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SARS-CoV-2 sotto la lente di ingrandimento evoluzionistica

Autore


Telmo Pievani

Università degli Studi di Padova

Indice


 

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S&F_n. 25_2021

Abstract


SARS-CoV-2 under the evolutionary magnifying glass

This interview aims at focusing a series of evolutionary, ethical, communicative and political issues about the SARS-CoV-2 pandemic. Professor Telmo Pievani discusses the evolutionary causes of the phenomenon and how this pandemic is a lesson in humility for Homo sapiens. He thinks in terms of ethics of foresight, and does not spare criticism of the “asphyxiated and culturally inadequate politics”, emphasising the need for environmental justice to represent justice tout court.

S&F: Nel suo libro Homo sapiens e altre catastrofi mostra come i processi di globalizzazione contemporanei vadano analizzati collocandoli nel tempo profondo della planetarizzazione della nostra specie. Tale questione che cosa ci può dire intorno alle risposte date (e da dare) alla pandemia di SARS-CoV-2?

 

T.P.: La pandemia è un caso lampante di processo globale che richiede (o richiederebbe, perché poi nel dibattito pubblico è pressoché assente) un’analisi in termini di storia naturale. Le epidemie dovute a zoonosi, cioè al passaggio di agenti patogeni dagli animali alla specie umana, iniziano a divenire una costante minaccia a partire dalla transizione neolitica, il grande evento planetario, innescatosi alla fine dell’ultima glaciazione in diverse aree del mondo, durante il quale le popolazioni umane impararono ad addomesticare piante e animali, convivendo con loro. Oggi noi associamo l’agricoltura alla naturalità, ma in realtà si trattò di una grande forzatura rispetto agli equilibri degli ecosistemi, che furono stravolti per produrre un surplus di beni a favore dell’umanità. Durante quella transizione si calcola che metà della biodiversità terrestre sia andata estinta. Ma fu solo un passo nella grande marcia di depredazione e omogeneizzazione del mondo naturale intrapresa da Homo sapiens. Le pandemie sono una delle tante conseguenze di questa aggressione. Hanno una lunga archeologia, ma ciò non toglie che quanto sta accadendo negli ultimi due decenni rappresenti un’accelerazione inedita. Le pandemie stanno diventando sempre più frequenti e pericolose. Come hanno sostenuto Anthony Fauci e David Morens, siamo entrati nell’era pandemica e i vaccini non basteranno se non rimuoveremo le cause ecologiche e remote, cioè le cause evoluzionistiche, del fenomeno. La storia naturale insegna che nei processi dell’oggi c’è al contempo un segno di continuità con un lontano passato (tanto è vero che l’8% del nostro DNA è di origine virale) e un segno di discontinuità e novità, in questo caso purtroppo una discontinuità preoccupante.

 

S&F: Nel suo testo La fine del mondo Lei si interroga su alcune figure della finitudine come la catastrofe, il disastro, la nemesi e l’estinzione. Ragionando a partire da quanto sta accadendo con la pandemia di SARS-CoV-2 – anche dal punto di vista economico, politico e sociale – e muovendo dal catastrofismo illuminato di Dupuy, da Lei citato nel testo, quale etica dovrebbe guidare le scelte umane in questa fase?

 

T.P.: Direi senz’altro un’etica della lungimiranza e della non prossimità, nel senso che dobbiamo coltivare la capacità, per noi difficile, controintuitiva, di prendere impegni etici i cui effetti si riverbereranno su persone lontane nello spazio e nel tempo: gli ultimi della Terra, le future generazioni, cioè coloro che peraltro hanno contribuito pochissimo o nulla alla crisi ambientale in cui ci troviamo. Il riscaldamento globale, il crollo della biodiversità, la devastazione degli ecosistemi e la riduzione dei loro servizi per l’umanità, la crisi ambientale in generale e le pandemie sono tutte questioni globali la cui mitigazione richiederà decenni. Sono tutte cattedrali, nel senso che dobbiamo progettare adesso le soluzioni, gettare le fondamenta, sapendo che poi la costruzione finita sarà vista se tutto va bene dai nostri nipoti, non da noi. Tutto ciò è ovviamente uno scandalo incomprensibile per la politica asfittica e culturalmente inadeguata, schiacciata dalla dittatura del presente, ipnotizzata dai sondaggi e dai rigurgiti dei social, che ogni giorno dobbiamo sopportare. L’etica della lungimiranza è ostica anche perché facciamo fatica a percepire gli effetti che le nostre azioni singole possono avere su processi planetari così vasti e intricati. Dobbiamo lavorare molto di più sulla nostra capacità di immaginazione.

 

S&F: L’evoluzionista Ford Doolittle scrive che la pandemia di SARS-CoV-2 può rappresentare un volano per una transizione evolutiva che ci consentirà di acquisire posture morali meno self-interested. Lei ritiene che questa lettura sia sostenibile o pensa che l’esito delle pressioni selettive costituite dalla circolazione del virus nella popolazione umana potrebbe acuire forme di egoismo, sia a livello individuale che comunitario?

 

T.P.: Ho trovato molto interessante e coraggioso, come sempre, l’articolo di Doolittle. Pone al centro dell’attenzione una questione fondamentale: la dicotomia fra tribalismo e solidarietà che traumi come la pandemia enfatizzato e acuiscono. Non credo ci sia una risposta alla domanda su quale direzione verrà presa. A mio avviso, sulle prime prevarrà la dimenticanza, il ritorno degli egoismi – come stiamo vedendo nella triste gestione dei vaccini a livello internazionale, con le istituzioni pubbliche messe sotto ricatto da poche aziende multinazionali private –, continueremo a considerare una necessità indiscutibile e “naturale” ciò che in realtà è una costruzione umana (il libero mercato che crea diseguaglianze crescenti), gli Stati cercheranno di mettere al sicuro prima sé stessi e poi di aumentare le proprie influenze sugli altri, come sempre. Nel medio e lungo termine, tuttavia, credo che l’opinione pubblica mondiale sarà sempre più scossa dai costi crescenti che la crisi ambientale ci metterà dinanzi. Mi pare inevitabile che ci siano turbolenze gravi, perché l’attuale modello di sviluppo e di consumi non è compatibile con una soluzione realistica della crisi ambientale. Aumenteranno le disparità e i conflitti. A quel punto forse capiremo che la pandemia era un monito fra gli altri, un capitolo di un processo più ampio di rottura nelle relazioni tra l’umanità e il resto della biosfera (che include i virus e i batteri, abitanti di questo pianeta da tre miliardi di anni).

 

S&F: In diversi suoi lavori lei collega l’affermarsi del pensiero evoluzionistico al tema dell’umiltà. Tale tema, a sua volta, può trovare un punto di contatto con il tema della contingenza. Pensa che la pandemia di SARS-CoV-2 possa essere letta attraverso queste categorie? In che modo?

 

T.P.: Siamo stati messi in scacco da un organismo infinitesimale, semplicissimo, primordiale, una macchina darwiniana quasi perfetta, un filamento di RNA circondato da una capsula di proteine. Noi, mammiferi boriosi e di grossa taglia, messi al tappeto da un essere che fa il suo semplice mestiere – riprodursi, fare copie di sé stesso parassitando le cellule degli altri – da tre miliardi e più di anni, mentre noi siamo comparsi tra duecento e trecento millenni fa in Africa. Se non è una lezione di umiltà questa… E invece ragioniamo ancora come se fossimo invulnerabili, invincibili, come se potessimo salvare il pianeta e noi stessi insieme mettendo in opera qualche restyling del capitalismo predatorio che sta spolpando il pianeta. Nel 2020 il peso delle cose umane, cioè di tutti gli oggetti costruiti dall’umanità (dagli edifici ai mezzi di trasporto, a tutti i nostri strumenti, esclusi gli scarti), ha superato la biomassa globale, cioè tutti gli esseri viventi (piante, animali, microrganismi) messi insieme. Questa è l’impronta feroce e soffocante dell’Antropocene. Per questo insisto sul tema della contingenza, perché credo sia il fondamento dell’umiltà. Noi, che stiamo facendo questo, in realtà avremmo potuto benissimo non esserci, se in una miriade di biforcazioni della storia passata qualche dettaglio avesse deviato la locomotiva su un altro binario. Non eravamo previsti, non siamo necessari. Scoprire di non essere indispensabili sgomenta i più. Secondo me invece è una rivelazione di leggerezza, di gioia, di libertà e responsabilità. Dobbiamo lasciare ai discendenti la nostra casa in buone condizioni, come l’abbiamo trovata e se possibile migliorata.

 

S&F: In una recente intervista ha dichiarato che “il tempo pandemico è appena iniziato” mentre c’è una grande voglia di lasciarsi tutto alle spalle. Qual è la pericolosità di un possibile oblio di quanto accaduto (e che, per il momento, continua ad accadere)?

 

T.P.: Il vero pericolo è continuare a interpretare la scienza, e in generale la conoscenza, in modo utilitaristico. Ci siamo accorti dell’importanza della ricerca medica quando molti di noi finivano in terapia intensiva. Invece dovremmo pensarci anche prima e dopo le emergenze, non solo quando ne abbiamo un drammatico bisogno. La scienza è un modo di pensare, non è soltanto uno strumento. Esercitare la libera curiosità umana di indagare i fenomeni naturali è un diritto fondamentale, ma è anche un’assicurazione sul futuro. Quindi l’oblio sarebbe pericolosissimo, perché ci porterebbe a non investire sulla conoscenza e sulla protezione dell’ambiente, come duplice lezione della pandemia. Non resta che verificare dove saranno destinati i fondi della ripresa e come verranno spesi. E poi chiedere conto ai responsabili circa gli effetti delle loro politiche, un’altra buona abitudine che abbiamo perso, nessuno va più a controllare a posteriori gli impatti delle scelte politiche.

 

S&F: Uno dei temi da discutere, con riferimento alla pandemia di SARS-CoV-2, è quello del trattamento crudele degli animali non umani. Questo tema, benché un po’ oscurato nel dibattito pubblico, è probabilmente centrale sia per comprendere meglio la genesi della pandemia sia per discutere delle possibili strategie di uscita dal problema. Può dirci qualcosa al riguardo?

 

T.P.: Gli allevamenti intensivi hanno un impatto ambientale terribilmente insostenibile, in termini di consumo di acqua, emissione di gas serra, deforestazione per fare campi da foraggio, inquinamento da deiezioni, abuso di antibiotici (che sta favorendo la diffusione di super-batteri resistenti, ne sentiremo parlare purtroppo, e i batteri si riprenderanno la ribalta mondiale al posto dei virus), creazione di habitat ideali per zoonosi, oltre che per il malessere di animali tenuti in condizioni spesso spaventose. Dobbiamo ridurre in modo sostanziale il consumo di carne e trovare alternative sostenibili per il consumo di proteine animali. Se la carne costa pochissimo al supermercato, è perché sull’etichetta non sono segnalati i costi ambientali e sociali. Questo significa che per gli allevamenti intensivi sarà necessario programmare una conversione per tappe, e intanto possiamo chiudere subito quelli che servono soltanto per frivolezze, tipo gli anacronistici allevamenti di visoni. Preciso che dico tutto questo non essendo animalista. Non è necessario essere animalisti per sostenere la necessità urgente di questa transizione, basta leggere i dati pubblicati da anni sulle maggiori riviste scientifiche. Intanto però i consumi globali di carne aumentano, perché nei paesi emergenti anche questo è un segno di benessere crescente.

 

S&F: Un altro tema strettamente connesso a quello del trattamento crudele degli animali non umani concerne questioni di etica, politica e giustizia ambientale. Anche in questo caso si tratta di un tema non all’ordine del giorno nel dibattito pubblico – anzi, sembra che il tempo di Greta Thunberg sia già passato – ma, anche in questo caso, potrebbe essere d’aiuto per comprendere le cause profonde e lontane di questa pandemia (e di quelle avvenute negli ultimi due decenni e delle altre che presumibilmente ci attendono). Cosa ne pensa?

 

T.P.: Il tempo di Greta Thunberg tornerà, e se non sarà Greta sarà qualcun altro al posto suo, giovane, carismatico e giustamente arrabbiato. Lo dico perché credo che ci sia un’inerzia dei processi evidente. Il riscaldamento climatico aggraverà i suoi effetti: eventi meteorologici estremi, disastri cosiddetti “naturali” (in realtà umani), inondazioni permanenti di porzioni di interi paesi, fusione dei ghiacciai e scarsità di acqua potabile, desertificazione, modifica delle correnti oceaniche, e così via. L’elenco è ben noto e altrettanto ignorato. Anche volendo evitare ogni sentimentalismo o allarmismo, questi fenomeni costeranno sempre di più e alla fine se ne accorgeranno anche i più ciechi. In Italia ormai ogni pioggia copiosa o nevicata robusta o siccità persistente diventa un disastro da telegiornale, commozione, stato di calamità: quanto tempo ci vorrà ancora per capire che un paese fragile come il nostro non può permettersi il dissesto idrogeologico perché viene giù tutto? Non è uno stato di calamità, è uno stato di normalità. La giustizia ambientale è giustizia tout court, perché a pagare tutto questo sono gli ultimi e i posteri, cioè i meno colpevoli.

 

S&F: L’umanità non si estinguerà a causa di SARS-CoV-2. Tuttavia, l’evento di cui siamo testimoni, in qualche modo, ci spinge, forse, a rimettere al centro della discussione, filosofica e non, il tema dell’estinzione, di cui per altro lei si è occupato a più riprese nei suoi scritti. Può dirci qualcosa a tal proposito?

 

T.P.: Il tema dell’estinzione non è apocalittico né catastrofista. Non è una previsione nefasta. Noi ce la caveremo, come sempre, anche se a caro prezzo in termini economici, sociali, di vite umane. Sapere che come ogni specie anche noi un giorno non ci saremo più aiuta a mettere la nostra evoluzione nella giusta prospettiva. Siamo i figli della fine del mondo degli altri e nell’evoluzione, prima o poi, un colpo di vento si porta via le carte. Soprattutto, l’estinzione ci insegna che dovremmo imparare a ragionare come se il “noi” della nostra comunità di appartenenza e di destino non fosse più solo la tribù (vedi oggi: corporazione, bolla digitale), e nemmeno la nostra regione, nemmeno il nostro paese, bensì la specie umana nella sua interezza. L’estinzione, che è universale e democratica, ci aiuta a coltivare una coscienza di specie.

 

S&F: In conclusione, dal momento che Lei accompagna la sua ricerca scientifica con quello che potremmo definire un “bisogno” etico di divulgazione scientifica, qual è il suo giudizio sulla comunicazione scientifica mainstream in questi tempi pandemici, sul ruolo delle fake news, e sul dibattito intorno alla “democraticità” (o meno) della scienza, soprattutto in tempi di emergenza?

 

T.P.: Devo dire che il mio giudizio è molto negativo. Non solo per il successo delle fake news, dell’antivaccinismo e di altre forme di ostilità verso la scienza e la ragione. Quello anzi lo conosciamo e sappiamo che ha risorse infinite, perché i complottismi ci consolano, ci illudono, colonizzano facilmente le nostre menti soprattutto in momenti di sconforto, di disorientamento e di risentimento. La battaglia sarà lunga ed è un dovere etico condurla. La mia preoccupazione maggiore riguarda piuttosto l’esito pressoché disastroso della comunicazione scientifica durante la pandemia. A parte poche eccezioni, abbiamo visto conflitti tra scienziati messi in scena nei talk show o sui social, previsioni azzardate propinate al posto di un più sano “non lo so”, personalismi e narcisismi, opportunismi politici, ognuno che parla a titolo personale, atteggiamenti paternalisti, il dissenso zittito come se fosse automaticamente il frutto di ignoranza e incompetenza. E questo benché gli italiani abbiano una fiducia mediamente alta nei confronti della figura dello scienziato. Passata la bufera, sarà necessario organizzare una severa riflessione auto-critica nel mondo della scienza. Abbiamo purtroppo appurato in diretta televisiva che nella formazione di uno scienziato mancano i rudimenti della comunicazione e talvolta anche dell’epistemologia, cioè del fatto che quando racconti la scienza al grande pubblico non basta illustrare i risultati, devi anche spiegare in modo aperto e trasparente i metodi, i processi, le incertezze, i dubbi, cioè in fondo la bellezza della ricerca.

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