umana”, in «Epidemiologia e Prevenzione», 32(4-5) 2009, pp.189-192; P. Comba, La risposta degli autori, in «Epidemiologia e Prevenzione», 33(1-2), 2009, pp.3-4; P. D’Argenio, Ulteriori critiche allo studio di Comba et al. su salute e rifiuti in Campania, in «Epidemiologia e Prevenzione», 33(1-2), 2009, p. 3; P. Ricci, Lettera a E&P di un epidemiologo che opera sul territorio, in «Epidemiologia e Prevenzione», 33(1-2), 2009, pp. 4-5.

[20] M. Martuzzi, F. Mitis, F. Bianchi, F. Minichilli, P. Comba, L. Fazzo, Cancer mortality and congenital anomalies in a region of Italy with intense environmental pressure due to waste, in «Occupational and Environmental Medicine», 66, 2009, pp.725-732.

[21]  B. Terracini, Editoriale, in «Epidemiologia e Prevenzione», 33 (1-2), 2009, p.1.

[22] F. Bianchi, Crisi dei rifiuti in Campania: riflessioni su etica ed epidemiologia, in «Epidemiologia e Prevenzione», 2009 (in stampa).

[23] Convenzione sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, Aarhus, 1998: www.unece.org/env/pp/documents/cep43ital.pdf; e Carta delle città europee per uno sviluppo durevole e sostenibile, Aalborg 1994: http://www.ambientediritto.it/Convenzioni/convenzioni/carta_di_aalborg.htm .

n «Journal of Epidemiology Community Health», 2008, 62, pp. 273-278.

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