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Saper fare come valore di comunità. Per un Fablab diffuso, oltre la retorica del digitale

Autore


Pasquale Napolitano

IRISS/CNR di Napoli

svolge attività di ricerca interdisciplinare in Science and Technology for an Information and Communication Society, Graphics, Vision, Multimedia presso l’Istituto di Ricerca su Innovazione e Servizi per lo Sviluppo IRISS/CNR di Napoli

Indice


  1. Per(ché) un fablab diffuso
  2. Fablab?
  3. Montesanto. L’elasticità della città preindustriale
  4.  Perché un Quartiere-Fablab

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S&F_n. 18_2017

Abstract


To know how as community Value. Towards a diffused Fablab, beyond the digital Rhetoric


A large movement of scientists and citizens ask for Open Access, Open Data, Open Science. Until XVII century, transparency is a fundamental value of modern science. To communicate “all to all” has a great epistemological function in scientific production. But in ourdays open access, open data, open science assume new relevance because the new relations between science and society. People ask for open science and to participate in the processes of democratic knowledge society. Open access to scientific knowledge and open data are a goal of the scientific citizenships. A necessary element to build the and is the base.


  1. Per(ché) un fablab diffuso

La dimensione associativa basata su processi auto-organizzativi ha rappresentato un elemento caratterizzante della storia contemporanea della città di Napoli, espressosi con modalità che ne fanno un unicum a livello nazionale e internazionale[1]. Più precisamente, ne fanno una sorta di laboratorio di innovazione sociale diffuso su scala urbana in cui si sperimentano forme associative e produttive.

A partire dagli anni ‘70 infatti, con l’esperienza della “Mensa dei bambini proletari”[2], parte del movimento politico cittadino si è contraddistinto per un’azione che, abbandonando la dimensione ideologica e partitica tout-court, sposasse una pratica di attivismo più votata alla relazione con i territori e ai bisogni delle comunità[3], facendo di questo stile anche un veicolo di produzione culturale e innovazione sociale; a pochi metri di distanza, negli anni ‘90, il DAMM, mutatis mutandis, si muoverà sulla stessa falsariga, in un periodo storico in cui i bisogni saranno legati molto di più anche a una dimensione simbolica e identitaria.

Figura 1 | Mappatura delle Organizzazioni informali della città di Napoli - Mia elaborazione da: Vittoria, Napolitano (2017)

Figure 1 | Mapping of informal organizations in the city of Naples - My elaboration from: Vittoria, Napolitano (2017)

 

Nell’osservare la fase contemporanea di tale fenomeno, nell’osservare le organizzazioni che lo pongono in essere, emergono alcune caratteristiche meritevoli di considerazione:

- la loro elasticità data dalla scarsa formalizzazione del loro operato e dalla conseguente dinamicità adattiva delle loro capabilities.

- la prossimità fisica tra gli operatori dell’industria culturale e creativa della città e il clima positivo che, in questo caso, ne scaturisce.

- l’importanza delle filiere culturali come vettore trainante dello sviluppo delle comunità, evidenziato dal Report Europeo sul Patrimonio Culturale[4] che sottolinea il rapporto tra sfera culturale e sfera creativa come fattore di mutuo arricchimento, in un circolo virtuoso tra patrimonio ed economia, soprattutto in quei contesti in grado di mettere a valore il patrimonio culturale – quello materiale così come quello intangibile – in chiave appunto di innovazione sociale.

Le industrie creative sono qui intese come volano per la rigenerazione urbana – in virtù della forte concentrazione delle attività nel territorio e dell’importanza delle relazioni personali che legano tra loro le attività economiche[5]; allo stesso modo nel caso napoletano emerge anche la consapevolezza da parte degli operatori di operare in un contesto periferico in termini geografici e linguistici rispetto alle reti culturali globali, tuttavia, proprio in virtù di ciò, questo fenomeno assume dinamiche di matrice neo-tribale[6].

Date tali considerazioni, è possibile evidenziare un aspetto in particolare: il valore aggiunto di questo fenomeno è costituito dalla sua scarsa formalizzazione. Nei casi analizzati, infatti, sempre più spesso pratiche professionali non ancora codificate e forme di rivendicazione sociale entrano in sinergia, spesso mettendo al centro una dimensione operativa, più che analitica, dell’agire sociale.

Questo aspetto porta con sé quello che è un caso paradigmatico di effetto welfare[7], una dinamica sociale che vede la delega all’iniziativa privata della risoluzione di problemi sociali complessi, che normalmente necessiterebbero di una presa in carico da parte delle istituzioni: il singolo che si fa stato, negli ambiti più disparati: nel fornire un’offerta culturale da città europea, nel recuperare spazi per la fruizione comunitaria, sociale o abitativa.

Parliamo in ultima analisi di una forma alternativa al welfare tout court, attraverso le formule organizzative più legate alle specificità territoriali, una risposta auto-organizzativa all’atomizzazione in un contesto di crisi radicale del welfare. Forme di sussidiarietà circolare, che, proprio in virtù dell’interstizialità di tali fenomeni all’interno del tessuto urbano cittadino, rimettono al centro la società, cercando allo stesso tempo di portare, nei migliori dei casi, tale sussidiarietà dal chiuso delle “zone temporanee”[8] verso l’intero tessuto cittadino, attivando le economie locali (local economy) e fungendo da attrattore strategico verso nuove forme di lavoro e cittadinanza (circular economy), nuove forme di mutualismo il cui scopo è riaggregare il pulviscolo del cognitariato attraverso un sostegno reciproco, professionale e personale, un’opzione diversa dall’articolazione neo-liberale della città creativa[9] – rappresentata dalle teorie di Florida[10], sia in campo politico che culturale, nel tentativo di abbracciare l’intero ciclo di produzione culturale.

Un’ulteriore discontinuità con modelli di recupero degli spazi pubblici in chiave rigenerativa sta nella densità degli spazi stessi, e nella loro prossimità reciproca: non bensì la grande architettura industriale da riconvertire, ma un cluster di spazi a varia vocazione in forte prossimità territoriale, che favoriscono la creazione di iniziative votate al loro riuso e rigenerazione in chiave comunitaria e in dialogo tra loro, una sorta di community hub ante litteram, che coerentemente con tale definizione[11] fa leva sulla densità per ovviare alla carenza di risorse pubbliche, facendo quindi perno proprio sulla informalità di tali azioni, che impattano sul territorio non attraverso programmi top-down che si impongono su un quartiere come se intervenissero su un vuoto, ma attraverso forme di azione che completano e abilitano ciò che esiste[12].

Viene prodotta rigenerazione urbana dove sono moltiplicati i diritti di uso di uno spazio per pubblici differenti, potenziandone l’accessibilità per diversi pubblici; si produce rigenerazione urbana se lo spazio diventa risorsa disponibile, capace di ancorare processi di empowerment e attivazione sociale; è necessario che vi si produca apprendimento nei molteplici attori sociali che vi hanno preso parte, a garanzia di sostenibilità e durabilità, nella formazione della rete locale di produzione di conoscenza e di socialità, in questo senso i centri sociali napoletani hanno un effetto propulsivo al processo di rigenerazione urbana dei quartieri popolari della città (sia centrali che periferici), è in particolare in questi contesti che rigenerare significa in particolare generare spazi di welfare e di inclusione sociale[13].

È appunto il caso della zona che abbraccia la parte bassa del Quartiere Mater Dei e la parte alta del Quartiere Montesanto. In quest’area, dopo numerosi esperimenti di innovazione sociale attraverso la valorizzazione delle filiere culturali in trade-off con il segmento associazionistico e del no profit, che avevano già messo in evidenza l’enorme dinamismo dell’area, spesso proprio come risposta ai numerosi deficit istituzionali[14], si verificano proprio le condizioni succitate, ovvero la compresenza di una fitta rete di realtà associative operanti in diversi settori, ma tutte orientate a fornire servizi alla comunità, dal doposcuola ai corsi di musica e sport, attività di iniziativa privata tout court, e numerose organizzazioni informali che, complici anche il numero notevole di architetture sia civili che religiose in disuso presenti nell’area, hanno intrapreso le loro attività, sfruttando anche il valore positivo della prossimità fisica e della vicinanza cognitiva tra le diverse realtà presenti sul territorio[15].

  1. Fablab?

Il fenomeno dei Fablab in questa sede è oggetto di attenzione come potenziale elemento propulsivo di nuove opportunità produttive in ambito culturale e creativo, e per il radicamento di questo fenomeno alla categoria di rete, in cui reti di makers si strutturano in fablab (laboratori di creatività, piccole botteghe che producono grazie alle nuove tecnologie digitali).

L’aspetto più significativo di tale movimento ai fini della ricerca è il suo potenziale di cambiamento sistemico rispetto alla produzione tradizionale, partendo da concetti come open source, produzione locale, finanziamento dal basso, e fabbricazione digitale, all’interno di contesti caratterizzati da una forte interdisciplinarietà; cambiamento ancora in fieri, che dovrà necessariamente impattare sulla dimensione di sviluppo urbano, favorendo il modello di una città in grado di produrre localmente, non solo beni materiali e immateriali, ma modelli di vita associata e nuovi modi di fare, in cui le attività di ricerca, sviluppo, formazione e divulgazione saranno particolarmente sensibili ai temi dell’ecologia urbana, della co-produzione, mettendo in relazione comunità scientifica, istituzioni locali e la collettività, insistendo proprio sull’aspetto più significativo della pratica del fablab: il co-working, il lavorare insieme in maniera orizzontale, fuori dalla retorica dell’innovazione.

In questo senso occorre pertanto operare una rilettura del movimento maker sotto una diversa focale[16] che ne inquadri l’effettivo valore strategico per lo sviluppo urbano, proprio a partire dalla sua dimensione informale. Come appunto evidenziato da più parti[17] gran parte della conoscenza tacita implicata nella prossemica del laboratorio coinvolge profondamente la dimensione fisica (in contrapposizione alla codifica immateriale del software messa al centro da molte narrazioni del fenomeno)[18], è pertanto evidente come la condivisione di questa conoscenza con mezzi virtuali sia di difficile realizzazione. Proprio a partire dal limite intrinseco del modello FabLab, è possibile quindi individuarne la potenzialità significativa per lo sviluppo urbano: è questa stessa community abilitata alle tecnologie e alla fabbricazione che diventa lo strumento, «l’agente di cambiamento»[19], l’apporto necessario per la formazione di spazi di produzione in condivisione e per aumentare il capitale sociale presente sul territorio. Se quindi da un lato l’innovazione tecnologica sarà in grado di incrementare l’innovazione di prodotto e portare a un cambio di marcia nella capacità di produrre oggetti, dall’altra è la costruzione di effetti di comunità e la possibilità di mettere in condivisione saperi, conoscenze e cultura materiale a rappresentare il valore strategico del fenomeno fablab in termini di sviluppo urbano.

Il Fablab è un soggetto collettivo fondato su un mix unico tra attività educative, attività produttive e dinamiche informali[20]. Quindi, il Fablab non è né un soggetto istituzionale né un soggetto privato tout court, piuttosto costituisce una tipologia peculiare di terzialità[21]. In linea con tale argomento, la funzione educativa dei Fablab – e delle relative potenziali community di fabbricazione – come luoghi che offrono una nuova e più favorevole tipologia di istruzione avrebbe bisogno di revisione alla luce delle pratiche di collaborazione e condivisione, e di conseguenza, alle necessità dettate dal territorio di tali forme di incubazione di conoscenza e socialità, come processo di coinvolgimento attivo nelle dinamiche di learning (embodyment)[22], verso iniziative che condividono i valori di condivisione della conoscenza (open source, creative commons)[23].

Il valore del FabLab come “corpo intermedio” nei processi di sviluppo locale starebbe quindi proprio nel fungere da contesto per l’incontro tra diversi soggetti: i potenziali imprenditori, chi svolge attività tradizionali e necessita di spazi e accesso ai macchinari e al know how, innovatori, maker. In questo scenario, le amministrazioni pubbliche in alcuni casi sono committenti (uso degli spazi), in altri casi sono co-designer di nuove policy e servizi, in altri casi invece sono potenziali facilitatori (intervenendo per esempio su alcuni aspetti della regolazione locale)[24].

È anche in virtù di un tale inquadramento che dovrebbe assume ancor maggiore peso il ruolo dei FabLab nelle politiche di intervento pubblico, in cui venga posta l’enfasi sulle capacità di progettazione strategica, in particolare quella di fare leva su processi collaborativi, che sono al contempo processi produttivi e rigenerazione di comunità.

Sulla base di tale scenario, si potrebbe intendere il FabLab come una rete policentrica di laboratori locali[25], con particolare attenzione all’effettiva potenzialità e alle necessità dei singoli territori[26].

Infine, le evidenze portano verso una concezione di Fablab come Community Hub[27], in cui l’accentuata polifunzionalità degli spazi e delle attività, la volontà favorire una partecipazione estesa ed efficace, un assetto di governance incentrato su bisogni e aspirazioni di coloro che, a vario titolo, lo abitano[28].

  1. Montesanto. L’elasticità della città preindustriale

Il Quartiere di Montesanto è uno dei quartieri più popolari, densi e multietnici della città di Napoli, con la non trascurabile caratteristica di essere servito da tutte le infrastrutture di trasporto cittadino. Anche in virtù di questo attraversamento da quartiere-membrana tra interno della città e hinterland, unitamente a una conformazione e una densità tipica dei quartieri popolari e una fittissima rete di attività manifatturiere e commerciali, si configura come luogo di passaggio, di scambio, di prossimità.

La sua cifra caratteristica è la convivenza, testimone di un contesto in cui lo spazio comune ha ancora un ruolo prioritario rispetto al chiuso delle case monofamiliari. Infatti, nella più assoluta densità e complessità abitativa, quartieri come Montesanto e i Quartieri Spagnoli, hanno conservato intatto il loro connotato di città – nel senso della messa in scena costante e continua di quella scommessa sul prossimo, “sull’altro” col quale si condivide, spesso non per scelta, lo spazio urbano, e scommettere che questa prossimità dell’altro si riveli qualcosa di buono per la propria esistenza[29].

Parliamo dunque di una parte di città che sembra aver mantenuto l’elasticità della città preindustriale[30], in cui, in assenza atavica di un progetto amministrativo organico, gli abitanti possono (e debbono) fare per se stessi, soluzione che talvolta si rivela di gran lunga più efficace dal punto di vista della risposta ai loro bisogni, sia materiali che simbolici.

Tale malleabilità consente al quartiere di essere ancora (e in parte) un luogo di “economia locale”, di mestieri, di conoscenze, vecchie e nuove, che non a caso mette al centro della propria vita il “mercato”, lo storico mercato della Pignasecca, esteso quasi quanto l’intera parte bassa del quartiere: il mercato come primo luogo dialettico su cui si può fare affidamento per rinegoziare le relazioni umane, in sintesi la necessità di attribuire nuovamente alla città il ruolo di luogo dialettico della messa in scena tra individui, gruppi, etnie, per dare luogo a una convivenza possibile nonostante le differenze.

Il cibo di strada[31], il mercato come luogo di scambio e la bottega come luogo di produzione come antidoto a un processo altrove inarrestabile: l’impoverimento della cultura dei corpi per strada nelle città mediterranee negli ultimi vent’anni[32].

Questa centralità delle attività produttive e creative finalizzata alla produzione di nuova urbanità non rappresenta un fenomeno riscontrabile in tutto il tessuto urbano cittadino[33]. Allo stesso tempo, altri elementi di criticità dello status dei quartieri popolari sono indubbiamente da riscontrarsi nella conflittualità data dalla colonizzazione privatistica dello spazio pubblico, con relativa mancanza di commons – spazi dove la comunità possa esprimere i determinati aspetti della vita associata, come parchi, palestre. Probabilmente la presenza massiccia di aggregazioni informali ha proprio lo scopo di stabilire una compensazione di tali deficit, attraverso l’introduzione di una terzialità sociale come parziale antidoto alla mancanza sostanziale di luoghi in cui trovare spazio[34], di usi civici, di commons.

  1. Perché un Quartiere-Fablab

Particolare attenzione quindi deve essere rivolta all’artigianato e alla sua nuova evoluzione, rendendone necessario un riposizionamento nelle nuove politiche urbane come forma di cultura materiale, di sapere non-verbale come interfaccia di nuova saldatura tra un rapporto altrimenti reciso nell’attuale divisione del lavoro: l’uso delle mani all’interno dell’industria culturale nei suoi vari ambiti, persino in quegli universi che si credevano ormai completamente appannaggio della serialità industriale.

In questo contesto così delineato, è necessario che il tessuto produttivo faccia un cambio di passo, per diventare generatore di spazio pubblico e nuova comunità, introducendo insieme alla capacità e alla perizia artigianale nuove capacità dinamiche[35] che puntino sulle nuove tecnologie da affiancare alle capacità “ordinarie” di cui sono già in possesso, puntando a creare rete e condivisione di conoscenza, questioni cruciali del sapere artigianale, ma attraverso un salto di scala a misura urbana. Nel sistema di produzione contemporaneo, infatti, la produzione di conoscenza trae beneficio da forme di collaborazione e condivisione, come se questo tipo di realtà, già di per sé eterogenea socialmente, fosse vocazionalmente votata a questo tipo di approccio, altrimenti innovativo: una sorta di fablab diffuso, di co-working a misura di quartiere, dallo stare insieme nel fablab allo stare insieme nel quartiere-fablab[36].

L’aspetto più significativo del movimento dei Fablab rispetto ai fini sopra delineati è il suo potenziale di cambiamento sistemico rispetto alla produzione tradizionale, partendo da concetti innovativi come open source, produzione locale, finanziamento dal basso, e fabbricazione digitale, all’interno di contesti caratterizzati da una forte interdisciplinarietà. Insistendo proprio sull’aspetto più interessante e significativo della pratica sperimentale e laboratoriale del fablab, il co-working: il lavorare insieme in maniera orizzontale come possibile forma di ri-orientamento del valore dell’innovazione e delle tecnologie tipiche di tali spazi nel senso di un valore relazionale, fuori dalla retorica dell’innovazione fine a se stessa come forme di sublimazione tecnologica da più parti sbandierata[37].

Co-working dunque come strumento per creare una lettura dello spazio metropolitano su un modello di città a forte dinamicità sociale e progettuale, all’interno di un’idea di città come infrastruttura complessa atta a produrre reti.

L’osservazione della fase attuale delle reti tra gli operatori del quartiere evidenzia una configurazione prossima a una smart community[38]: una entità che mira a restituisce alla comunità il bene di cui ha più bisogno, e che il settore pubblico da solo non riesce a fornire più ormai da tempo immemore: spazio di relazione, spazio di comunità in cui alimentare intelligenze favorendo l’incontro, in cui far circolare e condividere idee.

Figura 2 | Manifestazione della Mensa a Montesanto, anni ‘70 - Fonte: Archivio Mensa dei Bambini Proletari

Figure 2 | Event of the Mensa in Montesanto, 70s - Source: Archivio Mensa dei Bambini Proletari

 


[1] Cfr. U. Rossi, Lo Spazio Conteso. Il Centro Storico di Napoli tra Coalizioni e Conflitti, Guida Editore, Napoli 2009; N. Dines, Tuff city, Berghahn Books, Oxford 2012.

[2] La “Mensa dei bambini proletari” era un istituto popolare, fondato nel 1972 a Napoli da un gruppo di attivisti legati a Lotta continua. Aveva sede nel quartiere Avvocata, scelto come “zona di mezzo” tra il Vomero e i Quartieri spagnoli o Forcella, dove “più asfissiante” era la presenza criminale. La mensa forniva ai bambini più poveri pasti caldi e laboratori pedagogici e attirò l’attenzione di numerosi intellettuali ed artisti. Cfr. La Mensa dei bambini proletari, 10 anni di iniziativa politica e culturale nella città, Rassegna Stampa 1973 – 1983, Centro di Documentazione Mensa dei bambini proletari, Napoli 1993.

[3] Cfr. N. Dines, Tuff city, cit.

[4] CHCfE, Cultural Heritage Counts for Europe, Consortium by the International Cultural Centre, Krakow 2015.

[5] M. Storper, Keys to the City. How Economics, Institutions, Social Interaction, and Politics shape Development, Princeton University Press, Princeton 2013; M. Storper, A. J. Scott, Rethinking human capital, creativity and urban growth, in «Journal of Economic Geography», XVII, 2009, pp. 1–21.

[6] B. Cova, Community and consumption: Towards a definition of the “linking value” of product or services, in «European Journal of Marketing MCB UP Ltd», 2006; A. Appadurai, Modernity at Large, Cultural Dimensions of Globalization, Public Worlds, Volume 1, University of Minnesota, Minneapolis 1996.

[7] A. Bonomi, Il capitalismo in-finito, Einaudi, Torino 2013, p. 6. Sul tema cfr. M. Vianello, Smart Cities, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2013.

[8] M. Foucault, Sorvegliare e punire: nascita della prigione (1975), tr. it. Einaudi, Torino 1976; W. McKenzie, A hacker manifesto, Harvard University Press, Cambridge 2004.

[9] M. d’Ovidio, A. Cossu, Culture is reclaiming the creative city: The case of Macao in Milan, Italy, in «City, Culture and Society», 2016, http://dx.doi.org/10.1016/j.ccs.2016.04.001.

[10] R. Florida, The rise of the creative class and how it is transforming leisure, community and everyday life, Basic Books, New York 2002.

[11] C. Calvesi, I. Pederiva, Community hub: rigenerazione urbana e innovazione sociale, 2016, consultabile al link http://www.lavoroeformazioneincomune.it/wp-content/uploads/2016/04/Paper_CalvaresiPederiva_breve.pdf.

[12] Ibid.

[13] R. Biorcio, T. Vitale, Italia Civile, Donzelli, Roma 2015.

[14] P. Napolitano, A. Camorrino, M.P. Vittoria, Pensiero Triangolare e Città, in «Agribusiness Landscape & Environment Management», XIX, 2016.

[15] M.P. Vittoria, P. Napolitano, Communities Informali e urban development. Alcune evidenze dal nuovo settore del “make in Italy”, il Mulino, Bologna 2017.

[16] P. Troxler, P. Wolf, Bending the rules: The Fab Lab innovation ecology, Continuous Innovation Network. The 11th International CINet Conference: Practicing innovation in times of discontinuity, Zürich, Switzerland, 5-7 September 2010; P. Troxler, Fab Labs forked: A grassroots insurgency inside the next industrial revolution, Journal of Peer production, 2014; P. Wolf, Sharing is sparing: open knowledge sharing in Fab Labs, in «Journal of Peer Production», 2014; T. Bonini, C’è sharing e sharing, Doppiozero, Milano 2014, www.doppiozero.com/materiali/chefare/c-e-sharing-e-sharing.

[17] M. Polanyi, The tacit dimension, Anchor Books, New York 2017; R. Sennet, Together: The Rituals, Pleasures and Politics of Cooperation, Yale University Press, New Haven 2012.

[18] Cfr. https://www.che-fare.com/sociale-fab-lab/ e https://www.che-fare.com/coworking-fablab/.

[19] P. Troxler, P. Wolf, op. cit.

[20] S. Latouche, Il pianeta dei naufraghi, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1993.

[21] R. Oldenburg, Celebrating the third place: Inspiring stories about the “great good places” at the heart of our communities, Marlowe & Company, New York 2000.

[22] P. Napolitano, S. Perna, Il video e il suono come ambiente sensibile della scena anti-gravitazionale, in M. D’Ambrosio, E-Learning, Electric Extended Enbodied, ETAS, Pisa.

[23] M. d’Ovidio, The creative city does not exist. Critical essays on the creative and cultural economy of cities, Ledizioni, Milano 2016; M. d’Ovidio, M. Cossu, op. cit.

[24] Proprio a partire dalla categoria di terzialità, è molto significativa l’analisi contenuta all’interno del recente rapporto ANCE su “Innovazione Sociale e Comuni” (2017) che, proprio con l’intenzione di fornire ai policy maker locali nuovi strumenti per mirare all’innovazione sociale, include i FabLab tra i “nuovi corpi intermedi” e “soggetti aggregatori”, quelle organizzazioni cioè che contribuiscono ai processi di innovazione sociale nei contesti locali, relazionandosi – tra loro, con le amministrazioni, con altre organizzazioni, svolgendo le seguenti attività: ricerca e sviluppo teorico; creazione di nuovi prodotti; creazione di nuovi servizi; aggregazione della domanda e dell’offerta; offerta di nuovi contenuti e nuove esperienze per la consulenza alle imprese e alle amministrazioni. ANCE, 2017:  L’Innovazione Sociale e i Comuni, Istruzioni per l’uso,

 http://www.agenziagiovani.it/images/files/executive_summary_socinn.pdf.

[25] Facendo salvi alcuni aspetti del modello globale di FabLab, come ad esempio il concetto di “capacità condivise” (Center for Bits and Atoms 2012. The Fab Charter: http://fab.cba.mit.edu/about/charter/) o il principio della condivisione di macchinari (B. Bakker, On small Fab Labs. Presentation at the Fablab1.5, Conference. MISiS – the National University for Science and Technology, Moscow, 14-19 October 2013: http://fablab.nl/2013/11/06/10k-fab-labs/).

[26] Una serie di definizioni complementari a questa prima sono contenute nel rapporto della Fondazione Make in Italy: il FabLab è un «laboratorio aperto al pubblico equipaggiato con macchine per la fabbricazione digitale. È un luogo dove individui e imprese hanno accesso ad attrezzature, processi e persone in grado di trasformare idee in prototipi e prodotti». «Un FabLab è un luogo di incontro tra persone con formazioni eterogenee, che risultano straordinariamente complementari per concepire progetti innovativi: artigiani tradizionali, esperti di elettronica, grafici, informatici. Un FabLab è anche e soprattutto un luogo di formazione tecnica che si fonda sull’assunto se faccio imparo, del tutto complementare alla formazione strutturata di derivazione universitaria», Rapporto Fondazione Make in Italy, 2015.

[27] C. Calvesi, I. Pederiva, op. cit.

[28] L. Sacconi, Beni comuni, contratto sociale e governence cooperativa dei servizi pubblici locali, in L. Sacconi, S. Ottone (a cura di), Beni comuni e cooperazione, Il Mulino, Bologna 2015, pp. 175-214; cfr. anche Lo Smart Working in Italia, Osservatori.net, Polimi (2016); Restart Italia, http://www.sviluppoeconomico.gov.it/images/stories/documenti/rapporto-startup-2012.pdf;

World Economic Forum: The Future of Jobs Report, http://reports.weforum.org/future-of-jobs-2016/.

Dalla letteratura, l’attività dei community hub si caratterizza per fare leva su 4 modalità di intervento, presenti anche nell’azione dei Fablab - almeno per quanto riguarda quelli qui definiti come “Laboratorio di Co-progettazione”: coproduzione, marketplace#, produzione culturale e, appunto, informalità. Aa.Vv, Community Hub, Avanzi - Sostenibilità per azioni s.r.l., 2016:  http://www.communityhub.it/wp-content/uploads/2016/10/Community-Hub.compressed.pdf.

Questi quattro moduli operativi introducono un ulteriore livello di analisi perché si prestano a un inquadramento della questione nell’alveo della teoria dei beni comuni, secondo cui si può parlare di questi ultimi quando si è in presenza delle seguenti caratteristiche: modalità di accesso aperta e non discriminatoria, non limitando la capacità di fruizione e al tempo stesso «evitando fenomeni di […] utilizzo opportunistico dell’infrastruttura»; determinazione del valore dell’infrastruttura, guardando non alle sue qualità intrinseche, ma «alle attività e ai processi produttivi di beni ulteriori che essa rende possibile a valle del suo utilizzo»; capacità dell’infrastruttura di essere adattata per molteplici impieghi e per la produzione di diverse categorie di beni, consapevoli del fatto che «tali beni non possono essere previsti in anticipo e hanno inevitabili effetti esterni positivi sugli altri utenti».

[29] «Gli esseri umani sono tanto più favoriti nello sviluppo quanto più riescono a tesaurizzare gli stimoli che arrivano da chi è diverso: dunque, dobbiamo inventare soluzioni creative di convivenza», R. Sennet, The Craftsman, Yale University Press, Yale 2008.

[30] F. La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, Laterza, Bari 2005. Di recente si è provato a raccontare tale complessa vitalità attraverso “Montesanto Foodwalk”: un’app, che, grazie alla tecnologia GPS, consente un’esperienza di fruizione “aumentata” degli spazi, rendendoli “sensibili” e trasformandoli così in tappe di attraversamento del quartiere di Montesanto. Questa tipologia di esperienza ha una peculiarità indiscutibile: è un racconto multimediale in cui la narrazione si frammenta nello spazio, accompagnando il visitatore a vivere esattamente lo spazio nel quale il racconto è stato pensato e performato. L’app fornisce stimoli al visitatore in maniera dinamica, impulsi – sonori in primis, ma anche testuali e visuali – in grado di guidare il fruitore attraverso il quartiere. Il passeggiare diventa così un elemento saliente, in quanto le forme narrative che propone sono letteralmente scaturite dal moto del corpo del fruitore. P. Napolitano, Montesanto foodwalk, in «Roots-Routes», VII, 24, 2017. “Montesanto foodwalk” è un racconto collettivo di cui si colgono diversi frammenti che, composti, generano attorno alla città un immaginario condiviso. Già Michel de Certeau notava come il camminare sia un atto in grado di reinterpretare la città, creando uno spazio ogni volta diverso, rispetto all’organizzazione delle rigide funzioni urbane, capace di una “creatività surrettizia” che aiuta a fuggire le consuetudini e il controllo sociale, una “forma di organizzazione dello spazio” in cui si crea la topografia, le si conferisce senso: M. De Certeau, M. Pierre, The Practice of Everyday Life: Living and coking, Vol. II, University of Minnesota Press, Minneapolis 1998. L’app è liberamente scaricabile all’url:

https://itunes.apple.com/us/app/zurriapp/id1183885748?mt=8.

[31] «Il cibo, i mercati di strada dove si vendono frutta e verdura, pesce e carni, pane e vino […] tutto questo ha sempre costituito il germe su cui sorge e si sviluppa una città. […] Una città è costituita dalle sue occasioni pubbliche di cibo. Queste costituiscono gli spazi e li delimitano, rendono una piazza o uno slargo, un angolo o un vicolo qualcosa che crea occasioni di spazio circostante. Tanto più lo sono i mercati, […] attorno ai mercati si costituiscono i quartieri, si dimensionano le altre attività […]. I mercati formano il layout di buona parte delle città che conosciamo, anche quando essi li hanno rigettati e rifiutati come un segno di arretratezza. […] È la condivisione di un sistema di apprezzamento che diventa morale quotidiana, habitus che da alla vita un senso comunitario e corale», F. La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, cit.

[32] Nell’interpretazione di questo fenomeno così macroscopico non si possono dimenticare anche l’introduzione in età industriale della “macchina” (industriale, automobilistica), che rappresenta uno spostamento decisivo delle forze in campo nel tessuto urbano, una variazione di scala che sostanzialmente ghettizza la popolazione in spazi appositi, anche in quello che viene definito spazio pubblico; così come diventa un fattore cruciale, nello stesso periodo (ma con le prime manifestazioni già in età borghese), della privacy come valore culturale, e ancor più come diritto, per cui risulta sconveniente e poco educato vivere parte della propria esistenza fuori dal nucleo domestico, anche per le classi popolari. Cfr: A. Giddens, The constitution of society: Outline of the theory of structuration, University of California Press, Berkeley, 1984.

[33] La gentrificazione a uso turistico che alcune zone dei Decumani stanno assumendo, con alternanza tra negozi di presunte tipicità, pizzerie, e b&b, infine con esempi unici come nel caso di San Gregorio Armeno, la via dei pastori, sulla cui possibile governance non c’è mai stato un reale accordo tra gli addetti ai lavori. Cfr. W. Santagata, Cultural District and economic development, EBLA, Torino 2004; e http://ladestlab.it/maps/72/the-inequality-of-airbnb.

[34] M. P. Vittoria, P. Napolitano, Informal community as “creative places” and urban productivity drivers. The case of the Social Centers in Naples, in «Rivista Economica del Mezzogiorno», 1, 2017; E. Colleoni e A. Arvidsson, Metodi di acquisizione e riconoscimento delle skills informali dei giovani nell’economia della conoscenza di Milano. Il ruolo dei co-working spaces a Milano, Research Report, Municipality of Milano, 2015; A. Arvidsson, Commons Based Peer Production in the Information Economy, 2016.

[35] D. J. Teece, G. Pisano, A. Shuen, Dynamic capabilities and strategic management, in «Strategic Management Journal», 18, 7, 2017, pp. 509–533.

[36] P. Napolitano, Density and material culture in the urban context of Mediterranean Europe: for a city as a diused Fablab, in Making Cities. Vision for an Urban Future, EUROCITIES 30th Anniversary publication, Eurocities, Bruxelles 2016.

[37] M. Busacca, Performatività del Welfare? Un’analisi delle pratiche e dei discorsi dei Coworking Plus (Co+), Colloquio scientifico sull’impresa sociale, 22-23 maggio 2015, Dip. PAU (Patrimonio, Architettura, Urbanistica), Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria.

[38] Volendo individuare un criterio adeguato per misurare “l’intelligenza” di una comunità, bisogna prendere in considerazione un parametro qualitativo in virtù del quale, maggiore è la capacità “adattiva” di un sistema in transizione pronto a “mettersi in gioco” al fine di trasformare le criticità in opportunità, superiore deve essere stimato il livello di questa “intelligenza”, cfr. P. Napolitano, A. Camorrino, M. P. Vittoria, op. cit.

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