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Jean Piaget – Saggezza e illusioni della filosofia. Carattere e limiti del conoscere filosofico [Einaudi, Torino 1975 pp. 246, € 7]

L’esordio del testo di Piaget ha il sapore di una confessione, quella di un pentito che tenta di fare ammenda attraverso il resoconto dettagliato della nascita e dello sviluppo del suo misfatto: Piaget vuole farsi perdonare un peccato di gioventù, la sua passione inconfessabile per la filosofia, cominciata con un esordio “osceno”, L’évolution créatrice di Bergson.

Se la filosofia presenta da sempre il duplice fine della conoscenza e della coordinazione dei valori, l’adolescente Piaget, come tutti gli adolescenti è spinto a questa “perversione” «prevalentemente dal bisogno della coordinazione dei valori» (p.15), vuole a tutti i costi conciliare la fede con la ragione, il fervore religioso materno con l’agnosticismo paterno e raggiunge la gioia estatica, quando, leggendo Bergson, viene invaso dalla «certezza che Dio era la vita» (p. 17). Da qui i suoi studi e la sua carriera, l’incontro esaltante col primo maestro, Arnold Reymond, un logico, la cui tensione razionale smorzava gli slanci estatici del Piaget bergsoniano, la lettura di Spencer, la spiegazione della vita attraverso le sole dimensioni di materia e movimento, e l’elaborazione delle due idee fondamentali in merito alla vita stessa: gli organismi presentano una struttura permanente che si modifica a contatto con l’ambiente ma che tuttavia permane come struttura globale; conoscendo, dunque l’organismo non fa che assimilare l’ambiente, nella tendenza a mantenere l’equilibrio secondo un principio omeostatico.

L’esito di queste ricerche lo condurrà a definirsi un ancien futur ex-philosophe (p. 41), che ha potuto esaudire il sogno di costruire un’epistemologia scientifica «che delimitasse i problemi della conoscenza accentrandosi sulla questione di sapere “come crescono le conoscenze”» (ibid.). Del resto il titolo del primo capitolo non potrebbe essere più chiaro: si tratta della storia di una “deconversione”; l’ex filosofo è talmente pentito da arrivare a sostenere con una punta di civetteria di essere stato eletto membro dell’Institut International de Philosophie senza essersi mai candidato (p. 9). Insomma l’epistemologo Piaget, lo psicologo Piaget si sta togliendo alcune pietre dalle scarpe e tenta di rimettere in equilibrio posizioni e gerarchie, a favore soprattutto della psicologia sperimentale, che spesso è stata interpretata come sorella povera, ancella della filosofia.

Il rapporto tra scienza e filosofia e il loro confine risulta mobile; se consideriamo la filosofia come «una presa di posizione ragionata sulla totalità del reale» (p. 52), dove per ragionata intendiamo scevra da elementi di tipo affettivo o pratico, è chiaro per Piaget che «i più grandi sistemi della storia della filosofia […] sono tutti nati da una riflessione sulle scoperte scientifiche dei loro stessi autori o su di una rivoluzione scientifica contemporanea o immediatamente anteriore alla loro epoca» (p. 60). Questo vale da Platone per la matematica, ad Aristotele per la logica, a Cartesio per l’algebra e la geometria, fino a Husserl con la logistica di Frege. Fino al XIX secolo, per Piaget la relazione scienza-filosofia si è sviluppata senza conflitti; poi però «alcune filosofie si sono improvvisamente convinte di possedere un modo di conoscenza sui generis superiore a quello della scienza» (p. 91).

L’epistemologo vuole prendere posizione nei riguardi di questa “conoscenza parascientifica”, presentata dai suoi promotori come “sovrascientifica” e dunque più rilevante e più veritiera della conoscenza scientifica stessa. Piaget vuole delimitare i campi, distinguendo ciò che può essere circoscritto e verificato, dall’affascinante mondo della speculazione onnicomprensiva quanto fumosa.

La filosofia è diventata ormai mero esercizio spirituale e coloro che ne criticano prerogative e metodi vengono relegati tutti nell’angusto spazio di un becero positivismo. Piaget ha bisogno del controllo dei dati, della loro verificabilità, sebbene continui a credere che essi vadano inseriti all’interno di una speculazione di ampio respiro: «Da ciò deriva la regola essenziale secondo la quale non si dovrà porre un problema se non in termini tali che rendano possibili la verificazione e l’accordo: una verità infatti non esiste in quanto verità che dal momento in cui è stata controllata» (p. 25).

A ben vedere la polemica dell’epistemologo pare rivolta più contro alcuni filosofi che contro la riflessione filosofica in sé, in particolare contro Sartre e Merleau-Ponty; con quest’ultimo poi l’attrito si fa personale, poiché Piaget gli succede alla Sorbona e non mancherà di notare che gli allievi di Merleau-Ponty, senza neanche riconoscerlo, nelle prove di verifica criticheranno aspramente, come il loro maestro, la visione di Piaget.

Tuttavia questo corpo a corpo contro la filosofia e i suoi esponenti si chiude con una resa a metà: come Jaspers, Piaget pensa che «l’uomo non può fare a meno della filosofia» (p. 224), ma che deve perseguirne la saggezza, intesa come coordinazione ragionata, che consiste, sempre parafrasando Jaspers, in una ricerca della verità senza mai possederla, poiché in filosofia non esiste mai un’unanimità che stabilisca un sapere definitivo (p. 225).

Fabiana Gambardella

S&F_n. 14_2015

 

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