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Jean Starobinski – Azione e reazione. Vita e avventure di una coppia – tr. it. a cura di C. Colangelo [Einaudi, Torino 2001, pp. 309, € 21,69]


Ognuna delle trecento pagine dedicate da Jean Starobinski alla storia della coppia di termini “azione” e “reazione” apre uno squarcio su di un’epoca, un clima culturale, un autore più o meno noto, riuscendo tuttavia a non proporre mai qualcosa di “già sentito”. Da Aristotele a Newton, da Diderot a Balzac, fino a Constant e Nietzsche, non è pensabile stilare un elenco degli autori trattati, né fare un sunto delle pagine più notevoli: la lettura di questo testo è praticamente interminabile, perché si potrebbe non finire mai – trovandosi nei paraggi di una grande biblioteca – di approfondire i rimandi del critico, e di giocare a crearsi i propri personali percorsi. Per lo stesso motivo non è mai troppo tardi – ma forse, al contrario, sempre troppo presto– provare a parlarne, tentare di trovarne una chiave di lettura complessiva.

Sarebbe difatti superficiale limitarsi a leggere questo testo come un erudito excursus attraverso la scienza, la letteratura e la politica, o come una «concentrata storia della cultura» (cfr. ad esempio C. Segre, Azione e reazione. Il gioco della storia, «Corriere della Sera», 2 gennaio 2002, p. 33). Caratteristicamente i testi starobinskiani – e questo in particolar modo – impongono al lettore una sorta di strabismo: da una parte si è tentati di leggerli (e poi utilizzarli) come fonti di citazioni e suggestioni; dall’altra, attraverso un lavoro interpretativo ben più faticoso, ci si pone la domanda sulla “cosa” in questione.

Il viaggio di Starobinski non è volto alla ricerca del significato originario delle parole; anzi, egli sottolinea spesso come la coppia “azione-reazione” non si carichi mai, in un determinato periodo, e addirittura in uno stesso autore, di un significato univoco. Già Newton, pur aprendo di fatto la strada alla meccanica classica con la terza legge del movimento, riteneva altresì che il bilanciarsi di azione e reazione deve essere dovuto a una Causa superiore, prima fonte di ogni “efficienza”. In seguito, nella Francia del XVIII secolo la coppia “azione-reazione” può «mettersi al servizio sia del materialismo che del deismo» (p. 47), ovvero di Rousseau da una parte, e di Diderot e D’Holbach dall’altra. Ancora, in Freud, il termine “reazione” – assieme a quello da esso derivato “abreazione” –  può designare tanto un meccanismo, cioè «un fenomeno legato all’apparato nervoso e alla quantità di eccitazione che vi scorre», quanto, al contrario, «un atto transitivo, volontario, carico d’intenzione» (p. 140).

Starobinski ha sostenuto altrove che le parole non contengono la verità, e che le lingue più antiche non ci avvicinano in alcun modo a una verità più originaria, in qualche modo rivelata. Piuttosto, egli ha sottolineato di non limitarsi mai a prendere un «paesaggio della cultura» così come si presenta all’osservatore, bensì di conservare sempre la consapevolezza che esso è stato costruito da intere generazioni e che il compito del critico è quello di fare delle scelte, anche arbitrarie, allo scopo di tracciare, all’interno di quel paesaggio, dei sentieri percorribili dai lettori. «È come se io fossi in presenza di un paesaggio naturale, con i suoi naturali corsi d’acqua», ha affermato significativamente Starobinski, «mentre la carta che ho sotto gli occhi è del tutto immaginaria» (J. Starobinski, F. Wandelère, Colloquio sulle fonti, adesso in J. Starobinski, La poesia dell’invito, il melangolo, Genova 2003, pp. 32-33). Le parole non sono altro che strumenti a nostra disposizione nella ricerca della verità.

È attraverso riflessioni di questa portata che la critica starobinskiana tocca indubitabilmente una intensità filosofica, anche se l’autore sceglie di confrontarsi direttamente con la filosofia solo brevemente, alla fine del testo, attraverso una critica del pensiero contemporaneo di stampo fenomenologico, o dell’«analisi esistenziale» (p. 283). Starobinski si chiede difatti, a proposito delle descrizioni di alcuni sentimenti fondamentali, quali l’angoscia in Kierkegaard, la cura in Heidegger, la melanconia in Binswanger, la nausea in Sartre, ecc., se esse sono davvero in grado di cogliere «alla fonte gli affetti in se stessi», in una sorta di immediatezza, o se piuttosto esse non dimenticano di seguire necessariamente dei «rapporti linguistici», di far riferimento a «reti linguistiche preesistenti» (ibid.).

Per Starobinski, se anche le prime emozioni che abbiamo sperimentato come specie e come individui precedono senza dubbio la loro espressione linguistica, molto raramente ci è possibile accedere ancora a quell’esperienza anteriore alle parole, «nel piacere, nel dolore o nella poesia» (p. 284). Esclusi questi rari momenti, le nostre parole appartengono «al pensiero che oggettiva l’emozione, non all’emozione» (ibid.).

Il lavoro di Starobinski, dunque, pur attraversandole, non pertiene né alla fenomenologia, né all’etimologia, né alla filosofia del linguaggio. Egli stesso lo descrive come «una storia semantica ad ampio raggio» il cui principio metodologico fondamentale consiste nel «rivolgere lo sguardo al linguaggio in cui sono stati descritti» i «fenomeni che precedono l’attenzione teorica che li capta» (p. 283). Ma alla fine del percorso proposto dall’autore appare chiaro che il termine “reazione” è il vero protagonista del testo, poiché è una parola «in ritardo» (p. 9), in quanto è possibile risalire al momento esatto della sua “invenzione” come contraltare della ben più antica “azione”. Allora forse è possibile avvicinarsi alla “cosa” in questione nel libro di Starobinski chiedendosi perché fu necessaria l’introduzione di un tale neologismo – o, più precisamente, l’utilizzazione della coppia “actio/reactio” come equivalente dell’aristotelica “kìnein/antikìnein”, e al posto della classica antitesi latina “actio/passio”. E interrogarsi sul suo straordinario successo.

Una reazione implica il fatto che ci si trova intramati in una rete di rapporti: una catena di eventi ci fa reagire, e la nostra reazione causa a sua volta una nuova serie di eventi. In tal senso una reazione è sempre anche una “interazione”. Ancora, una reazione rappresenta un ritorno a un momento precedente: in tal modo ci si può figurare la propria esistenza, un evento, una storia e persino la storia come una “pulsazione” di vita, un’espansione cui segue sempre una contrazione, un alternarsi tra caos innovativo e ritorno a un ordine che, di quel caos, potrà valorizzare gli elementi più utili. Ogni reazione, per quanto deterministicamente e meccanicisticamente la si voglia presentare, rappresenta comunque un momento di “individuazione”, per un oggetto della fisica newtoniana, così come per un essere umano, aprendo in questo secondo caso il problema della “decisione” e della “libertà”. Infine, ogni libro, anche lo stesso libro del quale si sta qui parlando, è la reazione intellettuale dell’autore alle problematiche che la sua stessa esistenza gli offre, alle domande che il suo tempo gli pone.

Evidentemente gli esseri umani hanno scoperto che il considerare la realtà come un reticolo di azioni e reazioni rappresenta una efficace strategia per orientarsi nel mondo. E, per tentare di neutralizzare le loro angosce, hanno voluto guardare a se stessi come esseri reattivi, sempre in grado, cioè, per il solo fatto di essere vivi, di far fronte all’insopportabile peso dei quali li grava l’esistenza.

Aldo Trucchio

08_2009

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