S&F_scienzaefilosofia.it

B. J. Good – Narrare la malattia. Lo sguardo antropologico sul rapporto medico-paziente – tr. it. a cura di S. Ferraresi [Giulio Einaudi editore, Torino 2006, pp. 336, € 23]


«Il sapere medico consiste in una rappresentazione oggettiva del corpo malato. Io però ho sostenuto la necessità di un’alternativa antropologica a tale analisi del sapere medico, alternativa fondata sull’esame critico del modo in cui le pratiche e le ontologie mediche determinano gli oggetti dell’attenzione medica» (p. 177). In poche righe, l’antropologo statunitense – e docente di Antropologia medica presso la “Harvard Medical School” – Byron J. Good traccia le linee guida del suo Narrare la malattia. Lo sguardo antropologico sul rapporto medico-paziente: affiancare a un sapere medico, che pretende di definire in maniera obiettiva e incontestabile le caratteristiche della malattia, un nuovo modello per l’interpretazione delle patologie. Il paradigma medico – “scientifico” o “positivista” – vigente nella nostra cultura, infatti, si limita spesso a osservare i semplici sintomi fisici di una malattia, trascurando la “rete semantica”, che le ruota intorno – l’insieme di esperienze, parole, azioni presenti nel vissuto dell’ammalato. Aspetti, questi, di importanza analoga a quelli osservabili per mezzo di macchinari e analisi chimiche, da non sottovalutare per una cura efficace.

La spinta verso le ricerche in campo antropologico viene a Good da un’esperienza del 1964: trascorso un anno come studente presso l’Università della Nigeria, egli prova difficoltà nel descrivere quei luoghi utilizzando concetti “occidentali”.

L’autore si rende conto di quanto sia insolito, anche per gli stessi pazienti, considerare la malattia un fatto culturale. Nel paradigma biomedico, la malattia si configura semplicemente come una realtà biologica empirica le cui caratteristiche risiedono nel corpo fisico. Tale concezione si definisce “epistemologia ingenua”, poiché assegna un significato al sintomo solo se questo riflette – in maniera nitida e cristallina – una condizione fisiologica: «La medicina tecnica contemporanea fornisce la conoscenza oggettiva di tale patologia, rappresentata come un riflesso diretto e trasparente dell’ordine naturale rivelato dal corposo sistema semiotico dei riscontri fisici, delle analisi di laboratorio e delle moderne tecniche di diagnostica per immagini» (p. 16).

L’antropologia medica, invece, riporta l’attenzione verso l’esperienza del paziente in quanto uomo, alla sua sofferenza e al significato che egli stesso ne dà, grazie alla narrazione del proprio male, nonché al ruolo della famiglia e della società nell’emergere della malattia e nella cura, naturalmente senza negare il valore delle moderne tecniche di guarigione offerte dalla biomedicina.

Secondo Good la biologia è parte della cultura, non è esterna a essa. Le realtà della malattia sono costruite in base a processi formativi. Il termine “formativo” è mutuato da Good dalla Filosofia delle forme simboliche (1923-29) di Ernst Cassirer. I principi formativi si trovano nel linguaggio, nel mito, nella religione, nella storia e ogni disciplina crea dei mondi-simbolo distinti che non si limitano a riflettere i dati colti empiricamente, ma richiedono forme di immaginazione. Tale discorso, valido per la religione e le altre discipline, può essere esteso anche alla medicina.

La via verso una nuova concezione della medicina nasce dalla formazione dei futuri dottori: esercitare la professione medica non vuol dire soltanto apprendere una grande quantità di nozioni, bensì entrare in un mondo nuovo che include, oltre alle dovute competenze di base, una serie di pratiche necessarie ai fini dell’inserimento in un’ottica “medica” – fondata su specifici modi di “vedere”, “scrivere” e “parlare”. Nella facoltà di medicina di Harvard la formazione degli studenti inizia con un corso di otto settimane, denominato “Il corpo umano”, che unisce anatomia, istologia e radiologia. Nei primi due anni dei suoi studi, lo studente è guidato verso un approccio fondamentalmente visivo: nel laboratorio di anatomia egli “entra” nel corpo umano, aperto e pronto per essere esplorato. Ciò rappresenta una violazione del corpo stesso, formato da compartimenti uniti. Uno studente racconta il terribile shock provato all’ingresso nel laboratorio, in cui un cadavere era già preparato per la dissezione dei genitali, segato in due sopra la vita e sezionato tra le  gambe: lo smembramento dell’organismo era percepito come una violazione dei confini naturali.

Con questo non voglio dire che l’anatomia sia un’esperienza de-umanizzante ma semplicemente che si tratta di un contributo importante alla ricostruzione della persona funzionale per lo sguardo medico – identificata come un corpo, un caso, un paziente o un cadavere. La persona è un costrutto culturale, è un modo complesso e culturalmente dato di esperire se stessi e gli altri, e per ricostruire la persona quale oggetto dell’attenzione medica è richiesto un “lavoro” culturale. Tale ricostruzione della persona è essenziale perché uno studente diventi un medico competente (p. 114). Dopo aver imparato a “vedere”, i futuri medici iniziano il tirocinio clinico, in cui le operazioni principali sono “scrivere” e “parlare”. In questi anni gli studenti si lasciano alle spalle i casi teorici per entrare in ospedale, unendosi agli altri tirocinanti, ai medici e ai loro assistenti: la “scrittura” è la redazione del referto, mentre l’atto del “parlare” indica la comunicazione con il paziente, spesso trascurata a favore di altre operazioni come la presentazione dei casi e la strutturazione della giornata in ospedale – le visite al mattino, le visite di frequenza, i giri di visite. Le presentazioni dei casi sono effettuate velocemente, in balia del tempo che incalza: il bravo medico deve imparare ad “andare al sodo”.

Nella conversazione tra il medico e il paziente ci sono interruzioni e fraintendimenti, data la diversità delle categorie utilizzate dall’uno e dall’altro: tale constatazione è riportata da chiunque abbia avuto un rapporto con un medico e raccontata anche dalle scienze sociali. Good descrive un caso analizzato insieme alla moglie Mary-Jo, durante un seminario riguardante gli aspetti socio-culturali della medicina, obbligatorio all’interno del corso di Medicina familiare della “Harvard Medical School”. Uno specializzando analizza il caso di una ragazza ventiduenne sofferente di emorragia rettale, effettuando una tipica ermeneutica biomedica: egli ricava il disturbo primario, realizza una storia della malattia presente, una rassegna di sintomi significativi e una breve storia medica passata, concludendo l’incontro con un esame fisico. L’interpretazione della malattia di stampo antropologico, invece, si basa su un’ermeneutica dei sintomi non evidenti. L’analisi biomedica, infatti, trascura la complessa simbologia presente nella descrizione della paziente, ossia la sua percezione del sangue trasfuso – la ragazza è testimone di Geova – come di un elemento sporco e impuro, a differenza di quello proprio, che indica la vita.

Altro esempio significativo di come le narrazioni siano strutturate in termini culturali è la storia di Melita Hanim, una donna turca di circa sessant’anni, sofferente di attacchi epilettici da quaranta. Good e sua moglie fanno la sua conoscenza nel 1988, durante un viaggio effettuato insieme a un’equipe di ricerca epidemiologica, incaricata di analizzare la diffusione dell’epilessia nella società. Da ragazza Melita scappa con il suo attuale marito, sottraendosi al volere paterno di sposare un uomo scelto da lui. Ritrovata dal padre, la donna sviene per la paura: da allora iniziano a manifestarsi gli attacchi tuttora persistenti. È difficile stabilire se gli “svenimenti” sofferti da Melita siano dovuti realmente all’epilessia oppure siano di natura psicogena o isterica. È importante, inoltre, stabilire cosa si intende per “svenimento” nella cultura turca. Il racconto di Melita Hanim è una storia di vita, la cui struttura temporale è disposta intorno a una serie di eventi importanti sia la donna sia per la sua famiglia. Nell’ottica dell’antropologo americano Alfred Irving Hallowell, il mondo percettivo in cui siamo inseriti è organizzato non solo grazie al linguaggio e alle forme simboliche, ma anche per mezzo delle relazioni sociali e istituzionali che caratterizzano il mondo stesso. La realtà, allora, non è esperibile in maniera diretta ma, nonostante l’importanza delle indagini esplicite, si ricava anche per mezzo dei racconti delle persone coinvolte o di chi sta loro intorno.

La storia della malattia è il primo elemento di conoscenza che abbiamo riguardo a essa e può essere narrata dall’ammalato stesso, da familiari o amici. La malattia non è un testo chiuso ma si compone di una serie di storie le quali, una volta narrate, diventano accessibili ai più diversi lettori.

La malattia diviene, pertanto, simile a un oggetto estetico, non una semplice riflessione sull’esperienza del sofferente o una sua rappresentazione particolare, bensì un oggetto sintetico che fa da collante tra la letteratura delle scienze biomediche, le conversazioni tra i clinici e la conoscenza prodotta dalle loro sofisticate apparecchiature, tra le opinioni espresse nel mondo sociale e i documenti politici e amministrativi che ne tentano la classificazione. Qualunque tipo di studio comparato tra culture deve indagare la malattia come un oggetto che racchiude significati personali, sociali, politici, oltre che medici.

Una malattia si scopre poco per volta, attraverso incontri con il medico, discussioni con persone che soffrono dello stesso male, letteratura popolare. Ciò ci fa vedere la patologia da prospettive altrui, che emergono in momenti diversi della nostra esistenza. «Nelle nostre relazioni con la biomedicina, aggiungere un pizzico di scienze umane all’educazione medica o mutare gli atteggiamenti dei medici o anche accrescere l’attenzione per gli aspetti sociali nella pratica medica non è ciò che è in gioco. Abbiamo un’opportunità più significativa per aprire nella medicina una regione per una ricerca vitale e per l’attività pratica, per contribuire allo sviluppo della medicina quale dominio teorico e concettuale, ma anche come dominio della pratica umana (p. 275).

 

Paola Ciaramella

06_2009

Print Friendly, PDF & Email