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Vilayanur S. Ramachandran – Che cosa sappiamo della mente – tr. it. a cura di L. Serra [Mondadori, Milano 2004, pp. 158, € 9]


Di che colore può essere il numero cinque? Che cosa ha in comune una forma dai contorni aguzzi e frastagliati con il termine kiki? E perché un gatto non è in grado di soffocare uno starnuto?

Per quanto possano lasciare perplessi, queste sono solo alcune delle bizzarre domande che trovano spazio in Che cosa sappiamo della mente, frutto di una serie di conferenze tenute alla BBC, nel 2003, dal neuroscienziato indiano Vilayanur S. Ramachandran. Concepite per essere accessibili al grande pubblico, anche nella trascrizione le Lectures confermano il loro alto potenziale divulgativo, tanto da essere corredate da un utile glossario. Grazie al linguaggio semplice e diretto persino i non addetti ai lavori possono prendere parte alla rivoluzione epocale che sta per accadere: la comprensione del cervello umano. Dopo i grandi mutamenti di Copernico, Darwin e Freud, la svolta cui ci apprestiamo riguarderà noi stessi e l’organo che ha reso possibili i progressi passati, concorrendo, inoltre, a colmare il divario tra cultura scientifica e umanistica. È tempo di un «novello Rinascimento», segnato dal connubio tra scienza, filosofia, arte e letteratura.

Ramachandran partecipa all’impresa individuando il proprio punto di partenza nello studio di strani e rari casi singoli, concentrandosi su disfunzioni neurologiche prodotte da lesioni ad aree circoscritte del cervello. Abbandonando l’idea che patologie traumatiche, come l’eminattenzione spaziale, gli arti fantasma o la visione cieca, siano mere anomalie, lo scienziato se ne serve per spiegare il normale funzionamento del cervello, sostenendo che l’analisi di questi disturbi può aiutare a comprendere «in che modo l’attività di cento miliardi di neuroni cerebrali produce l’enorme varietà delle nostre esperienze consce» (p. 4). Tale principio, accompagnato dall’assunto che molte attività cerebrali siano meglio indagate se inquadrate nel «punto di vista panoramico dell’evoluzionismo», ossia in ottica darwiniana, scandisce la variegata gamma di argomenti affrontati nel testo. Così, ad esempio, una sindrome anomala quale l’anosognosia, l’inconsapevolezza della malattia, dovuta alla lesione del lobo parietale destro, suggerirebbe il diverso modo con cui gli emisferi gestiscono le discordanze negli stimoli sensoriali e nelle credenze. Vale a dire che, mentre il sinistro, quando si trova di fronte a una discordanza, tende a sminuirla e a far finta che non esista, il destro, invece, si comporta al contrario, tanto da indurre Ramachandran a battezzarlo «rivelatore di anomalie». Tale disturbo, inoltre, apre l’interessante capitolo dedicato ai neuroni specchio, cioè a quella particolare classe di cellule nervose che, oltre ad esser preposte a specifici comandi motori, si attivano anche qualora un individuo guarda un altro compiere una certa azione. Scoperti dal neuroscienziato italiano Giacomo Rizzolatti attraverso i suoi studi sulle scimmie, Ramachandran ritiene che siano proprio questi neuroni a esser danneggiati laddove, in un’insolita versione dell’anosognosia, i pazienti neghino la malattia di un altro paziente. Nonostante il sistema dei mirror neurons trovi poco spazio nel libro, lo scienziato ha il tempo di ipotizzare che esso abbia svolto un ruolo determinate nell’evoluzione, contribuendo allo sviluppo di una peculiarità tipicamente umana, quale la trasmissione culturale delle informazioni.

La riflessione sui meccanismi del funzionamento mentale diviene il mezzo per riconoscere le basi biologiche della cultura, del linguaggio, del pensiero astratto, dell’intero ambito di competenze che chiamiamo natura umana. È per questa strada che l’indagine cerebrale estende i propri confini a uno dei problemi filosofici più antichi: “Che cos’è l’arte?”. Qui s’incontrano mente e cervello, se ancora non fossimo convinti della loro coincidenza, qui la ricerca neurologica si spinge a sondare il territorio dell’identità umana. Mutuando il neologismo dal collega Semir Zeki, Ramachandran delinea il primordiale profilo della «neuroestetica», la nuova disciplina che si fa carico di mediare tra soggettività e universalità artistica. Nell’intento di sottrarre l’arte all’assoluta arbitrarietà, lo scienziato arriva a formulare le dieci leggi valevoli per qualsiasi civiltà e cultura. Lontane dal voler essere un apporto esaustivo, le norme della neuroestetica costituiscono solo l’inizio di una futura teoria dell’arte, nella convinzione che «risolveremo la questione estetica, quando comprenderemo meglio la connessione fra le trenta aree visive del cervello e il sistema limbico» (p. 61), che presiede alle emozioni, alla memoria e a determinati aspetti del movimento. Pur non attardandosi sull’intera serie di universali, l’autore riserva particolare interesse all’ultima legge, designata come la «più importante», ma anche la «più elusiva»: la metafora. Coerente col proprio metodo, Ramachandran ricerca la base neurale della metafora impegnandosi nella strenua difesa della sinestesia, fenomeno bistrattato dalla scienza ufficiale, ma degno del massimo rispetto per il neuroscienziato indiano. La condizione per cui uno stimolo sensoriale evoca una sensazione di un’altra modalità sensoriale, cosicché, per esempio, un numero può esser visto a colori, viene candidata a criterio esplicativo della creatività artistica. Insomma, per quanto apparentemente azzardato, la genialità di Shakespeare troverebbe spiegazione nel gene dell’«attivazione incrociata» di distinte aree cerebrali, gene che avrebbe permesso al suo cervello un’iperconnettività tale da renderlo più incline a creare metafore e a collegare concetti apparentemente irrelati.

Tra esempi di vita quotidiana e test in cui cimentarsi in prima persona, il lettore è condotto per mano a un’originale proposta: tutti noi siamo, di fatto, sinestetici. Le argomentazioni dell’autore si fanno, pertanto, sempre più incalzanti, fino a presentare la «teoria dell’innesco sinestetico del linguaggio». In base ad essa, lo studioso riscontra la molla dello sviluppo del lessico primitivo in una triplice attivazione incrociata e motiva la struttura gerarchica della sintassi chiamando in causa gli strumenti degli ominidi. Ramachandran, cioè, crede che il linguaggio sia il prodotto della «combinazione fortuita e sinergica di un certo numero di meccanismi che, all’inizio, si evolsero per altri scopi», come il citato uso di utensili, per poi essere «assimilati dal meccanismo linguistico attuale» (p. 81).

In una ricognizione come quella di Che cosa sappiamo della mente, finalizzata a spodestare la filosofia per far posto alla neuroscienza, il culmine del discorso non poteva che essere occupato dal corpo a corpo col grande mistero della coscienza. Lo scienziato affronta la problematica cruciale del libro applicando il proprio, inedito approccio alle malattie mentali. Tenta, quindi, di leggerle mediante le informazioni conosciute sulla funzione, l’anatomia e le strutture neurali del cervello e alla luce dell’evoluzione per selezione naturale. In tal modo, suffragando le tesi esposte con i resoconti di numerosi esperimenti, le patologie mentali vengono ricondotte a un disturbo della coscienza, ossia dei qualia, le sensazioni soggettive, e del Sé. Caratteristiche fondanti di quest’ultimo sono la continuità, l’unità e la coerenza, la corporeità, la consapevolezza di se stesso e il libero arbitrio. Tra tali peculiarità una trattazione a parte spetta all’ultima. Infatti, essendo incapace di causare gli eventi cerebrali che, in virtù dei risultati delle neuroimmagini, si verificherebbero un secondo prima che esso si esprima, il libero arbitrio è bollato come «illusorio». Più che una causa, esso finirebbe per rappresentare «un delirio non diverso da quello del presidente degli Stati Uniti che crede di poter comandare al mondo intero» (p. 88). La riflessione, in ogni caso, si arresta alla rivoluzionaria ipotesi di rivedere il concetto stesso di causazione.

Il Sé illustrato dallo studioso si pone come inscindibile dalle qualità delle esperienze individuali. «Sé e qualia sono due facce della stessa medaglia»: non esistono sensazioni soggettive senza un Sé che le esperisca e, viceversa, non è concepibile un Sé isolato, privo di qualia. Essenziale alla maturazione di entrambi è stato, secondo Ramachandran, la capacità di utilizzare speciali circuiti cerebrali per creare ciò che egli definisce «metarappresentazione» di rappresentazioni sensoriali o motorie. Si tratta quasi di «un secondo cervello», evolutosi nell’essere umano al fine di evidenziare determinati aspetti della rappresentazione, di generare congetture e testare nuove, anche assurde, combinazioni segniche. Così, l’homunculus si identificherebbe con questa struttura cerebrale, specifica dell’uomo, o comunque più sofisticata dello «scimpanzunculus». Dunque, per tornare a uno degli interrogativi iniziali, l’assenza di una metarappresentazione sarebbe, esattamente, ciò che impedisce a un gatto di soffocare uno starnuto.

L’ultima parola del neuroscienziato accentua un filo conduttore del testo, l’interdipendenza tra genetica e civiltà, prospettando l’idea di un cervello inestricabilmente legato all’humus culturale in cui è immerso. Su questa scia si stempera, fino a perdere completamente significato, l’eterna collisione natura-cultura, e si fantastica su prossimi scenari in cui diviene realtà la codificazione della «neurogiurisprudenza» o della «neurocriminologia», innovative branche disciplinari imperniate sulle immagini neurali.

Un libro dai molteplici spunti, quello di Ramachandran, il cui maggior pregio risiede nell’abilità a instillare nel lettore il gene della curiosità.

 

Pamela Mirra

10_2009

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