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Salute individuale e pubblica. Una questione strategica di filosofia della salute

Autore


Fiorella Battaglia

Berlin-Brandeburg Academy of Sciences and Humanities

Assegnista di ricerca in Filosofia

Indice


  1. Causa e fattore di rischio  
  2. Ecoepidemiologia
  3. Patrimonio genetico e costituzione genetica: una complessità crescente 
  4. Salute “equa”

 

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S&F_n. 02_2009

     


1. Causa e fattore di rischio

  1. Quando si vogliono analizzare i rapporti tra territorio, ambiente e salute è opportuno soffermarsi a riflettere sugli aspetti caratterizzanti la condizione che definiamo di salute e, in particolare, su quelli che rendono possibile articolare una differenza tra la sua dimensione individuale e quella pubblica.

    In questa mia riflessione cercherò di chiarire le implicazioni etico-politiche che discendono dal privilegiare un modello di salute piuttosto che un altro. Per far questo, in un primo passo introdurrò il concetto di “fattore di rischio” (FR), nel secondo passo tenterò di valutare le novità apportate dagli studi genetici, per mostrare come questi non smentiscono la rilevanza del rapporto tra ambiente e salute, ma semmai forniscono nuovi elementi per meglio comprenderne la natura. Traccerò infine a brevi linee il profilo dell’epidemiologia ambientale per fare riferimento a un possibile e concreto scenario teorico, dove le istanze di equità possano trovare la loro giusta collocazione. Mio intento è mostrare come una comprensione della salute confinata a mera salute individuale, i cui programmi di prevenzione e di promozione si basano esclusivamente su un concetto di salute individuale e conseguentemente sul controllo dei fattori di rischio, mostra la corda, in quanto, non tenendo in considerazione le cause sociali e il contesto ambientale in cui si sviluppano le malattie, non riesce ad assumersi il compito di tener conto delle disuguaglianze per compiere azioni in grado di ristabilire l’equità.

    Con l’espressione “fattore di rischio” si intende un fattore causale o potenzialmente causale di una malattia, o meglio, con una definizione più circostanziata, un aspetto del comportamento o dello stile di vita personale, un’esposizione ambientale, una caratteristica ereditata o acquisita, che sulla base dell’evidenza epidemiologica, viene riconosciuta essere associata a una condizione (negativa) ritenuta significativa e quindi considerata da prevenire[1].

    Come si vede il concetto di “fattore di rischio” introduce un’ulteriore modalità rispetto al concetto di causa per analizzare il nesso tra eventi, uno dei quali è considerato portatore di malattia. A differenza dell’“eziologia”, e cioè dell’insieme delle cause della malattia, quando si parla di fattori di rischio si intende un’accezione ampia dell’associazione con la malattia, non direttamente causale. L’epistemologia del concetto di causa[2] è radicalmente cambiata con il mutamento intervenuto nelle malattie. Il virus dell’HIV e l’ulcera peptica, scelti esemplarmente per rappresentare le patologie infettive e quelle croniche, fanno vacillare la distinzione stessa rispetto al concetto di causa implicato dalla teoria del germe, che ha contraddistinto il lungo periodo di studio sulle malattie infettive. Infatti, con l’evoluzione dalle malattie infettive monocausali a quelle cronico-degenerative multifattoriali, il concetto di causa è passato da un approccio deterministico, la causa come condizione necessaria e sufficiente, del postulato di Koch, a uno probabilistico, dove non sempre la causa produce l’effetto e non sempre in occasione dell’effetto è presente quella causa.

    Anche se le prime tracce storiche di un approccio alla malattia nel segno della ricerca di potenziali fattori di rischio possono essere fatte risalire addirittura a Ippocrate di Cos (460-370 a.C.), artefice di osservazioni cliniche pianificate di molte malattie diffuse nella popolazione, come per esempio il tetano, la setticemia gravidica e la parotite, e di osservazioni dei rischi ambientali associati alle malattie, specialmente infettive, in realtà l’espressione “fattore di rischio” è stata introdotta relativamente di recente dai ricercatori del Framingham study nel 1961[3]. Da allora, con l’ausilio della metodologia epidemiologica, gli studi sui FR si sono moltiplicati in tutti i campi della medicina, producendo risultati più positivi in alcuni di essi – ad esempio, malattie dell’apparato respiratorio, cardiovascolari e disturbi mentali; più problematici in altri – ad esempio, nel caso dei tumori. Di recente, una revisione delle conoscenze a livello individuale sui FR ha contribuito a una forte crescita della critica verso la cosiddetta epidemiologia dei FR.

    Le critiche sono soprattutto rivolte verso gli studi epidemiologici, che hanno prodotto una moltitudine di stime di rischi associati a FR, senza misurarsi con il compito altrettanto importante di produrre le relative proposte operative di sanità pubblica in termini di prevenzione, pianificazione degli interventi e organizzazione dei servizi. Come sovente accade, il dibattito si è polarizzato in due posizioni, pro o contro l’epidemiologia dei FR. Una tale radicalizzazione non rende conto adeguatamente della complessità della situazione. Sebbene la posizione di coloro che sono critici nei confronti dei FR sia più simpatica, per i suoi immediati richiami alla dimensione collettiva, occorre precisare che sono possibili potenziali errori, in quanto la loro posizione non è esente dal pericolo di sottostimare le conoscenze sugli effetti sanitari di fattori comportamentali e stili di vita acquisite dalla ricerca degli ultimi decenni.

    Il dibattito è oltre modo interessante in quanto, come efficacemente argomentato da Geoffrey Rose[4], evidenzia la necessità di non perdere un riferimento chiave per affrontare il problema dei FR: un fattore di rischio è un concetto probabilistico che attiene a un aggregato di individui e non, immediatamente, al livello individuale. In quegli stessi anni anche Paolo Vineis ha attirato l’attenzione sulla dimensione degli studi epidemiologici. Vineis spiega in particolare che l’epidemiologia ha introdotto l’idea della malattia come fenomeno dotato di una sua frequenza, sottolineando come si sia passati dal poter rispondere alla domanda «quante persone si ammalano?» alla più difficile richiesta di specificare «quali persone si ammalano (o possono ammalarsi)?»[5]. Ancora largamente inesaudito rimane l’interrogativo della singola persona che vuol sapere se si ammalerà o no.

    Coinvolta non è solo la riflessione nell’ambito della filosofia della scienza, in cui si pone il problema di distinguere tra livello individuale, di gruppi e di popolazioni; se tale riflessione viene estesa fino all’ambito comunitario, essa infatti diventa quanto mai di attualità nella nostra realtà sociale, in cui la crescita di autonomia e di libertà personali si accompagnano a individualismo crescente, con il risultato di una profonda modificazione che pervade tutti gli ambiti, da quello culturale a quello sociale a quello economico. È necessario perciò riflettere sul modello etico-politico che si vuole adottare, perché da questa scelta dipendono la struttura e le funzioni del sistema sanitario in generale e le azioni di promozione della salute più in particolare, in quanto l’accentuazione dell’individualità catalizza, o rischia di catalizzare, una maggiore attenzione sulle scelte mirate a cambiamenti personali (per esempio di comportamento o di stili di vita) a sfavore di una strategia incentrata su interventi preventivi e di medicina comunitaria[6]. Questo scenario risulta ancor più plausibile

     se si riflette sul fatto che è molto più facile “proporre” campagne di prevenzione individuale rispetto alle difficoltà connesse con le azioni collettive, che spesso si devono assumere anche il compito di comporre interessi contrapposti[7].

    Oggi, tramite molteplici fonti informative a disposizione di una larga parte della popolazione, dal medico di base ai media, dalle riviste scientifiche divulgative alle risorse di internet, esiste una realistica possibilità di assumere informazioni sul proprio rischio individuale per le principali malattie, e tra queste quelle cardiovascolari, quelle cioè a più elevata frequenza e gravità, utilizzando profili definiti sulla base di fattori di rischio.

    Profili e stime previsionali del rischio sono calcolabili per brevi periodi o per l’attesa di vita, sulla base di modelli usualmente semplici, spesso troppo semplici per rappresentare la complessità delle molte variabili che agiscono e interagiscono effettivamente. La tendenza alla “privatizzazione” del rischio[8] rende difficile il trasferimento delle stime quantitative ottenute su grandi numeri in parametri attendibili e di utilità per il singolo, il quale, specialmente quando è posto di fronte alla necessità di decidere, è abituato a una logica dicotomica del tipo danno sì o no, terapia da fare o meno.

    Inoltre ci sono importanti conseguenze rispetto alle strategie di prevenzione che hanno bisogno di modelli di rischio che siano accurati nella predizione per il singolo, ma occorre anche che i FR in oggetto abbiano un buon potere discriminante tra soggetti con e senza la malattia. Sapere che un FR è fortemente associato a una malattia non implica affatto che si possa stabilire quando e perché una malattia si sviluppa a livello individuale, per una duplice incapacità sia di natura statistica (la natura probabilistica dell’associazione FR-malattia) sia di natura epistemologica, che richiede lo sviluppo di modelli integrati non meccanicistici[9]. Poiché la distinzione tra cause di malattie che minacciano la salute, soprattutto considerata come salute individuale, e cause dell’incidenza nella popolazione è la principale discriminante tra medicina clinica e sanità pubblica, esiste una necessità stringente di una strategia efficace nei confronti dei FR tesa ad avvicinare questi due “approcci”, che non possono essere confusi e che devono perciò essere mantenuti separati, ma che hanno necessità di integrarsi l’uno con l’altro. Infatti, se da una parte è evidente che la rimozione o il controllo di FR non si risolve meccanicamente nell’evitare la malattia a livello individuale (con questa strategia si può semmai produrre un contenimento del rischio, peraltro né di facile stima né di facile comunicazione), dall’altra è altrettanto chiaro che il livello individuale ha comunque un ruolo chiave per qualsiasi intervento di prevenzione e più in generale di sanità pubblica. Misure di prevenzione e di educazione sanitaria che agiscono sui FR di molte malattie, a cui l’individuo può essere esposto ogni giorno, possono rappresentare una strada verso il contenimento o il controllo dei FR, ma occorre una strategia integrata, centrata sia sull’ambiente che sul singolo, che eviti di considerare l’individuo come il solo “locus” del rischio, in modo da non addossargli né la “responsabilità” della propria malattia, né quella della relativa riduzione del rischio.

    Una troppo veloce equazione tra FR e causa di malattia in un individuo genera un duplice pericolo: da una parte la creazione di un’aspettativa irrealistica tra il controllo dei FR e il controllo della malattia, e dall’altra la produzione di indifferenza rispetto ai determinanti sociali della malattia, con conseguente diminuzione di attenzione per le potenzialità rappresentate dalle politiche preventive a livello di comunità.

    Ciò che rimane inespresso tuttavia nel paradigma dei “fattori di rischio” è l’ordine di grandezza: la popolazione, i gruppi (quali?), gli individui, il singolo individuo? Già nel 1957 J. N. Morris aveva fatto notare come sia necessario porsi il problema di considerare non solo gli individui ma anche le popolazioni, in quanto i risultati ottenuti dagli studi sugli individui non sono direttamente esportabili ai gruppi di individui. Una popolazione, infatti, è più della somma degli individui. Anche il concetto di individuo, comunque, non rimase esente da una più attenta considerazione; egli fece notare che gli individui agiscono come sistemi complessi, in cui piccoli cambiamenti producono conseguenze rilevanti per la salute in un contesto che dovrebbe essere considerato di “causalità multipla”, in cui uno stimolo non produce una risposta ma partecipa a ristabilire l’equilibrio[10].Le stesse istanze furono poi fatte valere alcuni decenni dopo da Mervyn Susser, che sottolineò come i determinanti di salute individuale e collettiva siano differenti e mise in guardia sia dall’errore di estendere i risultati degli studi individuali alle popolazioni sia dall’errore opposto, di inferire cioè dagli studi di popolazioni conseguenze per la salute individuale. In sintesi, entrambi si fecero sostenitori di una prospettiva integrata che tenesse in considerazione il livello molecolare, individuale, collettivo e di popolazione.

    2. Ecoepidemiologia

  2. Questa prospettiva è stata denominata da Susser “ecologica”. Gli individui non vengono considerati in maniera atomistica e irrelata ma, e questo vale anche per le popolazioni, considerati in quanto facenti parte di una comunità insediata in un territorio. A essere oggetto dello studio sono perciò di volta in volta le diverse dimensioni – culturale, sociale, economica, occupazionale –che contribuiscono alla definizione delle condizioni di salute. A simili conclusioni si è giunti non solo in epidemiologia, ma in diverse discipline nel momento in cui si sono tematizzate le influenze della coesione sociale sullo stato di salute fisico e mentale. Pionieristico è lo studio di Émile Durkheim sul suicidio del 1897[11]. E anche la dissertazione del 1924 di Luis Ferdinand Celine sulla storia del dottor Semmelweis (1818-1865)[12], che scopre che nella clinica universitaria di Vienna non si trasmette conoscenza ma si determina la morte delle puerpere, e drammaticamente paga le conseguenze della sua denuncia, ci insegna a suo modo che la verità sulla malattia non si risolve nei suoi determinanti biomedici.

    Recentemente l’importanza dell’interazione sociale per la salute e il benessere è stata fatta nuovamente oggetto di indagine sia dagli psicologi che dai sociologi. Robert Putnam ha creato la categoria del “capitale sociale” per rendere immediatamente comprensibile il valore dell’interazione sociale. Sebbene la ricerca di Putnam sia condotta sulla società civile americana, le sue categorie fanno tesoro della tradizione civica dei comuni italiani. Altri studi hanno mirato a quantificare i contributi positivi dell’integrazione e del sostegno sociale che «uguagliano per intensità l’apporto nocivo di fattori assodati di rischio biomedico, come il fumo, l’obesità e l’inattività fisica»[13]. Anche per gli psicologi nelle loro ricerche empiriche non si tratta solo di stabilire le influenze positive che il senso di appartenenza a una comunità è in grado di esercitare sul benessere psicologico, sullo stress, e sulla malattia, ma anche di valutare come possedere una prospettiva identitaria sociale sulla salute sia in grado di esercitare un ruolo cruciale nel dare impulso a pratiche di salute e politiche sanitarie[14].

    In ambito epidemiologico è merito di Ezra Susser aver sviluppato riflessioni analoghe che mirano, da una parte, a rendere esplicito il patrimonio storico e culturale dell’epidemiologia che non esita ad annoverare tra le sue risorse anche le lezioni storiche, per imparare dagli eventi avversi del passato a non ripetere i medesimi errori; dall’altra, a un suo rinnovamento soprattutto in posizione critica verso l’enfatizzazione unilaterale della prospettiva dei “fattori di rischio”[15]. In questa ricognizione storica sia John Snow, per quanto riguarda l’infezione di colera, che Joseph Goldberger, per l’epidemia di pellagra, riuscirono a individuare le cause delle malattie sfidando le idee al loro tempo dominanti e considerando allo stesso tempo i cambiamenti avvenuti a livello sociale e biologico che avevano potuto dar luogo all’affezione, il comportamento individuale facilitante e i processi cellulari e molecolari alla base dello scatenamento della patologia.

    La eco-epidemiology ha proprio la capacità di integrare in un unico programma i molteplici indirizzi dell’analisi, di servirsi sia di metodi qualitativi che di quelli quantitativi e di applicarli in modo integrato e non semplicemente giustapposto per indagare le cause di malattia. In definitiva, con il suo programma la eco-epidemiology non si concepisce in discontinuità con l’evoluzione dell’epidemiologia, ma anzi proprio come la continuazione della sua migliore tradizione. Una corretta impostazione dell’epidemiologia prevede quindi una considerazione di tutti i livelli: da quello clinico a quello di popolazione fino a quello sociale, con particolare attenzione verso i gruppi a rischio, senza trascurare che ciascuno di essi gode di caratteristiche proprie che non debbono essere sacrificate a una logica che tende ad appiattirle.

    La eco-epidemiology proposta da M. Susser e E. Susser mostra il volto di una disciplina inquieta, sollecitata dal dibattito culturale e molto attenta a recepire possibili cambiamenti di paradigma. Come la sociologia anche la eco-epidemiology non rinuncia a servirsi della prospettiva storica che volge anche a se stessa per meglio comprendere ciò che è oggi divenuta. Susser ricostruisce una periodizzazione fatta di quattro ere: la prima cosiddetta della statistica sanitaria fino alla prima metà del XIX secolo, in cui dominante è il paradigma del miasma; la seconda delle malattie infettive, in cui vige il paradigma della teoria del germe; la terza delle malattie croniche, il cui paradigma è quello della black box, ovvero un modello in cui non ci si interroga sui meccanismi di patogenesi; e la quarta, quella in cui attualmente ci troviamo, della eco-epidemiology, il cui paradigma, in riferimento allusivo e critico al periodo precedente, è detto delle scatole cinesi, ovvero in cui si indagano relazioni tra strutture molteplici appartenenti a dimensioni diverse:

    L’epoca attuale dell’epidemiologia si sta per chiudere. L’attenzione sui fattori di rischi a livello individuale – il tratto caratterizzante di questo periodo – non sarà più sufficiente. C’è la necessità di cimentarsi sia con modelli causali a livello sociale che con la patogenesi e la etiologia a livello molecolare[16].

    La proposta avanzata è quella di spingersi in un’analisi che da una parte si estenda ad abbracciare contesti differenti, superando confini disciplinari, e dall’altra si spinga in profondità fino a indagare il livello molecolare[17].

  3. 3Patrimonio genetico e costituzione genetica: una complessità crescente

    Con lo straordinario avanzamento delle conoscenze di genetica e biologia molecolare e la diffusione di tecniche di biologia molecolare sempre più sofisticate, sono oggi accessibili strumenti per identificare difetti genetici associati a molte malattie, con un ampio range di “responsabilità” nell’associazione causale: dalla causa diretta alla predisposizione alla malattia (suscettibilità dovuta ai polimorfismi).

    Il tratto ancora una volta comune è che, sia lavorando con lo sguardo clinico sia con quello epidemiologico, si contribuisce a delineare nuovi sottogruppi di individui geneticamente predisposti o sensibili, sollevando problemi medici ed etici circa le possibili implicazioni cliniche che investono il trattamento e le possibili discriminazioni sul piano sociale.

    Volendo provare a render conto di come le valutazioni sul patrimonio genetico influiscano sui FR emerge subito un elemento contraddittorio: i geni sono ereditati e dunque rappresentano FR non modificabili, alla stregua del sesso e dell’età, ma le mutazioni geniche sono fattori del tutto particolari, poiché non sono ineluttabilmente ereditate ma prodotte, e hanno la capacità di interagire tra di loro (interazione gene-gene) e con l’ambiente (interazione gene-ambiente). Proprio per questa natura “interattiva” i polimorfismi sono oggi il motore di uno straordinario interesse nella ricerca, ma anche di una diatriba epistemologica su come vadano considerati, e per le loro ricadute sul versante clinico ed epidemiologico.

    L’entrata in scena dei FR genetici determina la necessità di un crescente sforzo dell’epidemiologia clinica nell’uso di modelli di studio complessi, in grado di considerare adeguatamente e correttamente non solo gli effetti principali dei molteplici FR ma anche, e talvolta sopratutto, le interazioni tra loro.

    Il patrimonio genetico e l’enfasi accordata alla costituzione genetica come determinante prevalente di salute, possono rappresentare un ulteriore argomento per la “privatizzazione” del rischio, in quanto sembrano introdurre elementi che negano i rapporti tra ambiente e salute. Ma una più corretta considerazione e un ridimensionamento del cosiddetto “dogma centrale della biologia”, secondo cui i geni sono i programmatori delle proteine e da queste discenderebbero poi tutte le proprietà degli organismi, conducono all’osservazione che i geni non sono portatori di informazioni; solo all’interno di un contesto, infatti, sono in grado di duplicare se stessi o di dar luogo alla sintesi proteica, di rendere cioè effettive le informazioni. Non vi un flusso di informazioni che va dal gene all’organismo, ma anche l’ambiente, in cui l’organismo vive, produce effetti sul gene influenzandone così l’espressione come hanno iniziato a insegnarci le conoscenze epigenetiche.

    Insomma, come messo in evidenza dalla filosofia della biologia, nel mondo vivente le proprietà emergono dall’organizzazione della materia, dalle relazioni che si instaurano tra le parti e non da queste singolarmente considerate[18]. Nella prospettiva dell’epidemiologia ambientale lo studio e la valutazione dell’ambiente si rivelano funzionali alla comprensione dei meccanismi etiopatogenetici che stanno alla base delle malattie e possono essere considerati come una necessaria integrazione della biologia molecolare. Come affermato da Paolo Vineis in un suo articolo recente, la salute si dimostra essere un tema complicato, più complicato di altri, e occorre confrontarsi con il fatto che la medicina non è una scienza esatta, ma si trova al confine tra scienze della natura e scienze sociali[19].

      4. Salute “equa”

  1. Se nell’epidemiologia il passaggio a una concezione integrata della salute ruota intorno al concetto di fattore di rischio, nell’ambito etico-politico è la configurazione del dibattito intorno al concetto stesso di salute a essere paradigmatico del cambiamento. Il concetto di salute in grado di cogliere e di sopportare tutte le istanze fin qui fatte valere mi sembra possa essere quello proposto da Amartya Sen di “salute equa”. L’argomentazione del premio Nobel per l’economia è la seguente: parlare di equità della salute è diverso dal parlare di equità delle cure. Per una salute equa è necessario elaborare un diverso concetto di salute che parte non dall’equità delle cure, quindi non cure estese ugualmente a tutti, ma cure tali per cui tutti risultano avere uguali probabilità di godere di buona salute. Secondo Amartya Sen la posizione che parte dall’equità della salute è migliore perché ingloba non solo le cure, ma anche fattori come l’accesso a una buona alimentazione, l’epidemiologia sociale, l’inquinamento, le politiche sanitarie, la sicurezza sul lavoro e altre considerazioni. La disciplina epidemiologica nella sua evoluzione mostra insomma di aver recepito sia lo spostamento intervenuto nell’ambito del sapere riguardo alle malattie, sia anche la riflessione avvenuta a livello sociale sull’equità della salute. Non è un caso che al suo interno si sia prodotto un tentativo per assumere le conseguenze di questa transizione e per tradurla in riflessioni e strumenti validi sia per il ricercatore sia per l’assetto stesso della disciplina, anche in vista della formazione dei giovani epidemiologi.


    [1] J. M. Last (ed. by), A Dictionary of Epidemiology, Oxford University Press, New York 20014, p. 218.

    [2] L. Krüger, Kausalität und Freiheit. Ein Beispiel für den Zusammenhang von Metaphysik und Lebenspraxis, in «Kausalität. Neue Hefte für Philosophie», 1992, pp. 1-14.

    [3] W. Kannel, T. Dawber, A. Kagan, N. Revotskie, J. I. Stokes, Factors of risk in the development of coronary heart disease: six-year follow-up experience – the Framingham study, in «Annals of Internal Medicine», 1961, 55, pp. 33-50.

    [4] G. Rose, The Strategy of Preventive Medicine, Oxford University Press, New York 1992.

    [5] P. Vineis, Modelli di rischio, Einaudi, Torino 1990, p. IX.

    [6] J. Nida-Rumelin, Ethische Essays, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2002; Id. (a cura di), Angewandte Ethik. Die Bereichsethiken und ihre theoretische Fundierung. Ein Handbuch, Kröner, Stuttgart 2005.

    [7] D. Mechanic, The social context of health  and disease and choices among health interventions, in A. Brandt, P. Rozin (a cura di), Morality and Health, Routledge, New York 1997, pp. 79-98.

    [8] B. Rockhill, The Privatization of Risk, in «Am J Pub Health», 2001, 91(3), pp. 365-368.

    [9] G. Bateson, Mind and Nature: a Necessary Unit, EP Dutton, New York 1979.

    [10] J. N. Morris, Uses of Epidemiology, Livingstone, Edinburgh 1957.

    [11] È. Durkheim, Sociologia del suicidio, Newton Compton, Roma 1974.

    [12] L.-F. Céline, Il dottor Semmelweis, Adelphi, Milano 2009.

    [13] R. Putnam, Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, Il Mulino, Bologna 2004, p. 398.

    [14] A. Haslam et al., Social Identity, Health and Well-Being: An Emerging Agenda for Applied Psychology, in «Applied Psychology: An International Review», 2009, 58 (1), 1-23. Vedi anche F. Sani et al., Social identity, wellbeing, & health in «Psychology and Health» Volume XX Supplement X, September 2009. Abstracts book “From Knowledge to Interventions” Health Psychology 2009 in Pisa, Italy, 23rd Annual Conference of the European Health Psychology Society.

    [15] D. March e E. Susser, The eco- in eco-epidemiology, in «International Journal of Epidemiology.», 2006; 35:1379-1383. Vedi anche E. Susser, Eco-Epidemiology: Thinking Outside the Black Box, in «Epidemiology», 2004, 15, 5, 519-520.

    [16] M. Susser e E. Susser, Chosing a future for epidemiology: I eras and paradigma in «American Journal of Public Health» (1996), 86, 668-673. Id., Chosing a future for epidemiology: II. From Black Box to Chinese Boxes and Eco-Epidemiology, in «American Journal of Public Health» (1996), 86, 674-677. Vedi anche M. Susser, Causal Thinking in the Health Sciences: Concepts and Strategies of Epidemiology, Oxford University Press, New York 1973. Ed inoltre S. Schwartz, A. V. Diez Roux, E. Susser, Causal explanation outside the black box, in E. Susser, S. Schwartz, A. Morabia, E. Bromet (a cura di), Psychiatric Epidemiology: Searching for the Causes of Mental Disorders, Oxford University Press, New York 2006; D. A. Savitz, In defense of black box epidemiology, in «Epidemiology» 1994;5:550-52; O. S. Miettinen, Theoretical Epidemiology, Wiley, New York 1985.

    [17] F. Battaglia et al., Ethical issues in psychosocial health research. Institutions and social crisis, in «Psychology and Health», cit.

    [18] M. Buiatti, Il benevolo disordine della vita. La diversità dei viventi fra scienza e società, Utet, Torino 2004.

    [19] P. Vineis, Methodological insights: fuzzy sets in medicine, in «Journal of Epidemiology Community Health», 2008, 62, pp. 273-278.

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