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IN-E-vocazioni della fine (o della cinemetafisica)

Autore


Gianluca Giannini

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Idolo del crepuscolo
  2. Idolo al crepuscolo
  3. Crepuscolo

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S&F_n. 08_2012

Abstract



Is it somehow necessary for the human being to be? Is there something that reveals the need of the human being (and for the human being) to continue to be? Through the intersection between philosophy and cinema, and the age-old problem of “The End of the World”, this paper tries to develop an hypothesis involving the deconstruction of this question and, finally, of the inner reasons that support any answers based on traditional Metaphysics.

      


Distruzioni –

il che dice pur sempre: qui una volta

c’erano masse, edifici, compattezze –

o bella parola

che echeggia

colme opulenze

e prode natie –.

Gottfried Benn, Distruzioni

 

  1. Idolo del crepuscolo

Una generazione fa gli umani sono riusciti a scampare all’annientamento nucleare; con un po’ di fortuna continueremo a schivare quello e altri terrori di massa. Spesso però temiamo di aver inavvertitamente avvelenato o surriscaldato il pianeta, e anche noi stessi, oltre un punto di non ritorno. Sappiamo di aver abusato dell’acqua e del suolo, così che adesso resta ben poco di entrambi, e di aver calpestato migliaia di specie che probabilmente non riappariranno più. Il nostro mondo, ci avvertono alcune voci autorevoli, potrebbe un giorno degenerare in una sorta di appezzamento abbandonato, dove i ratti e i corvi si daranno a vicenda la caccia fra le erbacce. Se le cose stanno così, com’è accaduto che, con la nostra tanto decantata intelligenza superiore, siamo diventati una specie talmente poco portata alla sopravvivenza?[1]

Checché se ne pensi, rispetto all’oscuro quesito proposto nel suo oramai celebre Il mondo senza di noi da Alan Weisman, ancor prima dell’inflazionatissimo rigiro/raggiro (e ribaltamento di problematica e relativa indicizzazione) di Hans Jonas ne Il principio responsabilità in ordine al quale se solo «il previsto stravolgimento dell’uomo ci aiuta a formulare il relativo concetto di umanità da salvaguardare», ovvero a dire che «abbiamo bisogno della minaccia [...] per accertarci angosciati della reale identità dell’uomo», risulterà possibile ri-solvere detto (a questo punto funzionale) angosciante ancorandolo a una «responsabilità ontologica per l’idea dell’uomo»[2] che però tradisce l’ennesimo ritornante riappaiarsi tra un prescritto (giacché autolegittimantesi nella sua infondatezza) Essere e il suo correlato Dover(-da)-Essere tant’è che sarà «soltanto l’idea dell’uomo» che «dicendoci perché debbano esserci uomini, ci dice in tal modo anche come essi debbano essere»[3], quanto meno la letteratura, ma anche e soprattutto il pensiero critico, l’effettivo del divenir-filosofia e infine la cinematografia più consapevole, si sono più e più volte interrogati circa questa capitale questione. Ovvero quella della sopravvivenza dell’umano e, correlativamente, della sua (eventuale) necessità, necessitazione e incontrovertibilità in un orizzonte di sempre più tangibile e frenetica trazione tanatica.

In fondo si potrebbe azzardare persino che questo, sin dalle sue origini, sia stato il problema filosofico per eccellenza tanto da poter essere inquadrato alla stregua di autentico filo rosso, nucleo speculativo – ovviamente soggetto a virate e rimodulazioni di vario tipo nell’arco della vicenda, storica, della filosofia stessa – d’ogni cimento del da-far-pensiero e del fluido e senza soluzione di continuità divenir-pensiero.

Anzi, e finanche, il tentativo dello scioglimento del grumo legato alla necessità, necessitazione e incontrovertibilità di ànthropos è stato l’assillo di philosophìa che, dunque, sotto questo profilo, sin dal suo originarsi, s’è resa fluire del da-pensare; giammai stucchevole sapere e/o amore del sapere bensì, e propriamente, autentica manìa, ossessione e inquietudine, assillo e avidità per e di ànthropos.

Tuttavia, come è ovvio, su questo in qualche modo si tornerà nel prosieguo. Allo stato può certamente essere stimolante registrare, sulla scorta del sempre riavviantesi ansiogeno tema «sicurezza esistenziale» quale veicolo speculativo ulteriore (e aggiornato?) segnatamente alla richiesta/rivendicazione di necessità, necessitazione e incontrovertibilità in seno alla tradizione occidentale anche del post-catastrofe bellica e irrelato tormento atomico – ma, in egual metro e con peso (emotivo?) più o meno inalterato, rapportato a un ieri più vicino e che è sempre oggi, del post-tragedia 09/11/01 o, finanche, in un domani che è già adesso, del pre-(e-post) fatalità 21/12/2012 – alcune delle modalità di affrontamento e trattazione da parte della Settima Arte.

Una registrazione, però, nell’ottica di deleuziana memoria, in ordine alla quale la relazione con la filosofia, con philosophìa quale divenir-pensiero, è già in premessa istituito. Giacché detto nesso affonda in un profondo in cui e da cui se il loro interfacciarsi «è quello dell’immagine e del concetto» e se, indubitabilmente, «c’è nel concetto anche un rapporto con l’immagine e nell’immagine un rapporto col concetto» tanto che, in maniera più o meno riuscita, «il cinema ha sempre voluto costruire un’immagine del pensiero, dei meccanismi del pensiero»[4], si istituisce nell’immediato un’intimità che è davvero cifra scardinatrice nei termini di immagini-concetto e concetti-immagine che fanno le rappresentazioni non solo attuali, ma anche avvenute e da-venire, del mondo.

Del nostro mondo nell’ottica performatrice e sempre ricreatrice/distruttrice della persistenza quale PER-esistenza di noi cittadini dell’Occidente.

E qui, allora, il perché del cinema. Giacché il cinema è stato – e continua a essere –, al pari di altri generi dell’umano esprimersi, modo dell’agire di quell’essere vivente che prova a darsi un senso e un significato dando un senso e un significato (e, quindi, conoscendo) al mondo esterno, al dimorare qui e ora di ànthropos. Modo dell’agire quale «grande occhio» su questo medesimo abitare di ànthropos nel solco di una specificità che è trama istitutivo-costitutiva dell’incessante racconto-riproduzione-visione sul dimorare.

Un racconto-riproduzione-visione sullo stare che rintraccia un ulteriore livello di sua peculiarità nel fatto che il cinema rende visibili calchi, maschere, forme, profili, angolazioni e linee che, di volta in volta, non solo fedelmente riproducono lo stato dell’attuale dimorare ma, anche, aprono all’eventualità del dimorare a-venire, da-venire.

Inoltre, pur sempre nell’identitario incavo di significazione che si instaura tra divenir-filosofia e cinema quale, dunque, divenir-cinema, la peculiarità e specificità, l’unicità della Settima Arte che è stata ed è ancora quella di riuscire a smuovere dalla solitudine-indolenza che attanaglia e che spinge a seguire – e proprio in senso letterale – «storie» nel “ruolo” di aderenti allo svolgimento. Perché proprio partecipi del loro stesso svolgimento. E ciò, in fondo e principalmente, poiché il divenir-cinema è sì una sorta di immenso schermo-vetrata attraverso cui sentiamo scorrere la realtà nel suo realizzarsi. E pur tuttavia non nei banali e scontati termini di una barriera protettiva e distanziatrice, bensì proprio nell’accezione di una soglia trasparente, oltrepassabile, che consente un’immersione costante nel flusso cangiante e fascinoso del dimorare qui.

Ora e in elaborazione.

Un’immersione che – come è il caso proprio del divenir-filosofia – postula una sola cosa: che avvenga sotto l’egida del lògos dell’organo proprio del cinema, l’occhio prospettico e prospettivistico, ossia del/nel costruirsi in immagine e nell’immagine. Sotto questo profilo, divenir-cinema e divenir-filosofia presentano idiomi espressivo-narrativi e decodoficativi che sono di per sé già proposta che concretizza e incarna un registro interpretativo del mondo e sul mondo; un registro che fa leva e perno su immagini e concetti che si interscambiano in un gioco inscindibile di elaborazioni e rielaborazioni continue.

Elaborazioni e rielaborazioni continue, nei termini del montaggio-smontaggio-rimontaggio, anche per quel che attiene apokálupsis, cioè di quella separazione, smembramento (apó) dal velare e dall’occultare (kalúptein) che in radice compone, facendola essere, Apocalisse.

Svelare, quindi, un occultare, un secretare, un coprire dal suo stesso avvolgere (kalúptein). Svelare un occultato, kaluptòn, da tener segreto, che si deve – e s’è dovuto – coprire (kaluptèon).

Un “gettar via il coprente” che dice di una s-coperta. Di uno scoprirsi rivelante di quel che «presto deve accadere» (Ap., 1, 3).

E per questo ...

In un lungometraggio del 1991, Bis ans Ende der Welt – un montato, nella sua versione finale (1992) di quasi cinque ore –, il celebre regista tedesco Wim Wenders ha narrato le vicende di un certo Sam Faber il quale, in giro per il mondo tra Venezia, Parigi, Berlino, Lisbona, Mosca, Tokyo, San Francisco e il deserto australiano, con l’inseparabile e del tutto peculiare videocamera a casco registra, riproduce e rivede, ossessivamente, immagini di familiari, amici, luoghi del passato e del presente. Si scopre che le registrazioni di Sam servono per la madre, non vedente dall’età di cinque anni. Difatti il Professor Henry Faber, padre di Sam e noto scienziato scomparso al mondo già da molti anni, ha messo a punto, nei suoi laboratori sperduti nel cuore dell’Australia, tra gli a-tecnici (e fuor dal tempo, dal nostro tempo) aborigeni, un avveniristico sistema computerizzato in grado di registrare e decostruire il processo biochimico della vista e consentire, operando dunque il procedimento inverso – cioè trasformare le immagini (e correlativamente i concetti) in svolgimento biochimico –, alla moglie cieca di visualizzare a livello neuronale i fotogrammi/concettogrammi montati e immagazzinati in giro per il mondo dal figlio Sam. Vedere impresso, cioè, sui propri neuroni, il precipitato ultimo del processo biochimico (ed emotivo, si scoprirà anche) che ha fatto l’immagine al momento della registrazione: ecco il perché della videocamera a casco del tutto particolare, in quanto è essa che in prima battuta cattura l’immagine così come è vista (sentita e concepita, ovvero concettualizzata) da chi opera la registrazione. Tale apparecchio, inoltre, proprio perché scava più in profondità rispetto alla resa retinica che apparentemente sostiene il percepire/percepito visivo, è in grado di rappresentare per immagini anche i sogni, i ricordi, l’intera attività cerebrale dell’individuo cui è applicato. Una sorta di estroflessione del profondo, di un profondo che sottende la visione e, anche, i modi stessi del vedere. Una estroflessione dell’inconscio e, anche e al contempo, della complessissima attività del produr pensiero. In tutto e per tutto, se si vuole, nel suo senso più esteso, una macchina per attingere alla/nella scaturigine di concetti-immagine e immagini-concetto.

Ma la vera svolta narrativa, da cui poi il prestigio dell’orrorifico e cupissimo che progressivamente il macchinico riproduce ed espone spietatamente e senza soluzione di continuità, consiste nell’incombente tragico.

In un tutt’altro che fantascientifico 1999 immaginato da Wenders già verso la fine degli anni ’70 (cioè quando di fatto ha iniziato a lavorare alla scenografia e alle location del film[5]), dunque all’alba del capodanno del passaggio di millennio, il mondo è minacciato da un pericolo prossimo, finanche imminente, e dalla portata distruttiva: un satellite indiano in orbita attorno alla terra, infatti, è impazzito e, persa la sua traiettoria gravitazionale programmata, fa rotta proprio sul pianeta dell’uomo. In particolar modo, negli ultimi giorni del dicembre 1999 dovrebbe schiantarsi nel Sud della Francia provocando, in ragione dell’impatto rovinoso, paragonabile a quello di meteoriti nel Golfo del Messico da cui (probabilmente) l’estinzione dei dinosauri al termine del Cretaceo oltre 65 milioni di anni fa, un effetto esplosivo a catena tale da mettere a repentaglio la permanenza di ogni specie vivente e, quindi, anche quella del genere umano che, in ultima analisi, sarebbe a serio rischio di definitiva cancellazione.

Non troppo casualmente, sempre e di nuovo, il termine computazionale di un anno solare e, nella fattispecie addirittura di un millennio, quasi a voler dire che fine ed estinzione sono, in ultima analisi e semplicemente, impossibilità di un nuovo giorno, di un nuovo anno, l’elementare cesura di una ripetitività e, indi, di una effettività a un permanere che al più (ma di poco) eccede le meschine e banali vicende del quotidiano. Come che sia (e così semplicemente non sarà), l’estroflessione dell’inconscio di cui prima, non può non fare i conti con questa angoscia tangibile, imminente, reale perché in realizzazione.

Di là, tuttavia, dalla complessità della trama che in un lungometraggio così ricco e dai tempi narrativi tanto dilatati (sebbene la vicenda in sé copra solo alcune settimane) è caratteristica quasi scontata, forse vale la pena analizzare due elementi, irrelati, posti in evidenza da Wenders nell’arco della sua narrazione. Alla fine, la traiettoria del satellite è in qualche modo – e non si sa come – deviata, per cui i viventi (e gli uomini) di questo pianeta sono risparmiati; i sogni e la complessiva attività psichica dei soggetti che utilizzano la macchina del Professor Faber mettono sempre più in chiaro, appunto in questa estroflessione del profondo e dei relativi concetti-immagine e immagini-concetto e del loro stesso scaturire, un vero e proprio nucleo liquido di angoscia e terrore sconfinati che di gran lunga eccede l’incombente tragico scampato. Eccedenza che svela il kaluptòn, l’occultato kaluptèon, da tener segreto.

Angoscia e terrore del kaluptòn, allora, che è il kaluptòn.

Kaluptòn quale fine del mondo?

Con tutta evidenza l’occultato da tener segreto si maschera dietro la paura e finanche l’orrore della fine del mondo, per la fine del mondo.

Il filmare direziona verso un oltre, un eccedente, appunto. Eccedenza che è, più intimamente ancora, angoscia e terrore per la [propria] fine quale radicale annullamento. Un finire ritornante e che da sempre incalza ma che ora, in un presente che sembra presentificarsi in un annuncio senza presenza, slatentizza l’incubo di una forma di consumazione ab origine repressa e soffocata.

 

  1. Idolo al crepuscolo

Evocazione quindi, quella operata da Wenders, di un profondo gorgo che viene presentato ed esibito: l’abisso dell’assoluta assenza da cui proveniamo.

Qui il kaluptòn che necessita kaluptèon, d’esser tenuto segreto.

Ma qui, anche, l’individuazione di un doppio bipolare significativo: che quello del crepuscolo è un idolo che camuffa – la effettiva (e mai realizzata) fine del mondo è solo specchio per le allodole. E che questo camuffare è proprio l’agito di un Idolo – è l’Idolo che, camuffando l’angoscia profonda, elabora una fine che non consuma e non si consuma, giacché non può davvero consumare.

Quale, allora, l’Idolo che camuffa kaluptòn nella evocazione (che è quindi complementare, ogni volta, invocazione) del crepuscolo?

Conviene, per giungere a cogliere la trama strutturale che fa l’Idolo perché è l’Idolo, ancora appianare alcune delle ulteriori concrezioni topologiche e omeomorfie “riarruolate” da Wenders ai fini anche di un loro corretto riposizionamento e relativizzazione. Dacché Bis ans Ende der Welt è, come sovente accade al divenir-cinema e al divenir-filosofia quando incrociano e lavorano su questo multistrato vischioso in cui e per cui kaluptòn, lungometraggio in qualche modo premonitore, e la premonizione è nient’altro che il precipitato di un necessitato che è e fa l’Idolo nella sua fittissima tessitura favolistica. E cioè: se si pensa a quegli snodi, a cavallo tra XX e XXI secolo, che hanno concretamente fatto e piegato, fanno e piegano, l’auto-narrazione dell’Occidente sino alle vicende ultime che, si potrebbe aggiungere, presentano vivido il contrassegno di una crisi politico-economica di sistema d’assieme (come anche l’effettivo concreto di uno-star-insieme nei suoi modi e significati) tale da alimentare – ove mai ve ne fosse stato bisogno dopo il terrore per attentati suicidi altri e sempre anche da venire – un surplus di afflizione, un sovrappiù d’evocazione(-invocazione) d’insicurezza, quindi, a partire dalla certezza di un abisso prossimo venturo e che tuttavia è sempre più prossimo giacché s’approssima e che mai si compie, non è possibile non individuare un eterno tematico che si ripete.

Ripetitività, però, che slancia a-venire, che serve a slanciare a-venire e futuro.

Da ciò, tuttavia, i motivi per i quali Bis ans Ende der Welt è, solo per certi versi, opera collocabile in quella sorta di solco fatalistico (e perché no, all’un tempo, sobriamente terrorizzante ed esorcistico) che ha sovente contraddistinto i passaggi di epoche o quelli che s’è percepito essere, in situazione, transiti di fase storica: escatologia, messianismo, profezie apocalittiche varie, hanno accompagnato (e, in maniera più o meno consapevole, accompagnano) le nostre forme e modalità auto-narrative di uomini dell’Occidente, in un’ottica meramente funzionale a slanciare e rilanciare a-venire e un futuro.

E questo perché, di là anche dall’eventualità di un rintracciabile catastrofismo, per dir così, terapeutico, è lungometraggio che nel ridire ancora di una fine scongiurata, comunque lascia aperta la faglia del kaluptòn giacché, almeno per un po’, indugiano, nella sfumatura senza parole della conclusione, le registrazioni degli incubi e dell’angoscia profonda di quelli che, in un loop regressivo intimissimo, attendevano la Fine quale crittogramma dell’Inizio. Dell’Inizio quale abisso dell’assoluta assenza da cui si proviene.

È dunque possibile concludere che Wenders, in questo scenario apocalittico, nelle vesti di vero e proprio narratore dell’Apocalisse quale necessaria legatura di trauma, del trauma del passaggio, del dolorosissimo transito dall’a-essere al funzionale-artificiale essere (e con esso l’irrelata costante logica del non-essere), abbia esteriorizzato non la paura di una fine, della fine, bensì l’orrore di un iniziare, lambendo il tragico dell’abisso dell’assoluta assenza da cui proveniamo e che alberga tragicamente ànthropos.

Operazione complessiva raggiunta per il tramite dell’esposizione di un’angoscia che si proietta (e proietta) in un presagio, in un pre-sentire appunto strutturato: il mondo, il mio mondo quale spazio di una familiarità e familiarizzazione sempre più spinta in conseguenza di progressivi e quanto mai affinatissimi processi di reificazione, nominazione e uso è, nonostante tutto, un modello di cartapesta sempre sotto minaccia estinzione perché io, in fondo e al fondo, sotto l’esile scorza di una costumatezza posticcia, sono già estinto. E rispetto a ciò, al cospetto del kaluptòn che si scopre emergendo, non val nulla, perché a nulla vale, qualsivoglia affanno protettivo e predittivo.

È in questa chiave che deve essere assunto un ulteriore significativo tema toccato, in ordine al quale la minaccia della fine del mondo è il frutto e il portato proprio dell’affanno protettivo e predittivo di ànthropos. Il congegno artificiale, per definizione estraneo all’orizzonte di ciò che è dato originariamente, risultato ultimo della nostra consapevole attività inventiva e realizzattiva, di reificazione, del e sul presunto primordiale ai fini di un surplus di sopravvivenza e sicurezza, è solo indice neutro e casuale, che non cede e non si consegna al logoro meccanismo colpa-giusta punizione per un eccesso di manipolazione sul pre-esistente.

E pur tuttavia, Wenders ci dice che la minaccia dell’estinzione, di una radicale consumazione e assenza che, proprio perché attiene tutti al punto da non configurarsi più alcun a-venire e alcun futuro per ànthropos, è il portato, primo e ultimo, dell’agire di ànthropos stesso.

Ma in che senso?

È qui l’ulteriore inflessione per stringere segnatamente all’Idolo, giacché il “sospetto” banalizzante limitatamente a una postura anti-tecnica e cedevole a un vetero creazionismo di maniera del regista, consente aprire allo sfondo complessivo, anche nei termini del lògos, ove si colloca il narrare, il léghein stesso.

La «storia visiva» che Sam Faber tenta di ricostruire lungo quasi tutto l’arco del film è, fuor di metafora, la storia dell’Occidente, il farsi storia, nel suo continuo ripromettersi, di ànthropos. Di quell’ànthropos che abita, da oltre duemilacinquecento anni, l’ideale Heimat che va da Efeso ed Elea a New York. Una storia, un farsi storia nell’a-venire promettendosi-ripromettendosi di tormenti e tragedie incarnate da uomini, da individui, al fine di occultare l’orrore sottostante a questo – e a ogni altra forma possibile e praticabile – realizzarsi.

L’orrore sottostante che si perde, facendolo, nel kalúptein, nell’avvolgere-occultare stesso.

Orrore sottostante kaluptèon.

Orrore da tener segreto.

Orrore dell’assenza da cui proveniamo e verso cui procediamo e che ci avvolge nell’occultamento.

 

  1. Crepuscolo

L’orrore dell’assenza è proprio terrore e incubo d’esser strappati via e fuori radicalmente non tanto (e solo) dall’esistente che dunque sono, ma dall’esistere quale possibilità di ogni possibilizzazione nel suo insieme. Ossessione ancestrale, primitiva, che giace (e continua a giacere) al fondo profondissimo di qualsiasi successiva e subentrante nascita e rinascita di coscienza e che manifesta, manifestandosi, un oscuro insondabile. Abisso che è illimitato (e invincibile comunque) thâuma per un’assenza che non è solo la “mia assenza” concreta, ma un’assenza che, proprio transitando per la certezza della “mia concreta assenza” da venire, si estroflette sino a universalizzarsi.

Orrore dell’inesistenza, di una separazione radicale che tutto fa dileguare; ingresso nel margine dell’indicibile, in un cono d’ombra, tenebra immensa, in cui e per cui qualsiasi-cosa (e un noi) svanisce.

Accesso alle profondità di un neutro incommensurabile che tutto neutralizza; scorrere anonimo che non contempla in sé e per sé ni-ente-d’altro adveniente. Vuoto assoluto. Vuoto irredimibile.

Un orrore sottostante che ha sigillato segretezza per il tramite dell’Idolo di Metafisica come Struttura, di quell’effusivo e diffusivo, che tutto reticola e ingabbia in vista del Tutto e dell’Uno (organico). Organismo chiuso e totale che s’eleva a Insieme Logico [Insieme dal Lògos, Insieme del Lògos] e che rintraccia sempre la sua legittimità in un oltre, metá ta physicà, che necessita. Inganno e raggiro di un a-priori artefatto che apre, ha aperto, a strutturazioni fisse, durature e plurime che hanno preteso consolare e risollevare dagli spasmi e dallo smarrimento per l’incerto e l’ignoto, dall’orrore costitutivo di un estinguersi permanente. In permanenza.

Auto-(super-)fetazione in cui non è possibile, perché inconcepibile nel Lògos, l’estinzione dell’umano nel suo insieme che, anzi, in Struttura e per Struttura, doppiamente si conferma rispetto ai propri stessi processi di reificazione, nominazione e uso. Sia nell’ordine della garanzia della correttezza strategica complessa e complessiva; sia nei termini in cui e per cui l’impatto atterrito al cospetto del fenomenico ignoto, non è fine a se stesso e senza speranza ma, anzi, addirittura ascrivibile (dacché già inscritto) in un circolo in cui, per quanto s’abbia a perire e da perire, un resto, il resto, permane e permarrà ad infinitum, sino alla frontiera significante (e ancor più consolatoria) di un Tutto che ritornerà così come è ora o di un Tutto che ascenderà e vedrà salvezza in Eterno.

Idolo del lenitivo che ambisce alla segregazione del kaluptòn nei termini di un progressivo adveniente che funzionalmente passa per l’evocazione-invocazione di un finire che contempla sempre la rassicurazione del ritorno e che tutto chiude da sé e in sé.

Anche la fine di un mondo, appunto.

Progressivo di un adveniente che promettendo implica già, doverosamente, ripromessa. Ripromessa che è il portato del pharmakon, di quel che «sopraggiungendo sempre dal di fuori, agendo come il fuori stesso», non avendo in conio [letteralmente] «virtù proprie e definibili»[6], impone, dis-ponendola, unità-totalità rincuorante e, dunque, sostenente.

«Padronanza filosofica e dialettica dei pharmaka», ripetizione generale per dominare, per soffocare il rumore [del kaluptòn]: riapertura costante del «sipario al mattino dell’Occidente»[7].

È, dunque, nei termini di Metafisica come Struttura, la fine del mondo, la fine di un mondo, sempre e solo evocazione-invocazione che rilancia promessa d’avvenire, futuro necessario dacché necessitato.

Artefazione quale autentica artefalsificazione che però nulla sa e, in fondo, nulla sa (può) dire segnatamente alla necessità d’ànthropos a-venire se non giustapponendola, in un premettere che è già un concludere riavviante del Chiuso.

Ma qui, da qui solo, anche l’individuazione di una genuina, e tragica, possibilità della Promessa. Di un autentico Promettere che, necessariamente instabile e, in esito, assolutamente non stabilizzante nella sua transitorietà di necessitazione, non solo impone di superare qualsivoglia dover-da-essere ascritto perché inscritto quale cifra distintiva di ànthropos. Ma che anche, nonostante tutto, prescrive trasfigurare ogni fasulla e posticcia necessità e (finanche) incontrovertibilità di permanenza proprio in un’occorrenza di trazione tanatica che sia abile a ridire, con scarto di gradazione decisamente più accentuato, il farsi consapevolezza del costitutivo estinguersi che, solo, può spingere ad attuare e realizzare a-venire senza pensar-futuro.

È qui che, con buona pace anche degli odierni Profeti dell’Apocalisse, l’ingannevole relativamente alla domanda sulla necessità, necessitazione e incontrovertibilità di ànthropos, letteralmente vaporizza. Quell’ingannevole presente in ogni modulare rispondere al doppio sequenziale domandare “perché-qui-ora?” e “perché-qui-domani?”, di cui philosophìa sa da sempre.

Perché sa, da sempre, della presunzione della risposta.

Di un presumere che, almeno in origine, di contro al Mito, philosophìa ha inteso relativizzare sin quasi alle soglie di una feroce diffidenza/indifferenza allorquando ha costruito sé sulla durissima consapevolezza che «la conoscenza certa nessun uomo mai ebbe, né alcuno l’avrà mai sugli dèi e su tutte le cose che dico: se, infatti, a uno accadesse di dire qualcosa in maniera compiuta non lo saprebbe lui stesso, ma a tutti è dato soltanto ritener per vero»[8]. E cioè da quando philosophìa ha costruito sé non sul meccanismo domanda-risposta, bensì su quello più impegnativo e logorante del domandare-rispondere-ridomandare, in cui l’apertura dell’interrogare medesimo impone, ogni volta, un perdere e un perdersi. Un perdere lo stazionario e appagante della risposta. Un perdersi incessante che implica, anzitutto e per lo più, perdite d’ànthropos stesso.

Perdite continue di ànthropos che hanno aperto (e aprirebbero nuovamente) però, nella loro funzionalità inscritta, ad acquisizioni altre per ànthropos a-venire, per ancora-ànthropos. Configurazione di Promessa autentica che è (di nuovo e sempre daccapo) dire-ànthropos: lògos d’ànthropos su ànthropos e per ànthropos.

Un antropo-fare che nello spazio e nel tempo, e solo nello spazio e nel tempo, aprirebbe l’adveniente nel lògos e per mezzo del lògos.

Un lògos sorgente da un sentire intenso e abissale del/sul gorgo sottostante e che, ovviamente, non significherebbe (e di nuovo) diritto di visione del gorgo stesso, del misterico estremo. Dacché di un tal diritto solo Metafisica come Struttura ha osato e abusato agendo Visione e Visto alla stregua di panacea.

Questo misterico dell’assenza, dolorosissimo, rimane voragine, ma voragine in esposizione da cui, di nuovo, il lògos. Ma lògos non salvifico, ma abile a sostenere nella insostenibilità. Lògos che sosterrebbe, rintracciando (ancora) nella “grammatica dell’essere” esclusivamente congegno edificativo, solo al cospetto della insostenibile pesantezza dell’a-essere.

Prospettiva dell’adveniente che nel lògos e dal lògos, in/da questo lògos sciolto da assolutezze, proprio nell’esponente non più occultato terrebbe aperta, senza soluzione di continuità, la fabbrica del domandare nei modi del concetto e dei concettogrammi e, indi, della Promessa quale dire-detto della costante transizione-a e, di conseguenza, di un persistente accesso-a ànthropos.

Transitare e accedere, immaginare e concettualizzare [ànthropos] a-venire.

A pensar bene e in fondo, l’anticipazione di quel che proprio la fine del mondo potrebbe svelarci, e cioè che «la biosfera può benissimo fare a meno della presenza contingente di un bipede invasivo»[9].

E se la fine del mondo davvero arrivasse?

Beh, una volta tanto, proprio perché non ci sarebbe più ànthropos, finanche un ànthropos in grado realizzare a-venire senza pensar-futuro, il “fino alla fine del mondo” senza ritorno, senza, quindi, riavvolgimento, rivolgimento e (ri-)svolgimento di lògoi consolatori e ricompositivi, effettivamente e con sollievo, «nella moltitudine di quel che avremmo potuto essere e non siamo»[10], sarebbe [finalmente] lecito né gioire né affliggersi.

 


[1] A. Weisman, Il mondo senza di noi (2007), tr. it. Einaudi, Torino 2008, pp. 5-6.

[2] H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979), tr. it. Einaudi, Torino 1990, p. 35.

[3] Ibid., p. 54.

[4] G. Deleuze, Pourparler (1972-1990), tr. it. Quodlibet, Macerata 2000, p. 90.

[5] «Non ho mai inseguito un progetto per un arco di tempo così lungo. Ho iniziato a lavorarci nel 1977 durante il mio primo viaggio in Australia», W. Wenders in Wim Wenders, tr. it. Edizioni Il Castoro, Milano 2007, p. 261.

[6] J. Derrida, La farmacia di Platone (1972), tr. it. Jaca Book, Milano 20072, p. 93.

[7] Ibid., p. 165.

[8] DK 21 B 34.

[9] T. Pievani, La fine del mondo. Guida per apocalittici perplessi, Il Mulino, Bologna 2012, p. 14.

[10] Ibid., p. 166.

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