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L’animale narrante. Brian Boyd e l’origine delle storie

Autore


Salvatore Cifuni

Università di Napoli Federico II

Salvatore Cifuni ha conseguito la Laurea Magistrale in Filosofia all’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Il darwinismo letterario
  2. Boyd e l’attenzione
  3. Ontogenesi della narrazione: l’animale che narra

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S&F_n. 16_2017

Abstract


The storytelling Animal. Brian Boyd and the origin of Stories


This paper will discuss about Literary Darwinism, a new branch of literary criticism that tries to explain storytelling in evolutionary terms. In particular, It will deal with the thesis proposed by Bryan Boyd, the most cited author of LD, according to which narrative is the most powerful tool to share and shape attention – especially in the form of fiction, which allows human beings to go beyond the here and now. Therefore, after having described his proposal and, briefly, its weaknesses, I will focus on the most interesting part of It: the one about ontogeny. So, using Boyd as a starting point, I will study the importance of narrative for the development of our most relevant cognitive skills.


  1. Il darwinismo letterario

A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, studiosi provenienti da differenti ambiti di ricerca, cominciarono a considerare la narrazione come uno dei maggiori strumenti cognitivi della mente umana[1]. Nell’ultimo ventennio, poi, questo tema si è venuto costituendo quale nuovo campo di interesse per la biologia evoluzionistica, dando vita a uno specifico tipo d’indagine, teso a dimostrare l’eventuale origine evolutiva della propensione narrativa degli esseri umani. A partire dall’assunto che la narrazione è presente con tratti condivisi in tutte le culture, a prescindere dalle coordinate spazio-temporali[2], la questione chiave potrebbe essere così sintetizzata: se, come sembra, la tendenza narrativa è così rilevante per l’essere umano, essa è davvero il portato di un percorso adattivo-mutazionale?

Questi, in breve, i presupposti da cui nella metà degli anni Novanta si viene a inaugurare il filone del cosiddetto Literary Darwinism. In particolare, è stato Joseph Carroll, studioso di letteratura ed evoluzione, che nel 1995, con la pubblicazione di Evolution and literary theory[3], ha posto la domanda sull’origine evolutiva dello storytelling. La rottura proposta da Carroll nasce come risposta al dominio del pensiero decostruttivista-derridiano nel campo degli studi letterari ed è figlia di quella consilience – cioè della sintesi tra le conoscenze delle scienze umane e delle scienze dure – prospettata con forza dal biologo E.O. Wilson[4]. In funzione quindi di questo intento sintetico le conoscenze letterarie di Carroll si innestano su una base radicalmente darwinista e sfociano nei due punti fermi del Literary Darwinism (termine con il quale l’autore ha inteso genericamente sia le forme orali sia scritte di narrazioni), l’uno diretta conseguenza dell’altro: «1) la mente si è evoluta attraverso un processo adattivo di selezione naturale; e 2) la mente adattata produce la letteratura»[5]. Con tale affermazione, i darwinisti letterari attribuiscono alla letteratura una funzione adattiva, primaria e irriducibile, che di conseguenza non è soddisfatta da nessun’altra attività[6].

 

  1. Boyd e l’attenzione

Tra i darwinisti letterari, Brian Boyd è senz’altro l’autore più letto e citato. È dunque da lui, e dai suoi assunti, che occorre partire se si vogliono provare a evidenziare alcuni significativi passaggi teorici se non dell’intera corrente, quanto meno di quello che è considerato uno dei suoi esponenti più significativi. Nel monumentale On the origin of Stories, evidente citazione dell’On the origin of Species di Darwin, lo studioso e critico letterario costruisce e spiega la sua idea sull’origine adattiva delle storie facendo prima una premessa sul gioco e sull’arte in generale. Tale premessa è sintetizzabile nei seguenti assunti: 1) «l’arte è un adattamento umano che deriva dal gioco»[7] e 2) «per spiegare l’arte dobbiamo prestare attenzione all’attenzione [sic]»[8].

Il motivo per il quale il gioco rientra nella cornice evolutiva da cui Boyd avvia il proprio discorso è evidente: basti pensare alla sua essenziale presenza in tutte le specie dei mammiferi, in molti uccelli, in alcuni rettili, in alcuni pesci e sembra anche in alcune specie di invertebrati. Come la stragrande maggioranza dei ricercatori, Boyd ritiene che il gioco sia un comportamento adattivo, vista la sua ampia presenza tra le specie nonostante il grosso dispendio d’energie e i rischi che comporta:

l’evoluzione può installare delle linee guida per agire – le “impostazioni di fabbrica” della natura – ma per alcuni comportamenti fanno la differenza scelte più raffinate, perfezionate, e un maggior ventaglio di opzioni adatte ad essere utilizzate a breve termine e in base al contesto[9].

 

Dunque sarebbe per questi motivi che entra in scena il gioco: adottando tale comportamento ripetitivamente, infatti

gli animali alterano, fortificandoli, il tono muscolare e il cablaggio neurale, rafforzano e incrementano la velocità d’elaborazione dei percorsi sinaptici e migliorano così le prestazioni nelle eventuali circostanze a rischio future[10].

 

In altre parole: tramite il gioco, l’animale comincia a sviluppare, in un contesto sicuro, abilità e capacità che risulteranno poi essere indispensabili in quelle situazioni a rischio che si troverà ad affrontare. Questo ragionamento vale certamente per la sfera delle relazioni sociali ma anche per le situazioni urgenti come fuga e lotta e in generale per quei tipi di comportamento il cui range di opzioni ha bisogno per forza di cose di essere ampliato e perfezionato. Di conseguenza,

gli animali più dotati dal punto di vista delle motivazioni a praticare tali comportamenti e a esplorare nuove possibilità a riguardo, in situazioni a basso rischio e con le adeguate risorse, se la passeranno meglio rispetto a quelli meno dotati[11].

 

Non è un caso quindi che il gioco si sia «evoluto in modo tale da essere altamente auto-gratificante»[12]: tanto più è il piacere che un animale ha nel giocare in contesti sicuri, tanto più spenderà risorse per farlo, risultando così pronto in altri contesti, se e quando sarà necessario. Quanto detto vale, naturalmente, anche per l’uomo, come sembra dimostrare, ad esempio, il particolare piacere che gli esseri umani proverebbero per giochi individuali e di squadra, capaci di sviluppare

le abilità indispensabili per la fuga (acchiapparello, corsa), la lotta (azzuffarsi, lancio delle cose come una forma di attacco a distanza) e per il recupero dell’equilibrio (sciare, surfare e andare sullo skateboard)[13].

 

Come che sia, lungi dal fermarsi qui, il ragionamento di Boyd prosegue, arrivando a coinvolgere l’arte nel suo complesso. Anche l’arte, sostiene lo studioso, è un adattamento perché rappresenta un «tipo di gioco cognitivo» che «stimola il nostro cervello più dei normali processi di routine ambientali»[14]. Viste, insomma, la maggiore forza e la profonda autogratificazione di cui si fa portatrice, l’arte offre stimoli molto più forti della norma (supernormal stimulus); stimoli in virtù dei quali il cervello migliora il processo di risposta alle informazioni che riceverà.

Tuttavia, la vera e propria proposta dell’autore è la necessità di «prestare attenzione all’attenzione» perché, a suo modo di vedere, l’arte «muore senza attenzione»[15], dato che è solo grazie alla sua capacità catalizzatrice che l’arte «modella le nostre menti (...) dai tempi delle filastrocche dell’infanzia a quelli dei cori organizzati delle case di riposo»[16]. Sarebbe a dire che senza l’elemento di condivisone legato all’attenzione, l’autostimolazione del gioco cognitivo finirebbe per condurre alla nascita di mondi privati ed ermetici: un vero e proprio disastro per delle creature la cui forza risiede nella socialità. Anche quest’ultima, del resto, non può prescindere dal ruolo dell’attenzione, dato che nella continua oscillazione tra competizione e cooperazione è sempre l’attenzione a dominare la scena – sia essa spesa per vigilare gli altri, organizzare il gruppo o manipolare e dirigere le azioni altrui.

Ebbene, se gli animali – e i bambini molto piccoli – ottengono questi risultati tramite il gioco, gli umani lo ottengono con l’arte. Danza, musica e narrazioni, incoraggiandoci a condividere l’attenzione in maniera coordinata e piacevole, permettono un aumento della sintonia tra noi e gli altri, offrendoci così i benefici legati alla socialità[17]. Forse in nessun altro campo più che in quello dell’apprendimento l’arte risulta fondamentale:

l’apprendimento sociale può ridurre di molto il tempo richiesto per trovare strategie di successo. Nel caso dell’arte, l’apprendimento sociale inizia con le protoconversazioni [tra genitori e figli] e prosegue, nel momento in cui vengono iniziati alle modalità artistiche del loro gruppo, quando i bambini cominciano rapidamente a riconoscere e riprodurre rime, poesie, canzoni, balli, disegni e storie[18].

 

Ecco perché i bambini richiedono e rimettono in scena in maniera compulsiva le stesse storie e canzoni: per saturare se stessi attraverso stimoli abbastanza vividi da attirare più e più volte la loro attenzione[19].

Questa, però, è solo una faccia della medaglia. Boyd associa, infatti, ai vantaggi della condivisione – sharing – i vantaggi della modellatura – shaping. Sarebbe a dire che chi riesce ad attirare e/o a manipolare l’attenzione in maniera continuativa e (apparentemente) utile, ne trae evidentemente beneficio.

Ecco allora nascere le narrazioni, distinte dall’autore in narrazioni di fatti e finzioni narrative. Per quel che riguarda le prime, l’argomentazione si concentra soprattutto sul concetto di status; dico soprattutto perché Boyd, a differenza di altri autori[20], si limita solo ad abbozzare il ruolo svolto dalle narrazioni per la memoria e per la comprensione causale degli eventi, tralasciando di mostrare in che modo queste due facoltà siano effettivamente e fondamentalmente narrative.

Ma per tornare allo status, Boyd lo intende come il risultato del connubio tra ruolo e posizione nella gerarchia sociale – un elemento, quindi, evolutivamente fondamentale in quanto altamente correlato con la sopravvivenza e la possibilità riproduttiva. Ebbene, come mostra il caso del gossip, molto stretto è il nesso tra status e narrazione: inteso come insieme di storie vere o presunte tali, il gossip funziona infatti da rilevatore/smascheratore di status e dei tentativi, riusciti e non, per ottenerlo. In questo modo, l’attività narrativa del gossip risulta essere benefica su due fronti: sia quello del ricevente, che comprende le dinamiche e/o le gerarchie del gruppo, sia quello dell’informatore che, offrendo costantemente notizie rilevanti – o creandone di false – ottiene a sua volta dei vantaggi[21]. Questa dinamica è talmente importante che più della metà delle nostre conversazioni casuali è speso facendo gossip, svolgendo cioè una vera e propria competizione divulgativa che non si limita alle sole informazioni immediatamente spendibili, capace com’è di produrre anche esempi generali di comportamento utili per un futuro, più o meno prossimo[22].

Diverso il caso della narrazione finzionale, dal momento che più che sulla informazione sociale, essa si concentra sul consolidamento delle relazioni che ne costituiscono il tessuto. Si pensi ad esempio alle tragedie o alle satire e alla loro capacità di incentivare la cooperazione tramite le emozioni punitive o vendicative che esse suscitano o sottolineando «il bisogno di vigilanza contro l’inganno e la manipolazione»[23]. Ma non solo: la narrazione finzionale aiuta anche a risolvere il problema del sapere comune, almeno nella misura in cui «le storie tradizionali garantiscono che tutti conoscano e reagiscano (…) ai valori fondamentali del gruppo»[24]. Parallelamente, le finzioni narrative favoriscono lo sviluppo del senso morale. A differenza dei racconti reali, infatti, i racconti finzionali permettono e invitano a vedere le cose attraverso prospettive che non sono le nostre, mostrandoci i pensieri e facendoci ascoltare le parole di uno svariato numero di personaggi diversi; in un certo senso, ci abituano a pensare con la mente degli altri. Scrive Boyd:

nella narrativa fattuale, la storia tende ad essere scritta dai vincitori, che riempiono di campagne vittoriose le loro cronache. In quella finzionale, la storia è viva quanto più tutti sembrano vivi, quanto più ogni personaggio sembra esistere a modo suo[25].

 

Che tutto questo possa avere una funzione evolutiva è, per Boyd, evidente. Mentre le narrazioni fattuali si occupano dell’interpretazione degli eventi sociali e non, quelle finzionali hanno come scopo quello di potenziare questa capacità interpretativa: insomma, la fiction ci consente di estendere e affinare la nostra capacità d’elaborazione delle informazioni sociali, in particolare quella legata a informazioni chiave su persone ed eventi e, insieme, «ci permette di meta-rappresentare, di vedere un’informazione sociale dalla prospettiva di altri individui, di un altro tempo, di un altro luogo o sotto altre condizioni»[26]. Così facendo, essa amplia e potenzia le nostre opzioni comportamentali, presentandoci scenari alternativi su cui ragionare quando si deve prendere una decisione. Infine, rafforza quella che Boyd chiama creatività, offrendoci «incentivi per e pratica nel pensare oltre il qui e l’ora [e] nuovi punti di vista sulla realtà e sui modi nei quali questa può essere trasformata»[27]. È solo grazie al fatto che la finzione estende la nostra portata immaginativa che noi possiamo pensare in termini di cause nascoste, di esempi ispiratori o ammonitori presi dal nostro passato, di modelli utopici o distopici, di scenari probabili o conseguenze e di ragionamenti per assurdo. Insomma, possiamo esplorare gli infiniti spazi del possibile solo perché molta di questa «indefinita enormità […] si è concretizzata e particolarizzata attraverso gli esempi delle storie»[28].

In sintesi, come gli animali si preparano a risolvere i rischi della realtà con il gioco, guadagnandone in termini evolutivi, così per Boyd l’uomo risponde alle pressioni selettive del suo ambiente allenando il “muscolo sociale” e ampliando il repertorio di risposte comportamentali a esso collegato attraverso le narrazioni, finzionali e non, raccontate a se stesso o agli altri.

 

 

 

  1. Ontogenesi della narrazione: l’animale che narra

Certo, la suggestione e l’interesse della proposta di Boyd non può esimerci dal segnalare alcune aporie. In primis, c’è una questione metodologica. Affermare che un certo tratto sia frutto di selezione implica, infatti, ricostruire un quadro molto complesso che ha a che fare con lo sviluppo ontogenetico dell’individuo, con quello filogenetico della specie, con i meccanismi fisici, chimici, psicologici o ambientali che lo fanno funzionare concretamente e con il vantaggio selettivo che il tratto ha prodotto[29]. Dal punto di vista filogenetico, Boyd prova a disegnare una storia “bio-culturale” della narrazione, ma commette una sorta di peccato di hybris: il problema di questi tentativi risiede, infatti, nella constatazione che non sappiamo come effettivamente vivessero i nostri antenati, non sappiamo niente del loro linguaggio e men che meno delle storie che avrebbero potuto raccontarsi. Discorso ancora più critico potrebbe essere fatto per la questione dei meccanismi fisici della narrazione, argomento sul quale l’autore nordirlandese tace del tutto, esimendosi anche da un ancorché minimo riferimento agli studi di Young e Saver, del gruppo di Vanessa Troiani, e di Raymond Mar[30]; tutti lavori nei quali vengono localizzate le aree della narrazione nel cervello e dove viene ricostruito il modo in cui questo proietta le proprie radici narrative sul modo in cui organizziamo la realtà. Scarso background evoluzionistico, sia pur detto per inciso, Boyd lo mostra anche quando conferisce alla narrazione prima il carattere di adattamento multifunzionale – affermazione già di per sé criticabile[31] – e poi in un secondo momento ne attribuisce l’origine ad altri adattamenti cognitivi precedenti[32].

Quanto appena rilevato non toglie, d’altro canto, che il discorso di Boyd sia di notevole interesse, soprattutto sul versante ontogenetico.

Prendendo come esempio «i monologhi spontanei pre-sonno prodotti dai bambini di due anni», l’autore constata che prima di capire effettivamente gli eventi, prima di capire cosa gli altri possano pensare di una situazione e come possano reagire a riguardo, «i bambini raccontano le routine del giorno, come se dovessero fissare nella loro mente situazioni da padroneggiare»[33]. Essi, insomma, narrano e questa narrazione li aiuta a capire «cosa aspettarsi dall’animato e dall’inanimato, dai differenti tipi di oggetti e animali, dai diversi comportamenti e situazioni»[34].

Ora, è qui che Boyd si mostra in piena sintonia con molte posizioni attuali della comunità scientifica. Basti pensare agli importantissimi studi di Alison Gopnik[35] e a quanto essi ci dicono innanzitutto sul fatto che la plasticità del cervello dei bambini e la velocità di sviluppo della corteccia pre-frontale – la parte più “recente” e sofisticata del cervello umano dove si sviluppano, tra le altre cose, il pensiero predittivo e la previsione – dipendono dalla frequenza con la quale essi esercitano e applicano narrazioni controfattuali.

Ma non solo. In secondo luogo, la Gopnik mostra che il bambino impara a elaborare e gestire ipotesi alternative solo perché, attraverso la narrazione controfattuale, registra la possibilità dell’esistenza di scenari diversi, senza dimenticare di mettere in evidenza, infine, quanto la stessa connessione causale tra eventi diventa all’inizio comprensibile solo se innescata da scenari narrativi controfattuali. In breve: «immaginazione e causazione vanno di pari passo e si alimentano evolutivamente in modo biunivoco»[36] – un insieme di considerazioni, queste, che trovano l’approvazione anche di Paul Harris, massimo studioso dell’immaginazione nei bambini, secondo il quale lo scenario ipotetico cristallizzato nel “se … allora…” rappresenta l’evento scatenante delle nostre facoltà cognitive più sofisticate[37].

Parallelamente a quanto è stato appena detto, sembra che la comunicazione narrativa sia fondamentale anche per lo sviluppo del mindreading infantile. Si è infatti osservato che il bambino inizia a riconoscere la falsa credenza e può simulare mentalmente ciò che pensa o vive l’altro solo quando diventa in grado di “cancellarsi” dallo scenario che immagina per sostituirsi con un altro individuo – attuando così un’operazione che in gergo è definita derivazione modificata[38]. Anche nel caso del mindreading, quindi, la «condizione abilitante»[39] risulta essere la padronanza da parte del bambino dello strumento narrativo.

Così, al netto di alcune sbavature dell’impianto teorico di Boyd e al netto dell’impossibilità di produrre a oggi un’ipotesi evolutivamente rigorosa nella sua totalità, è possibile altresì convenire con la tesi in base a cui le narrazioni altro non sono che quella superficie sulla quale cognizione sociale, comprensione degli eventi, possibile e impossibile si sviluppano e, in alcuni casi, trovano le proprie radici.

Per dirla con Boyd, noi siamo «creatori compulsivi di eventi finzionali»[40] che non solo ricombinano gli eventi del reale ma finiscono anche per scavalcarlo a favore del possibile e dell’impossibile; noi siamo gli animali che narrano, gli animali che trovano nella narrazione lo spazio in cui si crea «la distinzione più cruciale per la vita dell’uomo: quella tra realtà e finzione, originale e copia, vero e simulato»[41].


[1] Per una panoramica, cfr. J. Bruner, La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita, tr. it. Laterza, Roma-Bari 2002; D. Herman, Storytelling and the sciences of mind, MIT Press, Cambridge, MA-London 2013.

[2] D.E. Brown, Human universals, Temple University Press, Philadelphia 1991; P.C. Hogan, The mind and its stories: Narrative universals and human emotion, Cambridge University Press, Cambridge 2003.

[3] J. Carroll, Evolution and literary theory, University of Missouri Press, Columbia/London 1995.

[4] E.O. Wilson, L’armonia meravigliosa. Dalla biologia alla religione, la nuova unità della conoscenza (1998), tr. it. Mondadori, Milano 2000.

[5] J. Carroll, Literary Darwinism. Evolution, human nature and literature, Routledge, New York/London 2004, p. XII.

[6] Id., Literature and evolutionary psychology, in D.M. Buss (ed. by), The handbook of evolutionary psychology, John Wiley & sons, Hoboken, NJ 2005, p. 939.

[7] B. Boyd, On the origin of Stories. Evolution, cognition and fiction, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, MA and London 2009, p. 14.

[8] Id., Literature and Evolution: a bio-cultural approach, in «Philosophy and Literature», 29, 2005, p. 8.

[9] Id., On the origin of Stories, cit., p. 92.

[10] Ibid.

[11] Ibid.

[12] Ibid.

[13] Ibid.

[14] Ibid., p. 94 (corsivo mio).

[15] Ibid., p. 99.

[16] Ibid., p. 100.

[17] Ibid., p. 101.

[18] Ibid., p. 105 (corsivo mio).

[19] Ibid.

[20] Cfr. D. Herman, Il racconto come strumento di pensiero, in S. Calabrese (a cura di), Neuronarratologia. Il futuro dell’analisi del racconto, Archetipolibri, Bologna 2009, pp. 99-138; Id., Storytelling and the sciences of mind, MIT Press, Cambridge, MA-London 2013; J. Gottschall, L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani (2012), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2014.

[21] M. Scalise Sugiyama, On the Origins of Narrative: Storyteller Bias as a Fitness-Enhancing Strategy, in «Human Nature», 7 (4), 1996, pp. 403-425.

[22] Cfr. R.I.M. Dunbar, A. Marriott, N.B.C. Duncan, Human conversational behavior, in «Human Nature», 8 (3), 1997, pp. 231-246.

[23] B. Boyd, On the origin of Stories, cit., p. 196.

[24] Ibid.

[25] Ibid., p. 197.

[26] Ibid., p. 192.

[27] Ibid., p. 197.

[28] Ibid., p. 199.

[29] N. Tinbergen, On aims and methods of ethology, in «Zeitschrift für Tierpsychologie», 20, 1963, pp. 410-433.

[30] K. Young, J.L. Saver, The neurology of Narrative, in «Substance», 94/95, 2001, pp. 72-84; V. Troiani, S. Ash, J. Reilly, M. Grossman, The neural correlates of narrative discourse: An investigation using arterial spin-labeling, in «Brain and Language», 99, 2006, pp. 204-205; R.A. Mar, The neuropsychology of narrative: story comprehension, story production and their interrelation, in «Neuropsychologia», 42, 2004, pp. 1414–1434.

[31] K. Mellmann, The Multifunctionality of Idle Afternoons. Art and Fiction in Boyd’s Vision of Evolution, in «JLTonline Reviews», 2010 [consultabile al link: http://www.jltonline.de/index.php/reviews/article/viewArticle/170].

[32] B. Boyd, On the origin of Stories, cit., p. 190.

[33] Ibid., p. 182.

[34] Ibid.

[35] A. Gopnik, Il bambino filosofo: come i bambini ci insegnano a dire la verità (2009), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino, 2010.

[36] S. Calabrese, Neurogenesi del controfattuale, in «Enthymema», 8, 2013, p. 99.

[37] P.L. Harris, L’immaginazione nel bambino (2000), tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2008.

[38] S. Calabrese, op. cit.

[39] Ibid., p. 101.

[40] B. Boyd, On the origin of Stories, cit, p. 187.

[41] S. Calabrese, op. cit., p. 96.

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