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Gianfranco Pellegrino, Marcello di Paola – Etica e politica delle piante [DeriveApprodi, Roma 2019]

Una delle operazioni concettuali che meglio accomuna e avvicina diverse discipline e ambiti di ricerca degli ultimi decenni di critica sociale è senza dubbio la simmetrizzazione. Dalla teoria femminista agli studi post-coloniali fino all’ecologia politica, molti degli sforzi teorici di filosofi e scienziati sociali sono consistiti nel creare simmetria laddove il pensiero moderno aveva concepito la gerarchia: gerarchia tra i sessi, tra le razze, tra gli esseri viventi. La simmetrizzazione smantella i dispositivi concettuali con cui il soggetto dominante legittimava la sua autorità su una serie di oggetti vassalli, inaugurando un nuovo regime intellettuale in cui le relazioni tra gli ex-soggetti e gli ex-oggetti possano assumere una configurazione più equa[1]. Con la vegetal turn[2], di cui il libro di Gianfranco Pellegrino e Marcello di Paola Etica e politica delle piante rappresenta uno dei compendi più efficaci nel panorama italiano, sembra essere arrivata la volta della simmetrizzazione delle piante. Grazie a questa svolta, la filosofia accoglie nei confini del collettivo della speculazione intellettuale il mondo degli organismi fotosintetici che, vale la pena ricordarlo, costituiscono l’80% della biomassa visibile, tenuto conto solo delle piante superiori (cfr. p. 10). Una schiacciante maggioranza che tuttavia non ha impedito alla tradizione intellettuale (almeno) occidentale, di sviluppare una cecità selettiva nei confronti di questo mondo, ripiegandosi nei problemi umani e (al massimo) animali, malgrado l’origine fisica e cosmologica – peri physeos – della filosofia stessa. Non a caso, l’intera storia della filosofia delle piante si può racchiudere nelle pur dense e dettagliate pagine di uno dei capitoli, il secondo, del libro: una storia di oblio, di rimozione, di svalutazione sistematica del vegetale a vantaggio del regno animale e, soprattutto, umano.  Come è noto, da Socrate in poi la filosofia abdica alla sua vocazione naturalistica e si ripiega all’interno delle mura della città, nelle questioni umane e politiche, consegnando la natura al mito, quindi alla religione e infine, millenni dopo, alla scienza. È Aristotele a cementare la svolta socratica che già Platone aveva contribuito ad accentuare, lasciando in eredità alla filosofia dei secoli successivi una rigida gerarchia tra gli esseri viventi e condannando «per secoli le piante al regno delle cose moralmente indifferenti, di cui si può disporre liberamente» (p. 36). Nel sistema aristotelico solo l’anima intellettuale, che è peculiarità degli esseri umani, predispone alla ricerca della virtù e quindi è degna di considerazione morale mentre le piante, mancando anche di organi di senso visibili che diano testimonianza di un’anima sensitiva che invece accomuna tutti gli animali, dispongono solo di un’anima nutritiva, funzionale esclusivamente all’accrescimento e alla riproduzione. Ecco lo stigma che ha accompagnato le piante per gran parte della storia del pensiero filosofico e scientifico che, pur declinato diversamente e con diverse sfumature nelle varie scuole di pensiero, di cui il libro dà ampiamente conto, ha mantenuto stabile il suo nucleo di svalutazione della vita vegetale sulla base della sua presupposta radicale alterità e subalternità rispetto alla vita umana.

Se è esistita una filosofia delle piante non-antropocentrica, non schiacciata sul paradigma aristotelico, questa ha costituito un filone quantomeno carsico e sicuramente minoritario, almeno fino a Darwin e alla ricerca scientifica contemporanea, grazie ai quali è divenuto sempre più difficile ignorare la complessità evolutiva delle piante nonché gli aspetti di sensibilità, mobilità, comunicazione, organizzazione, consapevolezza e attività nei confronti dell’ambiente circostante, che venivano ritenuti caratteri esclusivi degli esseri umani. La scienza contemporanea sta constatando sempre di più l’inadeguatezza del paradigma aristotelico, da cui pure non era stata immune in origine[3], restituendo alle piante l’attività e l’autonomia che le prove sperimentali attestano e che impongono profondi ripensamenti al pensiero filosofico.

Al di là dei notevoli avanzamenti scientifici nella comprensione della vita vegetale, anche la portata drammatica della crisi climatica arriva a rendere più urgente e necessaria un’inclusione simmetrica e non gerarchica delle piante nei nostri discorsi etico-politici: proprio nel momento in cui vengono messi più a rischio dalle dinamiche estrattive e predatorie degli umani, gli ecosistemi vegetali rivelano gli stretti legami di dipendenza a cui gli umani sono vincolati. Come in ogni ondata di simmetrizzazione, non sono (solo) le concessioni dall’alto a espandere il campo della riflessione morale e politica ma sono le spinte dal basso degli stessi attori esclusi a pretendere un adeguamento dell’agenda politica dei decisori. Così come la protesta organizzata delle femministe o degli attivisti per i diritti civili negli Stati Uniti d’America hanno imposto al dibattito politico loro contemporaneo di prendere in considerazione le loro istanze, così oggi con gli incendi che divorano la superficie boschiva, le foreste che mostrano segni di fatica nell’assorbire il diossido di carbonio immesso nell’atmosfera e la desertificazione che avanza in più parti della Terra, sembra essere il mondo vegetale stesso a imporci di venire a patti con esso, a non dare per scontati i suoi servizi ecosistemici (espressione tecnica per intendere, tra le altre cose, “cibo” nutriente e “aria” respirabile).

 

In questo insieme di progressi scientifici e drammaticità delle cronache si fanno strada l’etica e la politica delle piante, tentativi filosofici di recuperare un ritardo millenario di una teoria non zoo-centrica del vivente e della convivenza con esso. Non fito-centrismo, quindi, non invertire semplicemente la gerarchia e spostare il focus esclusivamente sulle piante elette a nuovo modello eccellente di organizzazione biologica e politica, ma ricerca simmetrica di principî comuni per orientare la coesistenza virtuosa di tutti gli esseri viventi.

Quello che il lettore può aspettarsi dalla lettura di questo libro, oltre ai due capitoli storico-filosofici che rendono conto l’uno del mainstream antropocentrico della cultura occidentale e l’altro di tutte le tradizioni (occidentali e non) che in vario modo possono essere considerate precorritrici di una nuova sensibilità nei confronti del mondo vegetale, sono altri due capitoli dedicati proprio ai dibattiti contemporanei sull’etica e la politica delle piante. Coronano la trattazione i due articoli di Simone Pollo e Alessandra Viola[4] che si innestano perfettamente nel terreno preparato nel resto del libro e traghettano chi legge nella carne viva del dibattito a cui è stato preparato nelle pagine precedenti. Il punto di partenza dell’etica delle piante è senza dubbio l’indagine sui fondamenti dello status morale delle piante: su quali basi l’etica dovrebbe interessarsi ad attori che non sono capaci di esprimere, se mai li avessero, i loro interessi? E inoltre: le piante dovrebbero essere accolte nell’etica come agenti morali a pieno titolo o solo come pazienti morali? Il valore della vita vegetale è in qualche modo intrinseco oppure è sempre riconducibile agli interessi strumentali umani? Se riportare nello spazio di una recensione tutti gli argomenti e i ragionamenti a sostegno di questa o quella declinazione dell’etica e della politica delle piante sarebbe troppo lungo e poco fruttuoso, più agevole e significativo è riportare quello che sembra il filo rosso di tutta la questione: che le piante e il modo in cui ci relazioniamo a esse non è moralmente indifferente, che la vita vegetale impone di approcciarvisi con la cautela e il rispetto necessari, che le piante contano, non foss’altro perché immaginare la vita umana senza di esse è impossibile. Tanti quesiti rimangono aperti, dalla possibilità o meno di garantire alle piante dei diritti giuridici andando oltre la semplice tutela legale, oppure una rappresentanza nei processi politici decisionali, fino al problema del bilanciamento degli interessi vegetali con quelli animali e umani. Come rendere giustizia, eticamente e politicamente, ai legami simbiotici che ci uniscono agli ecosistemi vegetali? Come convivere con questi organismi che nella loro alterità dimostrano tuttavia che la nostra vita e il nostro benessere dipendono dalla loro vita e dal loro benessere? In Tempo di crisi[5], Michel Serres rifletteva su quanto noi esseri umani dipendiamo dalle cose che dipendono da noi e in questa terribile constatazione, io credo, sta tutta l’urgenza di un’etica e di una politica delle piante.

 

Agostino Cambise

 

 

[1] Ho rielaborato questa definizione da P. Charbonnier, Affluence and Freedom. An Environmental History of Political Ideas (2020), tr. ing. Andrew Brown, Polity Press, Cambridge, 2021, pp. 215-216.

[2] Cfr. M. Di Paola, a cura di, The Vegetal Turn. History, Concepts, Applications, Springer, New York 2024.

[3] È il caso almeno di uno dei protagonisti della rivoluzione scientifica, Francis Bacon, il quale pur volendosi disfare dell’aristotelismo con il suo metodo sperimentale empirista, comunque non riesce a lasciarsi alle spalle gli stereotipi negativi sulle piante, cfr. p. 56.

[4] S. Pollo, Il sentimentalismo etico e il mondo vegetale, in G. Pellegrino, M. Di Paola, op. cit., pp. 187-204; A. Viola, Diritti dei vegetali: nuovi diritti per una giustizia ecologica, in G. Pellegrino, M. Di Paola, op. cit., pp. 205-222.

[5] M. Serres, Tempo di Crisi (2009), tr. it. Gaspare Polizzi, Bollati Boringhieri, Torino 2010.

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