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Ricerca, etica e comunicazione. L’epidemiologia come esercizio di impegno etico-civile

Autore


Liliana Cori

CNR – Sede di Roma

Ricercatore all’Istituto di Fisiologia clinica del CNR – Sede di Roma

Indice


  1. Dall’epidemiologia in scatola all’eco-epidemiologia
  2. Il biomonitoraggio umano
  3. Codici etici in epidemiologia
  4. In Campania

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S&F_n. 02_2009


  1. Dall’epidemiologia in scatola all’eco-epidemiologia

È sempre più frequente leggere notizie sulle epidemie che circolano per il pianeta a grande velocità, e vedere cittadini che protestano perché nelle loro zone si muore di più: gli epidemiologi misurano la frequenza delle malattie per stabilire rischi e raccogliere risorse in caso di emergenza; ecco perché questa materia è entrata nella vita quotidiana, sia in campo medico che in quello dell’ambiente, della gestione del territorio e delle risorse naturali, compresa l’installazione di nuovi impianti industriali o energetici.

L’epidemiologia ambientale studia i fattori che dall’esterno, dall’ambiente, hanno effetti negativi sulla salute: si può trattare di rischi “naturali” o “antropici”, conseguenza della collocazione di impianti, di infrastrutture, dell’uso di tecnologie che si rivelano pericolose. In contesti caratterizzati da «fatti incerti, valori in conflitto, posta alta in gioco e decisioni urgenti», il contesto analizzato dalla scienza post-normale[1], l’epidemiologia entra con forza nell’arena del dialogo sociale con strumenti non sempre adeguati. Il problema della comunicazione tra mondi in apparenza separati quali quelli della scienza, dei decisori e dei cittadini si pone evidente, in particolare nel momento in cui le osservazioni scientifiche sostengono diverse opzioni di intervento ed entrano nell’arena pubblica.

Una serie di riflessioni sullo statuto dell’epidemiologia ha portato a visualizzare questa disciplina nella sua evoluzione storica[2]. Si parte dall’immagine di una scatola nera, per cui la disciplina si occupa di ciò che si colloca all’ingresso, cioè i cosiddetti determinanti di salute, e di ciò che si colloca in uscita, cioè gli effetti sulla salute, ignorando ciò che succede all’interno della scatola. Si è poi passati alla metafora delle scatole cinesi, in cui una serie di discipline diverse – tossicologia, chimica, scienze della terra, genetica, ecc. – si occupano di valutare gli stadi intermedi tra le cause di malattia e la malattia stessa, e contribuiscono a chiarire le dinamiche e ad approfondire l’analisi. Si è infine approdati a un concetto di eco-epidemiologia, in cui nessuno dei sistemi di conoscenza da solo è in grado di spiegare fenomeni complessi, e ci si affida anche a scienze qualitative con il supporto di una epistemologia robusta e consapevole delle proprie potenzialità. Le riflessioni sulla scienza post-normale di Silvio Funtowicz e quelle sui paradigmi dell’epidemiologia di Susser rivelano analogie nel momento in cui propongono ricerche di tipo interdisciplinare, e si assumono la responsabilità di proporre un metodo per affrontare la complessità, che sia aperto al confronto con la società.

È nella dimensione ecologica, quella della interdisciplinarietà, che si collocano le ricerche di epidemiologia ambientale di cui qui ci occupiamo e che si devono misurare con la dimensione comunicativa ed etica. La comunità degli epidemiologi si è data codici di condotta e linee guida etiche, mentre nel mondo si stanno moltiplicando esperienze in cui la ricerca epidemiologica accoglie approcci diversi e include metodologie qualitative con il supporto delle competenze disciplinari opportune.

 

  1. Il biomonitoraggio umano

L’analisi di tessuti umani per la ricerca di prodotti chimici estranei non è una tecnica nuova, ma negli ultimi dieci anni ha compiuto enormi passi in avanti, permettendo di identificare un numero sempre maggiore di composti. Il primo rapporto dei Centri per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie degli Stati Uniti presentava i dati di 27 inquinanti[3]; il terzo faceva riferimento a 148 prodotti chimici monitorati nella popolazione americana in modo regolare[4], anche se gli inquinanti che, sempre per il CDC, si possono monitorare anche in ridottissime quantità nei tessuti umani sono oggi più di trecento.

Anche in Italia la ricerca epidemiologica è in grado di compiere passi importanti in termini di conoscenze “obiettive” circa l’impatto dell’ambiente sulla salute, e ciò grazie alla misura della quantità di composti estranei che sono presenti nei tessuti delle persone che vivono in aree inquinate, cioè grazie alla misura dell’esposizione. Le indagini sono aumentate negli ultimi anni, concentrandosi in aree ad elevato rischio ambientale, e hanno avuto una diffusione e una divulgazione soprattutto locali. Si possono ricordare in particolare i casi di Brescia, di Mantova e dell’area del fiume Sacco nel Lazio; ma questo tipo di ricerche è rimasto poco conosciuto ai cittadini, e presenta delle obiettive difficoltà di disseminazione e di comprensione. Le indagini di biomonitoraggio umano sono infatti diverse dalle analisi cliniche con valori soglia, con valori cioè che segnalino la necessità di attivare cure individuali, come nel caso del colesterolo. Esistono valori di riferimento per i principali inquinanti come metalli pesanti e composti clorurati, che sono quelli che si ritrovano normalmente nella popolazione generale, ma non si conosce la dimensione dei problemi di salute che provocano, soprattutto di un insieme di diversi prodotti a dosi molto basse che interagiscono tra loro.

Il biomonitoraggio umano è stato usato inizialmente per valutare l’esposizione dei lavoratori agli inquinanti presenti nelle fabbriche, a scopo di sorveglianza sanitaria. Le prime campagne di monitoraggio sulla popolazione generale sono state fatte per il piombo, di cui si erano compresi i danni sullo sviluppo neurologico, e hanno testimoniato l’abbassamento dell’esposizione dopo la rimozione del piombo dalle benzine delle automobili. Altre campagne iniziate sistematicamente negli Stati Uniti hanno rilevato la presenza di inquinanti industriali tossici e persistenti, che sono stati eliminati dalle produzioni. Uno degli obiettivi delle analisi che miravano a comprendere l’esposizione “di fondo” della popolazione era quello di capire se e come i cambi delle produzioni industriali determinavano cambiamenti di esposizione nella popolazione.

Il biomonitoraggio umano incluso in una ricerca epidemiologica può permettere una buona valutazione dell’esposizione, e porre le basi per capire, con una adeguata sorveglianza, gli effetti sulla salute: i risultati nell’immediato serviranno a determinare quali sono gli inquinanti che arrivano nel corpo e quindi a mirare le attività di eliminazione dell’esposizione. Comunque, con il crescere delle possibilità analitiche e l’abbassarsi dei costi, è cresciuto il numero di prodotti analizzati nei tessuti umani, e si è in un certo senso perso di vista il senso di questi monitoraggi, mentre è aumentata la dimensione dell’incertezza.

Il National Research Council degli Stati Uniti ha dedicato una pubblicazione nel 2006 allo Human Biomonitoring for Environmental Chemicals, redatta dopo due anni di discussioni da parte del Committee on Human Biomonitoring for Environmental Toxicants[5]. Nella pubblicazione si esaminano in modo approfondito tutte le potenzialità del biomonitoraggio, con lo scopo di migliorare il disegno degli studi, le interpretazioni e l’uso dei dati e, inoltre, la comprensione delle questioni etiche e di comunicazione che sono coinvolte. Una delle raccomandazioni finali è quella di moltiplicare le ricerche sistematiche nel campo della comunicazione, per comprendere i diversi aspetti della questione sulla base di esperienze concrete. Questo invito è stato ben accolto in molti paesi oltre agli USA, e negli ultimi anni è aumentato fortemente il numero di ricerche, seminari e relazioni strutturate sulle attività di comunicazione[6]. Un recente articolo riferito alla Consensus Conference di Boston sul biomonitoraggio umano rileva già nell’introduzione che all’interno dei numerosi studi realizzati – seppur incentrati sulle implicazioni etiche – manca la voce dei cittadini[7]. L’articolo, oltre a verificare la capacità delle persone comuni a comprendere appieno questioni complesse, inclusa la dimensione dell’incertezza, già sottolineata in altri studi[8], evidenzia la novità e le potenzialità dell’educazione reciproca, che deriverebbe da processi di dialogo tra mondi diversi, parlando di “traduzione simultanea della ricerca”.

Tutti gli studi citati concordano nell’osservare che le ricerche sul biomonitoraggio umano provocano particolare inquietudine nelle persone, e l’attenzione si concentra in particolare sul delicato passaggio della comunicazione dei risultati delle analisi realizzate. Si pone ancora il problema dell'interlocuzione con i soggetti della ricerca e con il loro contesto di vita, quindi della comunicazione, del coinvolgimento, della restituzione dei risultati, della dimensione etica, nella misura in cui i ricercatori si interrogano sui motivi e sull’utilità di ciò che stanno esplorando.

 

  1. Codici etici in epidemiologia

La International Epidemiological Association (IEA), ha sviluppato delle linee guida di buona condotta, che illustrano il ruolo dei comitati etici e i quattro principi etici della ricerca, dando particolare rilievo al consenso informato come strumento operativo[9]. La International Society for Environmental Epidemiology (ISEE), si è dotata di linee guida etiche per gli epidemiologi ambientali che mettono esplicitamente il ricercatore nella posizione di chi deve ottemperare a una serie di obblighi: verso i soggetti della ricerca (termine con cui si intendono i partecipanti); verso la società; verso i finanziatori e gli impiegati; verso i colleghi. Partendo da questi presupposti si sottolineano le responsabilità personali, sociali, politiche, e ci si interroga sulla dimensione etica, cioè sul fine di ogni ricerca[10].

Ma anche analizzando i quattro principi etici per la protezione dei soggetti umani della ricerca contenuti nel “Belmont Report” è possibile riflettere sui possibili problemi legati agli studi di biomonitoraggio umano[11].

Il principio del “rispetto per la persona” comprende il diritto a conoscere come base dell’autodeterminazione nell’uso dei risultati della ricerca; il principio di “giustizia” si riferisce alla distribuzione dei benefici o dei pericoli a diversi gruppi. Entrambi sembrano orientare l’azione verso la trasparenza e l’apertura, e la scelta di consegnare tutti i risultati ai soggetti della ricerca.

I principi di “beneficenza” e “non maleficenza” (non recare intenzionalmente danno) riguardano la responsabilità dei ricercatori nel massimizzare i benefici e minimizzare i danni. In particolare la beneficenza si orienta a riconoscere i benefici, dando ad esempio agli individui e alle comunità gli strumenti per ridurre l’esposizione, proteggere la propria salute, partecipare in modo più pieno alla ricerca nel campo della salute e alle decisioni nel campo della salute pubblica. La non maleficenza induce a riflettere sulla possibilità che la restituzione dei risultati del biomonitoraggio umano provochi reazioni quali la paura, la preoccupazione, lo stigma sociale; bisogna pensare alle possibili conseguenze economiche e legali, o al rischio che vengano intraprese cure mediche non necessarie; è importante anche considerare che la restituzione dei risultati è costosa e si potrebbero risparmiare queste risorse per diversi servizi sanitari[12].

A partire da queste considerazioni si comprende quanto siano ampi i margini di discussione e di azione. La problematica in Italia si fa inoltre ancora più complessa se si considera che la materia è sconosciuta alla maggior parte della pubblica opinione, e manca quindi una sede aperta di dibattito.

 

  1. In Campania

Il caso della ricerca epidemiologica di biomonitoraggio umano Sebiorec, in corso nella Regione Campania, è un esempio di ricerca in cui le preoccupazioni etiche e di comunicazione sono state oggetto di specifica attenzione.

L’indagine prevede il prelievo di sangue e di latte materno in due campioni di 840 e 70 residenti in 16 comuni delle province di Napoli e Caserta: si tratta di una delle più grandi ricerche realizzate in Europa, in un’area in cui si conosce da tempo l’esistenza di un forte inquinamento ambientale ed è stata ipotizzata una correlazione tra inquinamento ed effetti sulla salute[13].

È prevista l’analisi di sostanze organo clorurate, incluse le diossine, e di numerosi metalli pesanti; ogni persona è intervistata con un questionario che aiuta a conoscerne storia residenziale, medica, lavorativa, abitudini e stili di vita. Fin dall’inizio si è presentato il problema della comunicazione, innanzitutto per la complessità della macchina organizzativa (sono state coinvolte sei Aziende Sanitarie Locali, con personale da formare e sensibilizzare opportunamente per i prelievi e per le interviste). Il secondo punto nodale per la ricerca è stato il coinvolgimento delle persone da monitorare su un’area molto vasta e di età molto diverse. Il campionamento, infatti, ha riguardato persone dai 20 ai 64 anni, ed è stato fatto con una selezione casuale dalle liste anagrafiche; il lavoro di sensibilizzazione è stato lasciato alle Asl per il tramite dei medici e poi affidato a un lavoro di diffusione sulla stampa, sia locale che nazionale. Nel complesso le aree di vera difficoltà di coinvolgimento sono state molto limitate, e legate soprattutto alla difficoltà di reperire donne alla prima gravidanza con dieci anni di residenza in zona, che donassero il latte nelle prime settimane di gestazione.

Fin dall’inizio del lavoro i ricercatori e i medici delle Asl hanno condiviso una certa preoccupazione relativa alla restituzione dei risultati, a partire dal pieno diritto a conoscere i risultati della ricerca da parte dei soggetti coinvolti. Da una parte sono emerse le domande proprie della comunità scientifica sopra dettagliate, dall’altra è emersa la consapevolezza di trovarsi in un contesto particolarmente difficile.

L’analisi di contesto necessaria a redigere il piano di comunicazione aveva infatti permesso di verificare delle aree di criticità specifiche. Due elementi sono emersi in particolare: la cronica carenza di pratiche di comunicazione sul territorio, con istituzioni che evitavano deliberatamente di adottare procedure trasparenti; e la presenza di una comunità fortemente sensibile, in cui la consapevolezza degli effetti negativi dell’inquinamento ambientale sulla salute è apparsa molto acuta. All’inizio del 2008, per esempio, alcuni cittadini della zona di Acerra avevano fatto analizzare il proprio sangue in cui venivano rilevate diossine; da allora si sono moltiplicati articoli e denunce dai toni fortemente drammatici.

Sono quindi stati discussi una serie di strumenti utili non solo a dare notizie in modo corretto dal punto di vista dei contenuti, ma a gettare ponti di comunicazione per aumentare le possibilità che i risultati dello studio in corso potessero essere compresi dai cittadini.

Tra gli strumenti informativi, il questionario per i singoli donatori è stato arricchito con una sezione relativa alla percezione del rischio, alla fiducia e alle fonti informative. In questo modo si sono potuti ricavare elementi utili per mirare la comunicazione, anche differenziandola nelle diverse aree, dove ci si renda conto che esistono canali informativi di particolare interesse o fonti privilegiate.

Ma la sfida più originale ha coinvolto un gruppo di studiosi di diverse discipline, che hanno deciso di intraprendere un percorso comune di riflessione accompagnandolo con la realizzazione di interviste in profondità sul territorio, che consentissero di esplorare l’immaginario delle persone riguardo agli effetti dell’inquinamento sul corpo, alla fiducia nelle istituzioni e nella comunità e alle visioni circa il futuro. Si tratta di sociologi, filosofi, criminologi, psicologi, esperti di comunicazione, storici dell’ambiente, che hanno unito i loro sforzi per impostare il lavoro di ricerca e per interpretare le interviste.

Dieci intervistatori (studenti e ricercatori residenti nelle stesse zone degli intervistati) hanno realizzato più di 80 interviste nei 16 comuni coinvolti nei prelievi per Sebiorec. L’ipotesi è che la messa in campo di strumenti qualitativi, la raccolta di elementi di contesto e di lettura del rapporto tra le persone e il territorio, ponga le basi per un percorso di educazione reciproca, che riguadagni all’epidemiologia la sua dimensione di esercizio di impegno etico-civile, tanto più fondato nel momento in cui la ricerca stessa evidenzia come ci siano popolazioni più esposte e più vulnerabili rispetto ad altre. Obiettivo della ricerca diventa in questo caso inevitabilmente il miglioramento delle condizioni di vita e la produzione di conoscenze nuove e utili alle decisioni.

L’ulteriore evoluzione di queste interviste prevede da una parte la discussione con il gruppo di ricerca di Sebiorec, per individuare gli elementi utili e le possibili sedi in cui realizzare una migliore comprensione dei risultati della ricerca di biomonitoraggio umano, dall’altra la restituzione ai protagonisti e la discussione con loro dei risultati, per approfondire alcuni temi e capire quali siano gli elementi utili a rafforzare le competenze e la capacità dei cittadini di incidere positivamente sulla propria realtà quotidiana.

 


[1] S. Funtowicz e J. Ravetz, Science for the post normal age, in «Futures», 25, 7, 1993, pp. 739-755.

[2] M. Susser, E. Susser, Choosing a future for epidemiology: I. Eras and paradigms in «American Journal of Public Health», 86, 1996, pp. 668-673; M. Susser, E. Susser, Choosing a future for epidemiology: II. From black box to chinese boxes and eco-epidemiology in «American Journal of Public Health», 86, 1996, pp. 674-677.

[3] Centers for Disease Control and Prevention, First National Report on Human Exposure to Environmental Chemicals, Atlanta (GA): CDC, 2001, in http://www.cdc.gov/exposurereport/

[4] Centers for Disease Control and Prevention, Third National Report on Human Exposure to Environmental Chemicals, Atlanta (GA): CDC, 2005, in http://www.cdc.gov/exposurereport/

[5] National Research Council, Human Biomonitoring for Environmental Chemicals, National Academies Press,  Washington DC 2006.

[6] M.N. Bates, J.W. Hamilton, J.S. LaKind, P. Langenberg, M. O'Malley, W. Snodgrass, Workgroup report: Biomonitoring study design, interpretation, and communication--lessons learned and path forward, in «Environmental Health Perspectives», 113, 11, 2005, pp. 1615-21; T. Bahadori, R.D. Phillips, C.D. Money, J.J. Quackenboss, H.J. Clewell, J.S. Bus, S.H. Robison, C.J. Humphris, A.A. Parekh, K. Osborn, R.M. Kauffman, Making sense of human biomonitoring data: findings and recommendations of a workshop, in «Journal Exposure Science Enviromental Epidemiology» 17, 4, 2007, pp. 308-13; S. Bauer, Societal and ethical issues in human biomonitoring, a view from science studies, in «Environmental Health»,  5, 7, 2008, Suppl. 1: S10.

[7] J.W. Nelson, M.K. Scammell, R.G. Altman, T.F. Webster, D.M. Ozonoff, A new spin on research translation: the Boston Consensus Conference on Human Biomonitoring, in «Environmental Health Perspectives», 17, 4, 2009, pp. 495-9.

[8] L. Bobbio, Smaltimento dei rifiuti e democrazia deliberativa, Working paper n. 1, Dipartimento di studi politici, Università degli Studi di Torino, Torino 2002; L. Bobbio, A più voci. Amministrazioni pubbliche, imprese, associazioni e cittadini nei processi decisionali inclusivi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2004.

[9] Good Epidemiological Practice, http://www.dundee.ac.uk/iea/GEP07.htm

[10] Ethics Guidelines for Environmental Epidemiologists,  http://www.iseepi.org/about/ethics.html

[11] The Belmont Report: Ethical Principles and Guidelines for the Protection of Human Subjects of Research, The National Commission for the Protection of Human Subjects of Biomedical and Behavioral Research, United States Department of Health, Education, and Welfare. April 18, 1979.

[12] J. Brody, R. Morello-Frosch, P. Brown, R. Rudel, R. Altman, M. Frye, C. Osimo, C. Perez, L, Seryak, Is it safe? New ethics for reporting personal exposures to environmental chemicals, in «American Journal of Public Health», 97, 9, 2007, pp. 1547-1554.

[13] M. Martuzzi, F. Mitis, F. Bianchi, F. Minichilli, P. Comba, L. Fazzo, Cancer mortality and congenital anomalies in a region of Italy with intense environmental pressare due to waste, in «Occupational Environmental Medicine», 66, N. 5, 2009, in print.

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