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Viktor von Weizsäcker – Forma e percezione – a cura di Valeria Costanza DʼAgata e Salvatore Tedesco [Mimesis, Milano 2012, pp. 100, € 10]


Il testo di Weizsäcker Forma e percezione, edito da Mimesis per la collana Filosofia/Scienza, presenta per la prima volta ai lettori italiani due brevi saggi del pensatore tedesco: Forma e Tempo e Verità e Percezione, rispettivamente del 1942 e 1943. Già dalla lettura delle prime righe si realizza di trovarsi di fronte a uno di quei casi in cui la concisione del testo è direttamente proporzionale alla felicità delle intuizioni presenti in esso. Il primo saggio si apre con una citazione goethiana tratta dallʼopera Zur Morphologie che rivela lʼambiguità semantica del termine tedesco ʽformaʼ [Bildung], che traduce sia la forma sia il processo di formazione, ovvero, in altri termini, il naturato e la vis naturante. La forma sarebbe dunque unʼistantanea presa sul movimento, «forma è ciò che è divenuto costante» (p. 25) e tuttavia «è quel che si dimostra di nuovo come ciò che fluisce» (ibid.). Si evince sin da subito quella che, qualche pagina più avanti, Weizsäcker definirà «lʼaporia del razionale di fronte al vitale e viceversa» (p. 46). Interrogarsi sulla forma della percezione necessita di un atto riflessivo e autoriflessivo, dacché «la forma della percezione richiede percezione della forma» (p. 26). In relazione al problema della vita e del vivente, le scienze naturali hanno adottato due visioni differenti, avvertite come antitetiche: quella della determinatezza secondo la legge naturale e quella dello sviluppo. Lʼoriginalità della tesi avanzata dallʼautore è che questi due principi non si escludono aprioristicamente, a patto di radicare il fenomeno vivente in una struttura temporale che non sia né quella storica, né quella fisica, bensì biologica. La struttura del tempo biologico permette di riconoscere che «in determinate leggi trovate in modo esatto può esservi anche sviluppo, e che a determinati sviluppi biologici corrisponda anche una conformità a legge» (p. 28). Lʼesempio convincente portato da Weizsäcker è quello della reazione allo stimolo luminoso: negli esseri viventi uno «stesso stimolo può determinare reazioni assolutamente differenti» (p. 30). Se alla mancanza di luce reagissimo sempre con il sonno dovremmo dedurne che in media dʼestate dormiremmo cinque ore e in inverno quindici; ma ciò non accade proprio perché negli esseri viventi si dà una manifesta variazione di reazione al medesimo stimolo. In Weizsäcker assistiamo dunque al superamento del dualismo psico-fisico tipico della fisiologia ottocentesca, e alla nozione di tempo a esso connessa, in favore di una teoria della percezione radicata nella mutevole esperienza vivente, che possa dar luogo a unʼindeterminata legalità. «La reazione è determinata dallo stimolo e dallo stato nel quale lʼorganismo dà inizio alla reazione stessa. Poiché tale stato può essere assai differente, si può ricavare una misura anzitutto solo a partire da tale stato pregresso» (p. 31). Ecco perché nellʼanalisi della percezione diviene di capitale importanza la riformulazione del concetto di tempo: esso reca le tracce di quello stato pregresso di cui bisogna tener conto nella determinazione essenziale alla reazione. La conclusione dellʼacuto ragionamento di Weizsäcker è che «lʼidea di determinatezza conforme a legge debba essere pensata nel tempo» (p. 32). Dʼaltronde è impossibile pensare la vita senza far riferimento al tempo, lo studio dei fenomeni viventi rende inevitabile il ripensamento di un concetto di tempo alla luce della biologia. E tuttavia «se si parte da autentiche considerazioni sulla vita, ci si trova dinnanzi una difficoltà assolutamente universale a localizzare un evento biologico in generale sullʼasse temporale obiettivo» (p. 33). Questo tempo biologico di cui parla Weizsäcker non è la misura del tempo, nota infatti che dire di un uomo che ha vissuto cinquantʼanni può non voler dire nulla sulla sua vita, né il tempo dello storico, dal momento che «la storia è il resoconto di ciò che è accaduto, mentre la biologia è la dottrina di ciò che vive» (p. 35), ma un tempo che restituisca la motilità dello sguardo di colui che vede: «è la direzione dello sguardo che determina la direzione del tempo – non il contrario» (p. 34). La vita allora «non è nel tempo, ma il tempo è nella vita, o più esattamente diviene attraverso la sua auto posizione» (p. 39). Alcuni obietteranno che questo concetto di tempo non rende conto della fattuale determinabilità di un atto biologico nel tempo obiettivo e che in ragione di ciò sarebbe una «scoperta assai grave e minacciosa» (ibid.). Weizsäcker ribatte che vi sono degli indeterminismi a cui non possiamo sottrarci, come quello dellʼimprevedibilità del tempo futuro rispetto alla determinatezza del tempo passato, o ancora quello che vige in una partita di scacchi, dove «lʼindeterminatezza è la regola del gioco: essa si realizza solo a condizione che non si conosca la prossima mossa dellʼavversario» (p. 40). La nostra esperienza testimonia, dunque, casi in cui si verifica unʼindeterminatezza conforme a legge, per cui «la labilità non è più una deplorevole incompletezza del calcolo, unʼindeterminabilità, ma piuttosto una indeterminatezza necessaria per il prodursi di un avvenimento reale» (p. 41). Come interviene allora il concetto di forma nel quadro teorico delineato da Weizsäcker? Forma e tempo sono in un certo senso la stessa cosa, o meglio lʼuno abbisogna dellʼaltro: «se cʼè una vera forma diventa necessario un concetto di tempo che si allontana da quello obiettivo e perché è proprio il tempo a provocare lʼintima tensione, la problematicità del concetto di forma» (p. 49). Lʼinterrogativo è grossomodo il seguente: il tempo è la forma tramite cui si danno i fenomeni viventi o attraverso i fenomeni viventi siamo in grado di ritrovare le determinazioni temporali? La Bildung goethiana va tradotta con forma o formazione? Secondo Weizsäcker per rispondere a tale questione bisogna far riferimento allʼesperienza concreta della percezione sensibile, perché dallʼascolto della percezione emergerà un nuovo senso dellʼesperienza sensibile, indifferente alle categorie oppositive dellʼanalisi meccanica e della sintesi biologica. La percezione della cosa non si dona mai tutta intera, ma sempre a tratti. Non si verifica il possesso totale. La percezione di un oggetto è e non è un oggetto; ecco perché è possibile comprendere questo mistero della percezione solo dal punto di vista del tempo. Weizsäcker ne parla più diffusamente nella sua opera principale, il Gestaltkreis del ʼ40, basti qui pensare lʼintreccio reciproco, o il chiasma per usare una parola cara a Merleau-Ponty, tra la percezione sensibile e il movimento di un soggetto organico. Insomma per il filosofo tedesco la percezione non è pensabile altrimenti dallʼidea di movimento: «solo in un atto percepiente-movente, come quello della mano che tasta, il condizionamento reciproco non si lascia rappresentare in una catena causale o in una successione storica, si è fatto uso dellʼespressione “circolo” [Kreis] per designare intuitivamente proprio il reciproco incrocio tanto escludente quanto determinante del comportamento motorio-attivo e sensorio-passivo» (p. 72). «La forma – conclude Weizsäcker – è quella modalità fenomenica che, in virtù di questa relazione di fondo del vivente, accetta ciò che appare» (ibid.). In essa si realizza lʼarmonia de «il ritmo di sistole del conoscere e diasistole dellʼagire» (ibid.), secondo lo scorrere del tempo. Questo scambio reciproco tra percezione e movimento, attività senso-motoria e attività conoscitiva emerge con chiarezza ancora maggiore nel secondo saggio di Weizsäcker, Verità e percezione, dove la questione della percezione è affrontata in chiave ontologica, lasciando trapelare gli elementi di una possibile estesiologia weizsäckeriana. La ʽeʼ di congiunzione presente nel titolo muta a ragion veduta in una ʽèʼ esistentiva dal momento che, giocando con lʼetimologia tedesca, «nella parola percezione [Wahrnehmung] è contenuta la parola “vero” [wahr]» (p. 53). E ancora che «il vero [das Wahre] qui non vuole essere posseduto, ma preso [genommen]» (p. 75). Lʼidea di verità che emerge dalle pagine del saggio può essere incontrata solo a patto di una profonda intimità del conoscere e del fare; la percezione si mostra come la via di mezzo della conoscenza tra «lʼinganno dei sensi e lʼinettitudine del mero intelletto» (ibid.). Weizsäcker nota come nelle scienze naturali basate sul criterio della misurazione la percezione svolga lo stesso ruolo inessenziale di un “controllore”, teso a verificare unicamente la validità o meno del biglietto, la corrispondenza o meno con il dato reale. Ma la tensione verso la realtà vera, che i sensi appannano e non rivelano, resta inappagata. Lʼesempio portato dallʼautore è quello celebre della cosiddetta “interpretazione di Kopenhagen” della meccanica quantistica: gli atomi sarebbero troppo piccoli e sfuggirebbero per questo alla nostra percezione, sulla base di ciò verrebbe spiegato lo iato incolmabile tra percezione e realtà. «In seguito si è trovata però anche unʼaltra spiegazione. Chi percepisce la realtà non può essere presente ovunque allo stesso tempo né in ogni tempo. Egli vede inevitabilmente la realtà solo a partire dal suo momentaneo punto di vista» (p. 76). La verità allora si lascia afferrare solo a patto di riconoscere come postulato irrinunciabile della conoscenza il fatto che non è possibile alcuna astrazione dall’ʼio. In questo senso è proprio la bistrattata percezione che occorre riabilitare, poiché essa sola ci garantisce lʼaderenza del pensiero con la realtà. Anche se questo può voler dire ammettere dei criteri epistemologici di primo acchito stravaganti, come quello dellʼantilogica, modulato sulla scorta dei celebri paradossi di Zenone, onde fornirne «unʼinterpretazione ottimistica» (p. 80). «Lʼantilogica della percezione – così come la definisce Weizsäcker – è proprio quel dono della percezione per mezzo del quale essa è in grado di condurre allʼunità dellʼintuizione ciò che è oggettivamente separato» (ibid.). Essa è lo strumento concettuale che ci consente di pensare la vita senza smembrarla, mantenendo a un tempo la sua mutevolezza e la possibilità di dire qualcosa che la riguarda. Nelle pagine conclusive del saggio una tale fenomenologia della percezione, che non si abbia paura a dirlo, conduce a una prospettiva ontologica assai simile a quella che delineata da Merleau-Ponty nellʼultima fase del suo pensiero. Non solo Weizsäcker riconosce che «noi non possiamo né percepire né produrre la cosiddetta oggettività indipendente da noi» (p. 93); ma aggiunge persino che «anche la grande opera della scienza naturale possiamo compierla solo a condizione di realizzare in noi stessi la natura[…]. Noi non pensiamo la natura, ma piuttosto, nel senso più letterale siamo da essa pensati» (ibid.). Leggiamo ne Le visible et lʼinvisible: «ce nʼest pas nous qui percevons, cʼest la chose qui se perçoit là-bas, ce nʼest pas nous qui parlons, cʼest la vérité qui se parle au fond de la parole» (Merleau-Ponty, Le visible et lʼinvisible, 1964, p. 239). Lʼesito è che non cʼè un fondo di verità a cui attingere che sia estraneo a noi stessi, il valore conoscitivo ha da diventare valore ontologico. Ma di questa ontologia noi non possiamo che dire di non, guardare di sbieco, e soprattutto riconoscere che solo il nostro sguardo è capace di interrogarla. Merleau-Ponty amava sempre citare una frase di Cézanne: «la nature est à lʼintérieur» (Merleau-Ponty, L’œil et lʼEsprit, 1964, p. 22), che lo sguardo del pittore arrivi più lontano di quello del filosofo?

Alessandra Scotti

04_2013

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