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Günther Anders – L’uomo è antiquato II: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale [Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 348, € 28]

Die Antiquiertheit des Menschen [lett. l’antiquatezza dell’uomo], L’uomo è antiquato, è un’opera in due tempi del filosofo ebreo-tedesco Günther Anders (1902-1992): i due volumi che la compongono, sebbene scritti a distanza di quasi un quarto di secolo l’uno dall’altro (il primo appare nel 1956, la traduzione italiana è del 1963, il secondo nel 1980, la traduzione italiana è del 1992), si presentano sostanzialmente unitari e coerenti nell’impianto strutturale e concettuale. Anzi, dal punto di vista dello stile, la scrittura andersiana fa corpo con processi di erosione del linguaggio filosofico classico quando si sdoppia tra mimesi e saggistica sfaldandosi in un accumulo di note, digressioni, di paragrafi ora lunghi ora brevi sulla tecnica come nuovo motore immobile della storia umana agli albori del XX secolo. Il primo volume comprende quattro parti di notevole ampiezza (1. Della vergogna prometeica, 2. Il mondo come fantasma e come matrice, 3. Essere senza tempo. A proposito di En attendant Godot, 4. Della bomba e delle radici. Della nostra cecità all’Apocalisse) mentre il secondo è strutturato in ventotto saggi di varia lunghezza preceduti da un’impegnativa introduzione dell’Autore intitolata Le tre rivoluzioni. Quest’ultima funge da raccordo tematico e da architrave concettuale: l’idea cioè che la tecnologia abbia compiuto, nel secolo trascorso dalle origini della prima rivoluzione industriale, quella delle macchine, un salto di qualità (con l’automazione dei processi produttivi e lo sfruttamento perverso della natura) da rendere antiquato l’uomo e antiquate le sue facoltà tra immaginare e produrre, tra sentire e agire, tra coscienza e conoscenza. In altri termini, tutto ciò che produciamo non lo capiamo più perché non abbiamo più categorie che ci permettono di affrontare le sconvolgenti trasformazioni della modernità. L’ascesa della tecnica per Günther Anders è un processo di radicale ribaltamento nel rapporto tra bisogni, mezzi e fini, provocando una totale catastrofe della conoscenza umana: «[…]La storia ora si svolge nella condizione del mondo chiamata “tecnica” o megliola tecnica è ormai diventato il soggetto della storia con la quale noi siamo soltanto “costorici”» (AM2, p. 3). Il cippo che segna i confini identificabili della seconda e della terza rivoluzione industriale è la teoria del «dislivello prometeico», l’asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti, (AM1, p. 50) che si traduce nella «rappresentazione esagerante: quella della vergogna prometeica» (AM1, p. 53) che è poi l’oggetto di consistenti paragrafi del primo volume. La vergogna prometeica cioè il segno visibile del dislivello prometeico si caratterizza soprattutto come un turbamento identitario, come una vergogna della propria origine «che si prova di fronte all’umiliante altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi» (AM1, p. 57). L’uomo davanti alla perfezione delle macchine ha vergogna di se stesso, della propria origine contingente e paradossalmente si vergogna di essere ancora troppo uomo in un mondo di macchine e prodotti. Irto di passaggi e di variazioni ripetute intorno al motivo della vergogna, il percorso andersiano scava in maniera meticolosa tutti i profili e gli spigoli inquietanti dell’espansionismo delle macchine «come potenziale territorio di occupazione» nel quale «energie, cose, uomini sono soltanto possibili materiali di requisizione» (AM2, p. 101). Ogni cosa, ogni materia prima, pezzi di macchina o uomini diventano parte integrante del sogno delle macchine. E il mondo come macchina è la condizione verso cui stiamo andando dove è in atto un’inversione della struttura di dominio che dall’uomo è passata alle cose. A questo processo di soggettivazione delle cose che è la cifra dominante della tecnica totalitaria corrisponde appunto la reificazione dell’uomo che perde il suo ruolo centrale di produttore (homo faber) per assumere le vesti di un consumatore indotto privo di autonomia e di capacità di giudizio. In un capitoletto del secondo volume, titolato Il mondo umano, colpisce il proposito dell’Autore di rendere «necessaria una specifica disciplina psicologica, pressappoco corrispondente e di valore pari alla psicologia sociale, il cui compito principale dovrebbe essere quello di indagare sui nostri rapporti con il nostro mondo degli oggetti e più in particolare con l’attuale mondo delle macchine» (AM2, p. 52). In molte analisi Anders focalizza questa dipendenza dell’umano dai prodotti e questo nuovo sistema dei bisogni prodotto dall’accumulazione irreversibile delle merci: il cortocircuito merci-bisogni fa sì che questi ultimi non siano ormai «altro che le impronte e le riproduzioni dei bisogni delle merci stesse» (AM1, p. 195) che l’apparato produce per mantenersi. La creazione e manipolazione dei bisogni è la caratteristica della seconda rivoluzione industriale la cui icona potente e ineffabile è la pubblicità che da un lato conferisce agli oggetti prodotti dalla tecnica lo statuto ontologico dell’essere e dall’altro essa stessa manifesta la propria vocazione alla distruzione perché le vecchie merci possano venire sostituite con le nuove e più moderne. Ogni pubblicità è un appello alla distruzione (AM2, p. 34) cioè alla liquidazione dei suoi prodotti. Fa impressione la potenza di molte intuizioni andersiane che hanno ispirato tanta letteratura sulla modernità liquida o sul mondo che ci viene servito allo stato liquido e che si realizza compiutamente con l’industria della radio e della televisione. A essa Anders dedica una celebre analisi nella seconda parte del primo volume dal titolo, Il mondo come fantasma e come matrice (in analogia con l’opera di Schopenhauer) che procede parallela e autonoma rispetto a quella degli Autori francofortesi che coniano la fortunata espressione di “industria culturale”. A parte le intersecazioni episodiche delle due diagnosi, la peculiarità di quella andersiana è che i nuovi media non sono semplicemente mezzi ma in primo luogo macchine in grado come tali di plasmare e di deformare (AM1, p. 124) con la conseguenza che la nostra esistenza non conosce più la distinzione tra mezzi scopi. La scansione del mondo in due tempi come fantasma e come matrice in parte è anche una sfasatura cronologica tra prima e seconda rivoluzione industriale. Gli apparecchi televisivi «ci privano della nostra facoltà di esprimerci, dell’occasione di parlare, anzi della voglia di parlare» come quando due innamorati che passeggiano sulla riva del Danubio con una radiolina portatile parlante, non discorrono l’uno con l’altro, ma ascoltano una terza persona (AM1, p. 130). E così le trasmissioni televisive reali e apparenti configurano la nuova percezione dell’uomo con il mondo che è una percezione fantasmatica: esse sono fantasmi (AM, p. 152). Spettri e fantasmi si aggirano ovunque come ibride creature del sistema produttivo o del corpo sociale. Il nostro diventare un pubblico televisivo domestico equivale alla scomparsa della vita privata e all’ impossibilità di avere un’esperienza diretta del mondo. Secondo il filosofo tedesco lo sviluppo della radiotelevisione è la piena espressione della società tecnologica, dove i diversi “mezzi” acquistano in effetti la sovranità sulla vita, non solo lavorativa. Vedere senza andare a vedere sul posto, percepire senza esserci veramente: questo è il segnale di una nuova fase, più perfezionata, della cultura di massa, la vera accidia del nostro tempo. Prima il pubblico di massa si trovava almeno unito dal fatto di assistere insieme a uno spettacolo (pensiamo al teatro o al cinema), di condividere le emozioni. Con la televisione questo non avviene più, in quanto si impone una forma di atomizzazione. Il carattere domesticodel mezzo è il maggior responsabile dell’appiattimento emozionale che caratterizza il nostro essere. Guardiamo tutti le stesse cose, compriamo tutti le stesse cose e di conseguenza parliamo delle stesse cose e pensiamo in blocco le stesse cose: non c’è più spazio per l’originalità, ma solamente per l’omologazione intellettuale. L’uomo ha dimenticato il mondo là fuori, ciò che di esso sperimenta, gli arriva nell’antro attraverso gli schermi. Ogni differenza tra essere e apparire, tra apparenza e realtà è superata. Solo le immagini fantomatiche che arrivano da un altrove (che non è visibile) lo raggiungono. Non sa più nulla del mondo, scambia la copia per l’originale, è condannato a essere muto, dunque non libero e la realtà stessa diventa la riproduzione delle proprie immagini, l’originale matrice della sua riproduzione. Al posto del mondo attuale subentra una profluvione di immagini, che non sono immagini nel mondo, ma l’essenza del mondo nell’immagine.L’identità umana si altera, con il suo formarsi a vista, il suo mutarsi, il suo omologarsi; la differenza è invece con la sua vita che si fa corpo separato e si allontana nel tempo «perfino defraudati della libertà di avvertire la perdita della nostra libertà» (AM2, p. 234). L’uomo è ormai troppo antiquato per potere, anche solo potenzialmente e ipoteticamente, condurre un’autentica vita etico-morale, e gli stessi filosofi sono troppo “antiquati” per comprendere appieno quello che ci sta accadendo. Implodono ambiti conoscitivi, tavole valoriali, assetti categoriali che svuotano il campo dell’umano nel suo tessuto di individuo e di persona fino a renderlo superfluo. La diagnosi di Anders è senza appello, impetuosa, estrema che non lascia spazio a rimedi, ad antidoti e forse qui rivela un suo limite ma anche l’estrema soglia del disagio della civiltà. Ma il suo discorso compie una virata assai più vertiginosa quando descrive gli scenari inquietanti della terza rivoluzione industriale che orienta la storia come un eterno presente sterminato e caotico, prossimo all’abisso. Infatti, se il mondo creato dalle prime due rivoluzioni industriali è un mondo artificiale e alienato, quello della terza rivoluzione industriale è segnato da un nuovo mezzo di produzione che è l’ atomica che mette l’umanità in condizione di produrre la propria distruzione (AM2, p. 13). Il lancio della prima bomba sul Giappone il 6 Agosto del 1945 è la vera novità metafisica della nostra epoca, tale da scompaginare tutte le nostre categorie di comprensione e di interpretazione in quanto si tratta di «un oggetto assolutamente abnorme; cioè un oggetto sui generis, cioè: l’unico esemplare della sua specie» (AM1, p. 259). Come è noto, Anders tra il 1959 e il 1961 intrattiene un carteggio con Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima che assurge a figura simbolo dell’anno zero dell’umanità. Che è il tempo della fine nel senso di una post-histoire e la fine dei tempi cioè l’annientamento dell’uomo e del mondo. «L’epoca del mutamento d’epoca è finita dal 1945. Ormai viviamo in un’era che non è più un’epoca che ne precede altre ma una “scadenza”, nel corso della quale il nostro essere non è più altro che un “esserci-ancora- appena”» (AM2, p. 14). L’Apocalisse dinanzi alla quale siamo «ciechi» e «muti» è diagnosticata non tanto come prossima a venire ma in un certo senso come già avvenuta, poiché in luogo dell’attesa esplosione, è avvenuta un’implosione, una deviazione che ha cancellato il futuro dell’uomo sulla terra poiché persino «la carica elementare degli esperimenti, spogliati del loro carattere sperimentale, è tale che, al momento della loro irruzione, il mondo storico, minaccia di andare anch’esso in frantumi» (AM1, pp. 270-271). L’esistenza della bomba ha annichilito la nozione di storia e gli esperimenti nucleari hanno superato la soglia storica trasformandoIl mondo in un gigantesco laboratorio. O piuttosto si presenta per l’umanità una rinnovata storicità di ritorno (AM2, p. 275). L’Atomica ci ha trasformati in Signori dell’Apocalisse, in nuovi Titani conferendo alla nostra condizione uno status metafisico che si rafforza soprattutto dopo l’esperienza dei genocidi novecenteschi (in primis Auschwitz). Infatti, il massacro degli ebrei nei campi e il massacro atomico vengono classificati, con evidenti forzature, da Anders come due “esempi classici” di reificazione della morte, nella forma del lavoro ben fatto, esempi terrificanti che hanno espropriato, nella loro comune matrice, perfino l’odio rendendolo antiquato. Che fare all’interno di questa visione terrificante? Con la bomba il nichilismo è diventato annichilismoIl senso è il titolo di un saggio del secondo volume che ritorna sul tema dell’insensatezza e della mancanza di senso. «Dobbiamo avere il coraggio di ammettere e proclamare, insieme con la morte di Dio, anche la morte del senso, riconoscere che non siamo stati progettati» (AM2, p. 357). Potrebbero bastare esercizi di estensione morale per trascendere la proportio humana apparentemente fissa della sua immaginazione e del suo sentimento, per risvegliare potenzialità inespresse. che dovrebbero restituire la vista ai ciechi e appianare il dislivello prometeico contro gli effetti pietrificanti prodotti dalla tecnica? (AM1, p. 282) Si tratta, forse, di rimedi modesti rispetto alla potenza di un’analisi condotta con esagerazione disperante. Il tono è quello del moralista classico che lancia l’appello per la conservazione del mondo, prolungando il più possibile l’ultima epoca dell’umanità e su questa strada la sua disperazione in quanto etica può essere l’unica forma che assume oggi la responsabilità per combatterel’ingorgo paralizzante della filosofia, della scienza e della politica che impregna il pensiero andersianoMa può bastare quella che nelle ultime pagine del secondo volume l’Autore chiama ermeneutica prognostica come quell’arte rivolta in avanti? «Se io scrivessi qui un testo accademico, introdurrei il termine «comprensione prognostica» e chiamerei la teoria di questa comprensione «ermeneutica prognostica» (AM2, p. 396). Alla domanda che lui stesso pone: come avviene un tale comprendere e interpretare prognostico? Egli non sa rispondere provando però a formulare l’ipotesi che gli interpreti prognostici siano in grado di vedere con l’immaginazione, ciò che non vedrebbero a occhio nudo, insomma gli «storici rivolti in avanti». Ma L’uomo è antiquato è un libro attualmente inattuale perché ha già visto ed esplorato le traiettorie impervie del secolo che si ridisegna tormentato nelle sue pagine, e ne ha diagnosticato le patologie tragiche e l’irreversibile congedo dalle sue magnifiche sorti e progressive. Ciò che importa è saper leggere o ri-leggere Anders, liberandolo dagli asettici e sterili confronti coi suoi maestri, (Husserl, Heidegger, Jaspers, Bloch), dalle richieste pressanti e ripetitive perché egli dia conto dei suoi paradossi e delle sue provocazioni teoriche il cui significato invece resta tutto da cercare dentro o altrove per intravedere la possibile soglia preliminare di una filosofia futura o di un suo inevitabile preludio.
 
Aldo Meccariello
S&F_n. 8_2012
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