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Guido Cusinato – La Totalità Incompiuta. Antropologia filosofica e ontologia della persona [Franco Angeli, Milano 2008, pp. 336, € 25]


Che si aderisca o meno all’ontologia della persona proposta dall’autore, il testo rappresenta un’ampia e stimolante analisi che, partendo dal nucleo centrale dell’antropologia filosofica del Novecento e in maniera particolare da Max Scheler, si dipana attraverso due movimenti inversi e tuttavia convergenti: si volge alla ricerca dei segni che anticipano alcuni concetti chiave dell’antropologia filosofica scoprendo inediti raccordi, e si proietta attraverso lo scandaglio delle più recenti teorie biologiche sui sistemi complessi. Il tutto per tentare di far luce sul mistero “uomo”. Se Nietzsche pone fine alla tracotanza del soggetto cartesiano per proporre una volontà di potenza intesa come eccedenza dionisiaca, trascendimento della mera utilità – poiché la vita si caratterizza per la prevalenza di «forze spontanee e creatrici costantemente orientate a superare gli equilibri già raggiunti» (p. 23), Max Scheler reinterpreta questa eccedenza in termini di agape, opponendo «all’ipotesi aristocratica dello Über-mensch […] quella democratica dell’All-mensch», l’uomo globale – poiché secondo Scheler «l’eccedenza abita già l’uomo, anzi è l’uomo stesso» (p. 51). Il testo procede decifrando l’influsso di Schelling su Scheler, non solo lo Schelling dello scritto sulla libertà, ma anche quello delle tre opere di Berlino. Schelling teorizza una Stufenfolge «dell’autoreferenzialità dei diversi sistemi viventi […]» (p. 68), intesa come «primo passo per il riconoscimento di un carattere ontologico alla natura, alla vita, all’organismo» (p. 69). Cusinato richiama l’attenzione su quelle intuizioni di Schelling che sembrano anticipare le contemporanee teorie dei sistemi complessi: l’organismo è inteso come schema di libertà nella misura in cui il suo procedere non si dipana più «nella forma della mera successione, ma producendo un effetto retroattivo sullo stesso soggetto agente. La libertà, che s’esprime nella causalità organica, è possibile solo spezzando il legame della causa con l’effetto in termini di prima e dopo» (p. 71). Già nel 1798 Schelling intrecciava i concetti di «autoreferenzialità del sistema, retroattività causale e chiusura del sistema» (p. 76), approdando alla convinzione che «l’identità dell’organismo non va più pensata in termini sostanziali, bensì in base alla capacità di edificare e di mantenere la propria Selbständigkeit» (p. 75). Negli anni ’70 Maturana e Varela definiranno l’identità del vivente come organizzazione, e cioè come mantenimento ricorsivo di un sistema di regole da parte dell’organismo. Passato e presente si intrecciano nel testo sorprendendo il lettore che ritrova nei classici intuizioni di sorprendente modernità, che ancora oggi fatichiamo ad assimilare. Schelling intuiva ancora che «l’attività dell’organismo non è diretta immediatamente verso il mondo esterno, ma verso la riproduzione e conservazione di un equilibrio interno, opera cioè neutralizzando le irritazioni indotte nell’equilibrio organico interno dall’influenza dell’ambiente» (p. 77). Dal canto suo Scheler, riprendendo Schelling e von Uexküll, sviluppa a proposito della sensazione il concetto di Rückmeldung, equivalente del feedback: «con la sensazione un organismo dimostra di aver raggiunto un livello di autoreferenzialità tale da poter riferire a un unico centro di rilevanza tutte le proprie attività e, agendo dal punto di vista di questo centro, determinare attivamente le necessarie strategie di risposta con funzione autoregolativa» (p. 87). Si tratta di quel concetto di retroazione che diventerà centrale nelle teorie dei sistemi complessi.In largo anticipo sui tempi Scheler comprenderà che «un principio selettore è tale in quanto esprime un punto di vista» (p. 90).

Cusinato evidenzia le analogie con la biologia contemporanea anche attraverso un più diretto confronto con le tesi di Maturana e Luhmann. Tuttavia nell’ambito di un’ontologia a strati, l’ipotesi sviluppata dall’autore è che la persona violi addirittura «le leggi autopoietiche» , poiché «l’identità personale si costituisce nel processo creativo volto a rovesciare la propria centricità […] grazie al contagio dell’esemplarità altrui» (p. 200). Grazie all’agape, inteso come atto fondamentale della persona, avverrebbe nell’uomo un rovesciamento dal piano meramente psichico a quello spirituale. Se la centricità del vivente si estrinseca nella riduzione del mondo alla propria autoreferenzialità, il rovesciamento rende l’uomo ex-centrico, determinando la sua apertura radicale (altra nota interessante del testo: il termine Excentricität, tradizionalmente attribuito a Plessner, risale già a Schelling, che a sua volta lo mutua da Keplero, declinandolo poi in senso antropologico).

Di grande interesse le pagine dedicate a Paul Alsberg, autore poco scandagliato, al quale Cusinato restituisce il giusto spazio nell’ambito del dibattito sull’antropologia filosofica. Viene evidenziata la declinazione dell’umano di Alsberg, che si oppone alla tradizionale definizione di animale malato, evidenziandone le aporie: in realtà il vivente poco adatto si estinguerebbe prima di sviluppare le note stampelle utili alla sopravvivenza. L’uomo è tale grazie allo sviluppo dell’utensile che, lungi dall’essere «un’appendice del corpo che ne amplia lo schema d’azione», rappresenta al contrario una logica totalmente estranea al corpo. L’evoluzione dell’umano sarebbe dunque extra-organica e produrrebbe un’«involuzione organica» (p. 145), «il disimpegno organico avviene sostituendo ontologicamente la prestazione dell’organo […] l’utensile è l’espressione di una logica alternativa a quella organica». Si profila già in Alsberg quel cyborg che in futuro sostituirà il proprio corpo biologico «trasmigrando su organi completamente artificiali» (p. 146).La seconda parte del testo è tesa a una reinterpretazione della filosofia come terapia dell’ordo amoris – sulla scia di Foucault e degli “esercizi spirituali” di Hadot – che riscopra l’alterità oltre l’egologia caratteristica della nostra tradizione. L’autore evidenzia i limiti insiti nella tradizionale categoria di persona che, da Locke fino a esperti di bioetica come Singer e Engelhardt, viene intesa come io consapevole: inteso in questi termini, il concetto rischia di diventare barriera ostracizzante che discrimina tra persone e non-persone. Cusinato propone perciò una declinazione di persona compartecipativa, intesa come «centro propulsivo di un’esistenza che si singolarizza e accentua le proprie diversità all’interno di una comunità» (p. 259). L’atto agapico che fa capo alla persona non è un atto oggettivante, bensì un’apertura verso ciò che non è ancora, poiché la compartecipatività, a differenza dell’intenzionalità del soggetto, non è uno schema anticipante, «non intenziona ciò che non si è ancora presentato […] ma fa spazio, in un centro reale personale all’emergere di una novità positiva» (p. 206). Nell’esemplarità altrui risiederebbe «la matrice generativa di un’esperienza nuova che posso creativamente fare anche mia» (p. 208). 

Fabiana Gambardella

07_2009

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