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Il materialismo digitale. Approcci e prospettive mediologiche

Autore


Mario Tirino

Università di Salerno

Mario Tirino insegna Tecniche e Linguaggi dei Media presso la Scuola di Giornalismo dell’Università di Salerno

Indice


  1. Intro
  2. Prospettive e approcci
  3. Teorie 
  4. Tensioni 
  5. Orizzonti

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S&F_ n. 18_2017

Abstract


Digital Materialism: Approaches and Perspectives in Media Studies


This paper explores theoretical and methodological frameworks into the complex interdisciplinary field of Digital Materialism as media theory. From a starting point of the notion of “digital materiality”, as a core concept to develop an epistemological shift towards “material turn”, we aim to illustrate different approaches as new materialist paradigms, German media theory, Media Archaeology, Media ecologies, Software Studies and Marxist media theory. The so-called Digital Materialist Studies include a wide range of theories, which are sometimes in mutual opposition. However, overall these approaches help to re-evaluate the centrality of the material dimension of digital media in contemporary society. Finally, we indicate some possible theoretical evolutions of digital materialism. On the one hand, there are theories focused on highlighting the complexization and diversification of power relations through the study of some “lens” of digital materialities (Pötzsch 2017). On the other hand, we suggest the possibility of combining in a coherent theoretical framework the media archaeology studies of the Italian theorist Alberto Abruzzese in order to investigate the transition from old media to digital media by analyzing the material and symbolic conflicts that the media themselves incorporate.


  1. Intro

I ritrovati tecnoscientifici e l’immaginario letterario e audiovisivo nell’ultimo ventennio hanno diffuso una specifica idea di pervasività digitale e di inutilità della dimensione materiale degli oggetti quotidiani. Mentre gli individui si circondano sempre più spesso di device intelligenti, in grado di gestire ogni sistema dotato di sensori e circuiti, nell’era dell’Internet of Things e della domotica, il cloud computing richiede in realtà crescenti quantità di hardware che, tuttavia, è reso sempre più impercettibile e nascosto. Un topic su cui si sono concentrati molti osservatori è la naturalizzazione delle tecnologie materiali del digitale, secondo un processo, già evidente a Kittler[1], per il quale il software tende ad occultare le tracce materiche dell’hardware. Questa tendenza si inserisce in un’idea di progresso inteso nei termini di una riduzione dell’intervento materiale della tecnologia digitale nella vita quotidiana e nelle pratiche culturali.

Anche nell’ambito dell’immaginario audiovisivo si producono narrazioni incentrate sull’occultamento della dimensione materiale dei dispositivi con cui interagiamo. Ne è un esempio Lei (Her, 2013) di Spike Jonze, che ruota attorno alla relazione tra l’umano Theodore e l’Intelligenza Artificiale Her, sistema così evoluto da saper gestire l’intero spettro degli affetti dell’interlocutore, invitando così a ripensare la soglia tra materialità corporea dell’uomo e l’intelligenza dis-incarnata, in uno scenario postumano in cui si vuole istituire la relazione con l’Altro, elidendone la materialità[2].

In direzione contraria a questi processi socioculturali, la ricerca accademica si sta orientando in maniera evidente a interrogarsi sulla materialità dei media digitali, mettendo in discussione i miti dell’immaterialità e della smaterializzazione[3]. Le teorie critiche dei media digitali, partendo dalla consapevolezza della necessità di decostruire tali miti, consentono di produrre una svolta metodologica: poiché i livelli materiali del mediascape contemporaneo non solo sono progressivamente nascosti agli utenti, ma diventano spesso inaccessibili agli stessi studiosi, questi approcci mettono a punto metodi di ricerca adeguati all’analisi di oggetti complessi come le materialità digitali.

         

  1. Prospettive e approcci

La più recente teoria dei media, come detto in precedenza, si è spesso soffermata sulla rilevanza della materialità, con particolare attenzione all’inorganico e al post-umano, in una nuova accezione di materialismo che comprende non solo gli oggetti tangibili, ma anche “cose” non-solide come le energie elettriche, magnetiche e luminose[4].

La nozione di materia suggerita da questi approcci si espande oltre l’insieme di fenomeni che l’uomo può percepire attraverso i sensi. Il concetto di digital materiality comprende non tanto “l’im-materiale”, ma “l’in-materiale”, intesa come proprietà degli oggetti digitali in grado di eludere il contatto fisico ancora incorporato nella materialità. Nell’ambito dei Media Studies il nuovo paradigma materialista è parte di un più ampia svolta epistemologica, nota come material turn, che utilizza il concetto chiave di materialità per far emergere la complessa stratificazione di processi socioculturali che presiedono all’esperienza mediale digitale[5]. All’ambito del “materialismo digitale” possiamo ricondurre così un’ampia varietà di studi che ricomprende le ricerche dell’approccio neomaterialista[6], le ecologie dei media[7], alcuni indirizzi della teoria dei media tedesca (con particolare riferimento al lavoro seminale di Friedrich Kittler), i software studies[8], una certa critica letteraria dedicata alla letteratura elettronica[9], l’approccio marxista alla teoria dei media[10]. Sebbene questi approcci non siano riducibili a un’unica impostazione teorica, l’obiettivo di questo saggio è analizzare le ragioni che tengono insieme tali approcci dentro un unico framework definibile come “Digital Media Materialism”[11].

Una delle motivazioni degli studi neomaterialisti sui media è la vocazione ad esplorare quegli oggetti di ricerca finora dimenticati o poco praticati. In questo senso, i neomaterialisti evitano di analizzare i media come prodotti. Ciò significa, in primo luogo, bypassare le questioni associate alla rappresentazione e, dunque, concentrarsi non su ciò che avviene “sullo schermo”, ma su ciò che avviene “dietro lo schermo”, ovvero prima e dopo che la funzione sociosimbolica dei media si è esplicata. Questa prospettiva focalizza l’attenzione sulla mutua interazione tra attori umani e non umani coinvolti nella produzione e nel consumo dei media. Tali approcci costituiscono un campo di ricerca interdisciplinare, che spazia dalla scienza dell’intelligenza artificiale a Technology Studies, Gender Studies, Media Studies e alla filosofia della comunicazione. Oltre a osservare le forme materiali dei media digitali, i neomaterialisti si concentrano sulle affordance, analizzando le condizioni che presiedono alla produzione, all’uso e alla dismissione dei media. Un approccio di questo tipo richiede naturalmente un’analisi critica delle dinamiche politiche, economiche e sociali del mediascape. L’agentività tecnologica viene letta non come un fattore neutro che può essere compreso e descritto, ma come una forza potenzialmente pericolosa nella società globale del XXI secolo: aspetti materiali e discorsivi, infatti, non sono affrontati separatamente, in quanto la materialità è riconosciuta come un agente di produzione del significato.

  1. Teorie

Tre importanti riferimenti teorici nell’ambito del materialismo digitale sono Judith Butler, Donna Haraway e l’Actor Network Theory (ANT). La prima, mettendo l’accento sulla dimensione processuale, interpreta la materia non come una superficie o uno spazio, ma «as a process of materialization that stabilizes over time to produce the effect of boundary, fixity and surface»[12]. La teorica femminista Donna Haraway elabora invece il concetto di riconfigurazione materializzata (materialized reconfiguration), che unisce desideri, ragioni e mondi materiali[13]. Infine, l’Actor Network Theory, importante teoria formalizzata principalmente da Latour[14] e da Law e Hassard[15], è stata sviluppata nell’ambito della sociologia della scienza per indagare l’ordine sociale attraverso i network di connessioni tra esseri umani, tecnologie e oggetti. Le entità (umane o non-umane) dentro questi network acquistano potere grazie al loro numero, all’estensione e alla stabilità delle connessioni, che sono contingenti e storicamente determinate. Il successo delle connessioni assicura ai network la capacità di apparire come una forza naturale, nascondendo il processo di costruzione che li ha determinati.

Questi primi riferimenti teorici trovano accoglimento soprattutto negli studi femministi sulle tecnologie, ma già dagli anni Duemila si segnalano nuovi approcci allo studio materialistico dei media digitali. Fuller[16], ad esempio, rileva prima di altri come gli oggetti, mentre si connotano più per le proprietà informazionali che per quelle fisiche, non perdono la loro fondamentale dimensione materiale: le sue ricerche si indirizzano dunque a interrogare le interazioni dinamiche tra oggetti ed esseri umani, concetti e materia, in un approccio che valorizza l’interdipendenza tra sistemi materiali e pratiche culturali.

Alcuni anni dopo, Parikka compie un salto qualitativo nella ricerca sul materialismo digitale, attraverso due fondamentali passaggi. Il primo, di tenore teorico, consiste nella proposta di adottare il «new materialism as media theory»[17]; il secondo, di rilievo metodologico, concerne nella messa a punta di un metodo di ricerca che studia i meccanismi interni di funzionamento dei dispositivi digitali e delle reti in cui le macchine sono prodotte, distribuite ed eliminate. In un testo successivo[18], Parikka sviluppa queste intuizioni, connotando i Media Studies come studio dei componenti e, quindi, proponendo di esplorare i media prima e dopo il loro funzionamento come oggetti funzionali e simbolici. Come altri studiosi, il lavoro di Parikka si ispira alla centrale lezione di Kittler[19], che invita a concentrarsi sull’hardware che rende possibili i media digitali. Il mediologo finlandese, nel solco di questa intuizione, si dedica non solo ad indagare i meccanismi di funzionamento dei componenti tecnologici dei media digitali, ma anche ad esplorare che tipo di elementi non-umani e inorganici ne consentono l’attivazione. In questa prospettiva, lo studio dei materiali dei componenti tecnologici (metallici, minerali, chimici) è propedeutico alla comprensione ecosistemica dei contesti politici, sociali ed economici in cui si dispiega la dimensione materiale dei media digitali.

D’altronde Kittler[20] aveva provocatoriamente affermato che il software è semplicemente il frutto della nostra immaginazione, invitando gli studiosi dei media a concentrarsi su ciò che è realmente rilevante: l’hardware, appunto. Probabilmente, la potenziale rievocazione di una dicotomia tra materialità e immaterialità è il reale limite di questo approccio, tuttavia centrale nel successivo sviluppo del materialismo digitale all’interno dei Media Studies.

Anche nel campo dei Software Studies, circa un decennio dopo il lavoro profetico del teorico teutonico, sono pubblicati una serie di studi, indirizzati ad evidenziare come la materialità incide, a diversi livelli, anche sul funzionamento dei programmi informatici[21]. Partendo dalla nozione che il software ha una propria storia e una propria agency, determinate da fattori tecnologici, sociali e culturali, i Software Studies entrano in un dialogo sempre più fitto con il campo più vasto dei Media Studies. Si contano, così, diversi studi sulle modalità con cui i fondamenti concettuali e tecnologici di computer, algoritmi, linguaggi di programmazione e interfacce[22] incidono sugli usi quotidiani dei media[23], sulle culture degli utenti mobile[24], sul digital storytelling[25] e sugli stessi processi di mediazione nella società contemporanea[26]. I Software Studies occupano dunque un territorio particolarmente fecondo di sviluppi nel campo del materialismo digitale, a metà tra la Media Archaeology e la storia culturale, attirando studiosi di variegata provenienza (antropologi, designer, biologi, linguisti, architetti e così via) a riflettere sui molteplici livelli di coinvolgimento interazionale tra processi sociali, forme di conoscenza e macchine programmate.

  1. Tensioni

Nonostante le notevoli divergenze nel campo del materialismo dei media, i tre approcci fondamentali – teoria materialista dei media (vicina alla Media Archaeology), ecologia dei media e Software Studies – contribuiscono a evidenziare le materialità dimenticate e a contrastare la percezione comune dell’esperienza mediale. Questi studi mirano a illuminare oggetti e pratiche neglette dai tradizionali approcci sociologici e culturologici allo studio dei media, favorendo anche una svolta metodologica adatta ai fenomeni analizzati.

Uno degli obiettivi comuni dei vari approcci è evidenziare come la ricerca sui media richieda necessariamente un’indagine sulle infrastrutture, i meccanismi e i dispositivi tecnologici, oggetti di ricerca molto più oscuri e sfuggenti del contenuto veicolato dai media stessi. Indagare la materialità mediale deve contemplare un’analisi delle implicazioni storiche, socio-economiche ed ecologiche delle componenti tecnologiche, anche quando la ricerca è focalizzata su oggetti presumibilmente immateriali come i software. Il materialismo digitale, nell’eterogeneità degli orientamenti disciplinari di cui si compone, utilizza la materialità come un concetto chiave, a partire dal quale interrogare eventi e fenomeni poco o nulla indagati dalla mediologia dei decenni precedenti, adottando contestualmente metodologie innovative.

In ciascuno dei framework teorici presentati in precedenza, si parte dall’idea che il mito dell’immaterialità abbia celato, in qualche modo, la complessità delle dimensioni naturali e materiali della cultura digitale. Sulla base di questa asserzione largamente condivisa, si sviluppano differenziati percorsi teorico-analitici, talvolta in relazione oppositiva o contrastiva. Uno dei campi di tensione maggiore, come nota Casemajor[27], concerne il dibattito teorico che oppone determinismo ermeneutico e determinismo tecnologico. L’approccio di Kittler, per parlare di uno dei fondatori del pensiero materialista sui media digitali, è anti-ermeneutico, realista e focalizzato sulla causalità tecnica. Dalla centralità riservata agli aspetti tecno-matematici dell’informazione digitale, discende la relativa scarsa attenzione, nell’impianto teorico kittleriano, delle dimensioni semantico-testuali e dei fattori sociali della comunicazione digitale. Le posizioni teoriche di Manovich appaiono invece più assimilabili ai Cultural Studies anglosassoni, più attenti a prospettive centrate sull’utente mediale: nei suoi contributi prevale, infatti, l’analisi di aspetti come l’usability, il design, l’esperienza estetica, i significati culturali del rapporto con i media digitali. Ancora di tenore diverso è l’approccio testuale adottato da Hayles, molto influenzato dall’ermeneutica, dal costruzionismo sociale e dal soggettivismo, che concepisce la materialità come processo dialettico tra fisicità e interpretazione.

Essendo prevalentemente centrato sulla dimensione politica dei media digitali letta attraverso il materialismo, il framework teorico delle ecologie dei media e degli approcci marxisti offre un ulteriore punto di vista in materia. Questi studi condividono l’accento posto sul legame tra materialità digitale ed economia politica, concentrandosi in particolare sul ruolo dell’industria digitale nell’elaborazione dell’insostenibile modello di crescita alimentato dal capitalismo nell’era delle reti. Anche nel campo delle teorie marxiste del materialismo digitale è possibile individuare voci più critiche, come quella di Bennett, schierato su posizioni alternative agli approcci focalizzati sul soggetto ermeneutico o sulle soggettività politiche del popolo. II suo lavoro è invece vicino all’ANT di Latour, da cui eredita la visione della storia come storia delle cose naturali e non solo degli individui e dei popoli[28]. Inoltre Bennett apporta una marcata critica alle filosofie materialiste per la mancanza di una seria prospettiva di intervento politico, rivendicando la centralità di questioni come lo sfruttamento del lavoro umano e delle risorse naturali e inorganiche.

Al di là delle fibrillazioni teoriche che attraversano il campo interdisciplinare, i diversi approcci continuano a percorrere le differenti possibilità teoriche e analitiche a partire dal comune rifiuto del mito della dematerializzazione dei dispositivi digitali. In questa chiave, il tropo dell’immaterialità tecnologica diventa esso stesso un oggetto culturale di studio per il variopinto campo disciplinare che, con Casemajor[29], possiamo definire “Digital Materialist Studies”: studiare questo particolare oggetto può contribuire alla comprensione dell’immaginazione tecnologica occidentale e del processo materiale di oggettivizzazione.

  1. Orizzonti

Partendo dall’osservazione di Thacker[30], secondo cui la concezione delle reti quali media materiali aiuta la comprensione della complessificazione e diversificazione delle relazioni di potere nelle società contemporanee, Pötzsch[31], in una preziosa ricognizione degli avanzamenti della teoria, suggerisce quattro “lenti” materialiste (tecnologia, economia e lavoro, corpo, ecologia) che possono favorire l’apertura di nuovi percorsi di ricerca ed esplorare aree ancora sottostudiate della società digitale contemporanea. La studiosa individua inoltre, nella miopia dei discorsi utopici e distopici sull’evoluzione delle tecnologie, un altro oggetto che i Digital Materialist Studies dovrebbero decostruire criticamente. Ci sembra in particolare che le quattro aree di esplorazione materialistica suggerite dalla teorica favoriscano un’analisi più completa degli effetti ambivalenti dei media digitale, poiché permettono di concentrarci sulla natura mutualistica e dialettica delle relazioni tra individui, gruppi e ambienti socio-tecnologici. Il dato metodologicamente innovativo della proposta teorica di Pötzsch è che essa si fonda sulla necessità di esplorazione di tutte e quattro le lenti, evitando così distorsioni dei risultati producibili studiandone una sola. Sulla base della fitta interrelazione tra le lenti, lo studio evidenzia come le implicazioni tra tecnologie materiali, condizioni economiche, corpi biologici e relazioni di produzione siano mutualmente interdipendenti.

In una prospettiva simile, Parks e Starosielski[32] invitano a ripensare ai network digitali come complesse formazioni materiali che operano a diversi livelli, combinando processi globali, strutture intermedie, pratiche individuali e ambienti quotidiani. Tra le evoluzioni possibili del campo degli studi materialisti sui media digitali, il contributo di Pötzsch appare particolarmente fecondo poiché lavora nella direzione di problematizzare la questione della supremazia del soggetto umano e, di conseguenza, di rivedere criticamente le relazioni tra attori umani e non umani, ripensando in particolare la questione della distribuzione della agentività. Riconnettendosi a Coole[33], Pötzsch, infatti, pensa che sia ancora possibile una particolare forma di agency umana che, sebbene frammentata e predisposta dai sistemi tecnologici, mantiene ancora la capacità di auto-riflessione.

Una seconda interessante evoluzione del materialismo digitale interroga direttamente la mediologia italiana. È in questo territorio, infatti, che Alberto Abruzzese ha praticato una forma originale di archeologia dei media, analizzando acutamente i processi attraverso i quali la civiltà di fine Ottocento abbia posto le basi per l’implementazione del complesso mediascape novecentesco[34]. Borrelli e Fiorentino[35], valorizzando il processo di indagine abruzzesiano, affermano che

fare la storia dei dispositivi mediali implica [...] tracciare una genealogia complessa dei conflitti materiali e simbolici da cui essi hanno preso forma, così come delle forme di vita che vi hanno impresso il sigillo del proprio dominio, delle passioni e dei desideri che li hanno investiti, degli immaginari culturali e dei protocolli tecnici che vi si sono inscritti e stratificati e delle pratiche sociali che di volta in volta si sono imposte per loro tramite.

I due studiosi recuperano anche il pensiero di Michel Foucault[36], ricordando come, per il filosofo francese, una ricostruzione genealogica sia una storia di “emergenze”; trattare, dunque, un medium come emergenza equivale a considerarlo come un luogo di scontro socioculturale. La sfida che si pone per la mediologia italiana, rispetto al campo interdisciplinare del materialismo digitale come teoria dei media, è applicare l’approccio delle archeologie mediali di stampo abruzzesiano ad oggetti, pratiche e fenomeni del mediascape contemporaneo. Nel dettaglio, riflettere sulle condizioni materiali dei media digitali attraverso il pensiero abruzzesiano significa ricostruire genealogicamente i processi tecnologici, socioculturali ed economici attraverso i quali gli old media – intesi come dispositivi complessi dalle proprietà processuali e interazionali – si riconfigurano in network ecosistemici che presiedono alla transizione dalla medialità analogica a quella digitale. L’obiettivo di un tale framework teorico potrebbe essere quello di illuminare le materialità nascoste, i dead e zombie media e le scissioni e le fratture culturali che tale complessa evoluzione comporta.

 

 


[1] F. Kittler, There Is No Software, in «CTheory», October 18, 1995, disponibile all’indirizzo http://ctheory.net/ctheory_wp/there-is-no-software-2/ [ultimo accesso 15/11/2017].

[2] G. Frezza, Post-umanità di viventi e zombi, in Endoapocalisse. The Walking Dead, l’immaginario digitale, il post-umano, a cura di G. Frezza, AreaBlu, Cava dei Tirreni 2015, p. 271.

[3] W.H.K. Chun, Programmed Visions: Software and Memory, The MIT Press, Cambridge 2011; M. van de Boomen, S. Lammes, A.-S. Lehmann, J. Raessens, M.T. Schäfer (eds.), Digital Material: Tracing New Media in Everyday Life and Technology, Amsterdam University Press, Amsterdam 2009.

[4] J. Parikka, New materialism as media theory: Medianatures and dirty matter, in «Communication and Critical/Cultural Studies», 9, 1, 2012.

[5] Si rinvia, tra gli altri, a J. Hondros, The Internet and the Material Turn, in «Westminster Papers in Culture and Communication», 10, 1, 2015; T.H. Apperley, D. Jayemane, Game studies’ material turn, in «Westminster Papers in Communication and Culture», 9.1, 2012; A.G. Kitzmann, The Material Turn: Making Digital Media Real (Again), in «Canadian Journal of Communication», 30.4, 2006. Specifici campi di indagine del material turn si rinvengono in J.P. Bockzowksi, The Material Turn in the Study of Journalism: Some Hopeful and Cautionary Remarks from an Early Explorer, in «Journalism», 16, 1, 2015, con riferimento al giornalismo, e in E. Robles, M. Wiberg, Texturing the “material turn” in interaction design, in Proceedings of the Fourth International Conference on Tangible, Embedded, and Embodied Interaction TEI 2010, AMC Press, New York 2010, con riferimento al design.

[6] J. Parikka, New materialism as media theory, cit.; Id., A Geology of Media, University of Minnesota Press, Minneapolis 2015; S. Cubitt, The Practice of Light: A Genealogy of Visual Technologies from Prints to Pixels, The MIT Press, Cambridge 2014; M. Goddard, Opening up the black boxes: Media archaeology, “anarchaeology” and media materiality, in «New Media & Society», 17, 11, 2014; S. Taffel, Escaping attention: Digital media hardware, materiality and ecological cost, in «Culture Machine», 13, 2012.

[7] A. Niebisch, Media Parasites in the Early Avant-Garde: On the Abuse of Technology and Communication, Palgrave Macmillan, Basingstoke-New York 2012; S. Cubitt, Eco Media, Rodopi, Amsterdam/New York 2005; M. Fuller, Media Ecologies: Materialist Energies in Art and Technoculture, The MIT Press, Cambridge 2005.

[8] D.M. Berry, The Philosophy of Software: Code and Mediation in the Digital Age, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2011; W.H.K. Chun, On ‘Sourcery’, or Code as Fetish, in «Configurations», 16, 2008; M. Fuller, Behind the Blip: Essays on the Culture of Software, Autonomedia, New York 2003; M. Fuller, Software Studies: A Lexicon, The MIT Press, Cambridge, 2008; L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, Milano 2002; L. Manovich, Software Culture, Olivares, Milano 2010; L. Manovich, Software Takes Command, The MIT Press, Cambridge 2013.

[9] N.K. Hayles, Writing Machines, The MIT Press, Cambridge 2002; Id., Print Is Flat, Code Is Deep: The Importance of Media-Specific Analysis, in «Poetics Today», 25, 1, 2004.

[10] N. Casemajor, Digital Materialisms: Frameworks for Digital Media Studies, in «Westminster Papers in Culture and Communication», 10, 1, 2015; M. van den Boomen, Transcoding the Digital: How Metaphors Matter in New Media, Institute of Network Cultures, Amsterdam 2014; C. Fuchs, The Implications of New Information and Communication Technologies for Sustainability, in «Environment, Development and Sustainability», 10, 3, 2008; C. Fuchs, Foundations of Critical Media and Information Studies, Taylor & Francis, Hoboken 2011; Id., Digital Labour and Karl Marx, Routledge, New York 2014; J. Bennett, Vibrant Matter: A Political Ecology of Things, Duke University Press, Durham 2009; N. Dyer-Witheford, Cyber-Marx: Cycles and Circuits of Struggle in High-Technology Capitalism, University of Illinois Press, Chicago 1999.

[11] R. Reichert, A. Richterich, Digital Materialism, in «Digital Culture & Society», 1, 1, 2015.

[12] J. Butler, Bodies that Matter: On the Discursive Limits of Sex, Routledge, New York-London 1993, p. 9.

[13] D. Haraway, Modest − Witness@ Second − Millennium. Female-Man − Meets − OncoMouse: Feminism and Technoscience, Routledge, London-New York 1997, p. 64.

[14] B. Latour, Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica, Eleuthera, Milano 1995; Id., Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Raffaello Cortina, Milano 2000; Id., Reassembling the Social: An Introduction to Actor-Network Theory, Oxford University Press, NewYork 2005.

[15] J. Law, J. Hassard, Actor Network Theory and After, Blackwell, Oxford-Malden 1999.

[16] M. Fuller, Media Ecologies..., cit.

[17] J. Parikka, New materialism as media theory, cit., p. 98.

[18] Id., A Geology of Media, cit.

[19] F. Kittler, op. cit.

[20] Ibid.

[21] L. Manovich, op. cit.; M. Fuller, Behind the Blip, cit.; N.K Hayles, Print Is Flat, Code Is Deep..., cit.; W.H.K. Chun, On ‘Sourcery’, or Code, cit.

[22] A. Galloway, Protocol. How Control Exists after Decentralization, The MIT Press, Cambridge 2004; A. Galloway, Gaming: Essays on Algorithmic Culture, University of Minnesota Press, Minneapolis 2006.

[23] R. Kitchin, M. Dodge, Code/Space: Software and Everyday Life, The MIT Press, Cambridge 2011.

[24] P.D. Miller, S. Matviyenko (eds.), The Imaginary App, The MIT Press, Cambridge 2011.

[25] N. Wardrip-Fruin, Expressive Processing, The MIT Press, London 2011.

[26] D.M. Berry, op. cit.

[27] N. Casemajor, op. cit., p. 13.

[28] B. Latour, Non siamo mai stati moderni, cit.

[29] N. Casemajor, op. cit., p. 14.

[30] E. Thacker, Foreword: Protocol Is as Protocol Does, in A. Galloway, A Protocol: How Control Exists After Decentralization, cit.

[31] H. Pötzsch, Media Matter, in «tripleC», 15, 1, 2017, p. 164.

[32] L. Parks, N. Starosielski, Introduction, in Signal Traffic: Critical Studies of Media Infrastructures, a cura di L. Parks e N. Starosielski, University of Illinois Press, Urbana 2015.

[33] D. Coole, Agentic Capacities and Capacious Historical Materialism: Thinking with New Materialisms in the Political Sciences, in «Millennium: Journal of International Studies», 41, 3, 2013.

[34] A. Abruzzese, Forme estetiche e società di massa, Marsilio, Venezia 1973; Id., La grande scimmia, Napoleone, Roma 1979; Id., Lo splendore della tv. Origini e destino del linguaggio audiovisivo, Costa & Nolan, Genova 1995; Id., L’intelligenza del mondo. Fondamenti di storia e teoria dell'immaginario, Meltemi, Roma 2001; A. Abruzzese, D. Borrelli, L’industria culturale, Carocci, Roma 2000.

[35] D. Borrelli, G. Fiorentino, Lo splendore dei media. I mezzi di comunicazione che hanno fatto la storia, in «Mediascapes Journal», 8, 2017, p. 5.

[36] M. Foucault, Microfisica del potere, tr. it. Einaudi, Torino 2001, p. 39.

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